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Commenti/Colonialismo culturale

 

  

 

 

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Nella rubrica 'lettere a Ruralpini' pubblichiamo la replica di Christian Arnoldi ai nostri commenti sulle sue pubblicazioni inseriti nel presente articolo

L'accostamento alle sue considerazioni sulla 'montagna triste' e il 'colonialismo' culturale va evidentemente colto come una provocazione. Una messa in guardia contro la riproposizione, sia pure sottile e 'scientifica' di vecchi stereotipi. Forse un po' troppa irruenza argomentativa da parte mia ha impedito di far emergere questa intenzione. M.C.

 

 

(05.03.10) Sull'onda di alcuni  tragici fatti di cronaca ampiamente rimbalzati sui media e delle statistiche sui suicidi, che vedono in testa alcune provincie montane, si è rilanciato da parte di alcuni studiosi il cliché della 'montagna triste'. Dai 'tristi tropici' alle 'tristi montagne'?

 

Le montagne? Posti tristi! Ovvero nuove e vecchie forme di colonialismo culturale

 

di Michele Corti

 

Una volta i montanari erano descritti come miserabili, sporchi, 'selvatici'. Oggi di fronte all'evidenza del superamento del gap economico tra la montagna e la pianura si cerca di dimostrare la perenne condizione di inferiorità della montagna ricorrendo a considerazioni antropologiche sul 'malessere alpino'.

 

«I contadini della zona alpina sono talvolta in condizione ben triste, specie nelle valli alte più di 1000 metri (…), sono perciò spesso in nulla dissimili dai loro confratelli del Mezzogiorno (…). Sudici, ignoranti, amici del loro campanile soltanto (…) segregati dal mondo civile (…)» A. Mariani 1910 ( p. 433.)

Non molto è cambiato dal 100 anni a questa parte. Gli intellettuali urbani hanno dovuto prendere atto che il gap tra il reddito medio della montagna e della pianura si è enormemente colmato. Anche nelle località colpite dallo spopolamento pluriattività, attività stagionali, frontalierato, redditi dei percettori di pensioni definiscono un quadro in cui non è certo il fattore economico a rappresentare un handicap.

Ecco allora che la 'tristezza' della montagna viene attribuita ad una 'miseria esistenziale' fatta di isolamento, 'controllo sociale'.

Il fatto è che da tempo i montanari percepiscono sè stessi e la loro realtà con i filtri di una cultura urbana interiorizzata. Da ormai diversi anni valori e disvalori sono valutati con il metro di un riferimento alla realtà urbana altrettando idealizzato delle visioni bucoliche della montagna delle 'bianche vette e dei verdi alpeggi' (sui quali torneremo oltre) che rappresenta la rappresentazione ad uso turistico. E' una montagna giudicata dagli stessi montanari con gli occhi della cultura urbana quella che determina il 'lamento'.

La sensibilità degli antropologi però pare non registrare il fatto che, mano a mano che la forma di vita urbana diventa quella assolutamente prevalente (Europa 75% della popolazione, Mondo ormai oltre 50%) e che, anche in montagna, tendono a prevalere gli aspetti del modo di vivere urbano (automobile, ipermercato, internet, cellulare) l'immagine positiva, privilegiata e desiderabile  della 'superiore' vita urbana si incrina e, anche nelle aree 'periferiche', si diffonde la cultura del 'rigetto urbano'.  L'immagine di scarsa vivibilità della città, già associata all' 'aria cattiva' e al traffico caotico, è ora ulteriormente compromessa sul piano della scarsa sicurezza con le immagini che quotidianamente la televisione (You tube e simili) portano anche nelle case di montagna.

Qualità di vita, disponibilità di servizi, occasioni di svago e socializzazione nelle periferie urbane (peraltro caratterizzate da un reddito inferiore alla montagna) sono quello che sono e oggi anche i montanari lo sanno per esperienza diretta o indiretta. Quanto alla 'ricchezza di opportunità' della vita urbana è evidente che riguarda minoranze più o meno privilegiate. Senza entrare nel complesso problema dell'immigrazione e dei ghetti etnici (ormai una realtà del panorama urbano delle nostre città) e limitandoci alla popolazione 'autoctona' viene immediatamente da pensare che  single,  donne separate, giovani (e non) 'precari', che rappresentano una componente importante della 'fauna' urbana, non se la passano così bene. Tempo di lavoro dilatato, stili di vita 'destrutturati' (a cominciare dai pasti) non delineano quel quadro di vita 'piena' e 'allegra' contrapposta alla 'tristezza' del vivere in montagna. I locali trendy pieni di giovani apparentemente spensierati che si godono l'happy hour non rappresentano la realtà metropolitana.

Quanto all'isolamento sociale degli alveari di cemento dove non si conosce il vicino di pianerottolo è da tempo che si sa che è più duro di quello del più sperduto villaggio alpino.

Le statistiche dei suicidi vedono alcune province totalmente o parzialmente alpine (Sondrio, Belluno, Cuneo) seguire Trieste nella triste classifica con valori superiori a 12 suicidi per 100.000 abitanti. Spie di disagio non c'è dubbio. Non univoche peraltro perché in Trentino i suicidi sono inferiori alla media. Ma quanti casi di anziani trovati in casa morti senza nessuno se ne accorgesse si sono registrati nelle città? Per questo fenomeno non ci sono statistiche ma è la spia di una situazione grave.  Più che 'tristezza' qui è disperazione.

 

Tristi montagne (parafrasando Lévi Strauss)

 

Christian Arnoldi, autore di 'Tristi montagne' (2009a) e di uno studio  sulle valli trentine al quale faremo di seguito riferimenti (Arnoldi, 2009b) ha individuato una serie  di determinanti del malessere. Alcune riconducono alla visione della 'segregazione' altre sono più legate a sviluppi recenti.  Tra i condizionamenti sociali presi in considerazione da Arnoldi figura la 'rarefazione sociale' «la solitudine, la difficoltà di incontrarsi e comunicare». Aspetti della 'rarefazione' sono: l'invecchiamento, lo spopolamento, l'isolamento (la distanza fisica o meglio i tempi di percorrenza in auto dai centri dotati di servizi e attrattive), il 'tempo fermo'. Per valutare l'enfasi di Arnoldi su certi aspetti e quella che, a nostro parere, è una chiave di lettura - legittima ma soggettiva e confutabile - di alcuni fenomeni sono utili alcune citazioni:

 

«Mancano novità, di qualunque genere, tanto meno interessanti o attraenti, in grado di risvegliare una qualche emozione. Paradossalmente, l'ossessione per l'ordine, per la pulizia, per la cura e per l'abbellimento delle abitazioni e dei villaggi e più in generale del paesaggio, uniche possibilità di sopravvivenza psichica per gli abitanti di un luogo in continua trasformazione come la montagna, aumentano la sensazione di immutabilità delle proprie condizioni esistenziali e accentuano la percezione del vincolo e del legame con la propria valle, sino quasi a trasfigurarla in una angosciante impressione di segregazione, in una inquietudine derivante da una sorta di progionia»

 