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Nella selvaggia Val
Lesina capre della Valgerola e pastori scrivono un capitolo della lunga storia
degli alpeggi valtellinesi.
di Michele Corti
04 Settembre 2006

Pastore
al lavoro all'Alpe Legnone
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La Val Lesina è una valle selvaggia delle
Orobie valtellinesi che si apre a ventaglio nella parte alta, ma che – come
diverse altre aspre valli di questo versante della valle dell’Adda - si stringe
ad imbuto verso il basso con forre profonde solcate dall’omonimo torrente. Il
torrente Lesina è l’ultimo ad apportare le sue acque al fiume prima della sua
immissione nel Lago di Como. La Valle - che ricade per lo più nel territorio
del comune di Delebio - fa parte storicamente dell’areale della produzione del
Bitto (tutti i 7 alpeggi lo producevano) e della capra della Valgerola
(quest'ultima nota ufficialmente col il nome di Orobica per non scontentare
lecchesi e bergamaschi). Gli alpeggi della Val Lesina sono stati quasi del
tutto abbandonati a causa della difficoltà di accesso. Solo uno: Panzone, alias Corte della Galida, è
raggiungibile con mezzi fuoristrada che devono percorrere 7,5 km di una
ripidissima (e scivolosa) mulattiera. Quest'ultima veniva un tempo utilizzata
per lo scorrimento delle bore
(tronchi di resinose). Data questa antica funzione di “veicolazione” del
legname non è difficile immaginare come le curve del tracciato assomiglino a
quelle di un toboga. Gli altri alpeggi sono raggiungibili solo mediante non
comodi sentieri.
La morfologia della valle e la sua scarsa frequentazione ne hanno in qualche
modo esaltato le valenze naturalistiche. Come denunciano gli stessi toponimi
(Dosso dei Galli, Galida ecc.) l’alta valle è habitat ideale dei tetraonidi ed in particolare del Gallo
forcello (loc. gall, femm. gaìna). Ancora di recente è stata
segnalata la presenza del Gallo cedrone. Essa, se venisse confermata,
conferirebbe una grande importanza alle stazioni interessate, dal momento che
esse rappresenterebbero l’estremo limite meridionale ed occidentale dell’areale
di questa specie fortemente minacciata. L’avvistamento dei camosci è molto
facile mentre i caprioli possono essere osservati tutte le sere presso l’Alpe
Legnone, di cui ci occuperemo meglio tra poco.

Il
rudere del calécc prima del recupero
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Nel novembre del 2004 mi sono recato per la
prima volta all’Alpe Legnone (oggi caricata insieme a Panzone) per impostare un
progetto di ricerca mirante a finalizzare la gestione del pascolo ovicaprino al
miglioramento dell'habitat
dei tetraonidi. In tale occasione ho osservato, oltre a un gregge di capre
“allo sbando” (di cui non poche, putroppo, meticciate con la globalizzata
Camosciata), il rudere di un bel calécc
che attirò la mia attenzione. I calécc sono
“capanne casearie” costituite da un perimetro quadrato o rettangolare di
muriccia a secco alta un metro. Come copertura viene collocato un telone
impermeabile sorretto da pertiche. Il calécc
e l’aggiunta del latte di capra costituiscono “quello
che fa la differenza” tra il Bitto autentico e altri sia oure ottimi formaggi
grassi d'alpe. Tanto è vero che quest’anno i “ribelli del Bitto”, ( ossia i
produttori storici della valle del Bitto, che si oppongono al suo snaturamento
da parte del Consorzio di (presunta) tutela), diffidati dal Ministero delle
Politiche Agricole dall’ utilizzare la denominazione “Bitto”, marchieranno le
forme con il nome dei singoli alpeggi e, per l’appunto, con il simbolo grafico
del calécc.
All’Alpe Legnone vi erano decine di calécc (come testimoniano i resti). Qui
– come negli altri alpeggi della zona storica di produzione del Bitto – si
lavorava il latte appena munto e qui dormivano i pastori per essere vicini alla
malga delle vacche (viene
denominata malga sia la
mandria di bovine da latte che il gregge di capre da latte). I calécc erano sparsi sui pascoli;
venivano utilizzati per quei pochi giorni durante i quali le vacche pascolavano
l’area circostante. Ogni anno si usavano solo una parte dei calécc in modo da distribuire in modo
uniforme nel tempo e nello spazio la fertilità restituita al terreno con le
deiezioni degli animali (c’è da riflettere sull’involuzione ha subito
l’alpicoltura!). Il calécc
della nostra storia era (è) un calécc particolare;
come altri dell’Alpe Legnone era un calécc
“di lusso” (il perché lo capiremo poi), realizzato
predisponendo un terrapieno (contenuto da apposito muretto) in modo da poter
lavorare (e vivere) un po’ più agevolmente all’interno di uno spazio a pendenza
più ridotta e più asciutto di altri
calécc. Al calécc
si accede salendo alcuni gradini.

Il
calécc
ripristinato
Nell’autunno 2005 a progetto approvato (si
tratta di un progetto Interreg III A Italia- Svizzera denominato Leshabitat)
sono tornato sul posto e la sorpresa (e la soddisfazione) sono state grandi
quando ho rivisto il calécc
completamente ripristinato grazie agli interventi previsti dal progetto. Per
meglio sostenere il telone era stata eretta una vera e propria intelaiatura con
tondi di larice (la materia prima non manca!) . Nell’estate 2006 ho avuto la
soddisfazione di vedere il calécc
in attività. Mentre nei calécc
ancora in funzione della vicina Valle del Bitto si lavora latte vaccino
addizionato a quello caprino (10-20%), qui all’Alpe Legnone, ai piedi della
massiccia piramide dell’omonimo monte alto 2.600 m, si lavora solo latte
caprino. Sull’alpe vi sono 140 capre (quasi tutte della razza di Valgerola) e
80 pecore da carne (incroci vari tra ceppo locale, Bergamasca e Suffolk), ma
nessuna vacca. Nonostante la grande estensione dei pascoli e la discreta
giacitura degli stessi, l’abbandono di anni ha trasformato i bei pascoli di un
tempo in distese di cervin (Nardus stricta) e di scergnòn (Festuca varia).

Capre
al calécc per la mungitura
Il ritorno alla mungitura delle capre a alla
lavorazione del latte sul posto (iniziata nel 2005 e consolidatesi quest’anno)
sono comunque una lieta novella che potrebbe anche preludere al ritorno di un
numero sufficiente di vacche in grado di consentire la produzione di una forma
di Bitto per munta. Con il latte di capra vengono comunque già prodotti ottimi
latticini: la formagella d’alpe, la maschèrpa
de múnt, e gli agrìn
“legnoncini” (formaggino lattico tradizionale delle Orobie occidentali). Il
casaro (il Milio), che aveva per tutta la vita lavorato latte vaccino o misto,
non ha fatto fatica ad imparare a valorizzare il latte caprino “puro”. Da
alpeggi dove ormai pascolavano ormai solo un po’ di capre (precocemente
asciugate), pecore da carne e un po’ di bovini Angus e di incrocio vario)
scende a valle (sulle spalle di un motociclista “trialista”) un formaggio
caprino che – nonostante la quantità limitata - sta cominciando ad essere
riconosciuto ed apprezzato nei paesi del fondovalle. Anche commercianti
provenienti “da fuori” lo pagano – cosa purtroppo non frequente - ad un prezzo
che costituisce una ragionevole ricompensa per la qualità del prodotto e le non
facili condizioni di lavoro . Ovviamente non si parla di mangimi e fermenti
industriali!
Le capre, condotte da un pastore rumeno
“migrante stagionale”, sfruttano vaste aree occupate dalla boscaglia e tengono
liberi i pascoli residui dall’invasione degli arbusti e dall’avanzata del
bosco.

Capra
della Valgerola al pascolo nel sottobosco
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Capre
al pascolo nella boscaglia di Ontano verde
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La striscia di pascolo che scende lungo il
crinale al disotto dei fabbricati dell’alpe e che costituisce un segno
paesistico visibile a decine di km dalla Valchiavenna, è così mantenuta
“pulita”, consentendo agli escursionisti di ammirare uno dei più bei panorami
della Lombardia: uno scenario che comprende le cime delle Alpi Lepontine
dell’Alto Lario Occidentale e quelle retiche della val Masino, buona parte
della Valchiavenna e della val S. Giacomo, l’estrema propaggine settentrionale
del Lago di Como, il Pian di Spagna con il Lago di Mezzola e tutto il
fondovalle, solcato dalle anse dell’Adda, della bassa Valtellina. Ma le
nostre capre svolgono anche un’altra funzione: mantenendo la striscia di
pascolo libera dal bosco consentono ai caprioli (che appaiono regolarmente ogni
sera) di alimentarsi nell’ “orlo forestale”, quella fascia che non è più
pascolo, ma non è ancora bosco e che è ricca di diverse essenze arbustive.
Protagonisti di questa bella esperienza di
recupero, che coniuga obiettivi naturalistici con quelli di una gestione
pastorale sostenibile, aperta al turismo e alla gastronomia tipica, sono, oltre
all’Ersaf (Ente regionale per i servizi agricoli e forestali), che dal 1973 è
proprietario degli alpeggi in discorso (e che ha provveduto agli interventi di
miglioria indispensabili per la “rinascita”), due veterani dell’Alpe Legnone:
il Marco (Marco Tognina), che svolge il ruolo di cargamúnt (ossia l’affituario-gestore dell’alpeggio) e il
Milio (Emilio Acquistapace), che funge da casaro.

Mungitura
in alpeggio (Milio)
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Lavorazione
del latte (Milio)
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Filtratura
del latte (Marco)
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Marco Tognina è salito come cascìn per la prima volta all’Alpe
Legnone nel 1959 (il cascin
era il pastorello-servitorello, il nome deriva dal verbo cascià, ossia spingere
il bestiame – specie asciutto - su sponde scoscese e sassose). Quando Marco è
stato più grandicello è passato al più impegnativo ruolo di cavréer che, oltre alla non facile
“gestione” delle capre, comportava alcuni compiti ausiliari quali il trasporto
dell’ agréer, ossia la botticella
con il siero acidificato che serviva per far preparare la maschèrpa (ricotta grassa).

Il
casaro Emilio Acquistapace
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Il “Milio” (Emilio) Acquistapace ,
classe 1937 a 10 anni era cascìn
all’Alpe Lucerna (sempre in Val Lesina), poi pastore all’Alpe Legnone e quindi
casaro in Val di Lei (Valchiavenna) e, sino al 2004, all’ Alpe Sasso
(Valsassina) . Nel 2005 è tornato all’Alpe Legnone.
I ricordi del Milio e del Marco ci fanno
capire com’era la vita degli “operatori d’alpeggio” del passato. Noi siamo
propensi a mitigare l’immagine di “vita dura” del “tempo che fu” con
considerazioni circa una maggiore socialità e un regime di lavoro scandito da
orari e compiti precisi; ma il Milio nel suo modo di esprimersi semplice ed
asciutto non lascia troppo spazio ad edulcorazioni retrospettive: “era una vita
triste”. E’ proprio il nostro calécc,
simbolo di un insperata rinascita del pastoralismo in Val Lesina, che ci
riporta alla realtà un po’cruda di oltre mezzo secolo fa. Indicando l’angolo
del calécc occupato dai
“letti a castello” il casaro ci racconta che in uno spazio molto ristretto
dormivano 7 persone: in alto il casaro (casèr)
con il suo tirapiedi (cascinèr),
in mezzo i pastori e in basso i cascìn.
Per materasso c’erano solo le frasche dei
maròss (l’ontano alpino). La razione dei cascìn era costituita da 3 etti di
formaggio (ma in tempi ancora più lontani c’erano solo sottoprodotti della
lavorazione del latte e maschèrpa!)
più, ovviamente, la polenta e, alla sera, la minestra (latte di capra diluito
con pochissimo riso). I ricordi del Milio, però, sono concentrati sul
companatico, sulla “sostanza” e su quella sua razione di formaggio: “a
mezzogiorno avevo già mangiato tutto quello che mi davano per la
giornata”. Non c’è rancore nelle sue parole, ma tiene a ricordare che “i
caricatori piuttosto buttavano via il latte che avanzavano per non darti più di
quello che ti spettava”.
Parallelamente a queste microstorie, che
però riflettono aspetti importanti di storia sociale alpina, l’Alpe Legnone è
stata lambita anche dalle storie generali ed in particolare dalle conseguenze
dirette ed indirette dei conflitti del ‘900. Nel primo dopoguerra è stata
donata dal comune alla locale Cooperativa combattenti (che ne è stata
proprietaria sino al 1973) e che attuava una gestione molto razionale e
lungimirante (di qui i “calécc
di lusso”). Nel 1944 in due diverse occasioni il “baitone” dell’alpe è stato
incendiato dalle Brigate nere e alcuni pastori vennero arrestati per connivenza
con i partigiani e deportati in Germania. Nel 1949, grazie al lavoro di una
squadra di “segantini” trentini, il fabbricato è stato riedificato nella forma
attuale. Anche il nostro calécc
ha una sua storia: è stato l’ultimo realizzato dalla Coop dei combattenti negli
anni ’60. Nel 1965 venne acquistato il telone impermeabile che ancor oggi lo
copre; esso è stato utilizzato sino al 1990. Poi l’abbandono. Quindi la
“rinascita” del 2005. Considerato che il telone non ha nemmeno una toppa c’è da
augurarsi che possa prestare servizio ancora per lunghi anni ed essere protagonista
di piccole-grandi storie possibilmente non "tristi".

Il
"Baitone" dell'Alpe Legnone
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Cartello
vendita formaggi
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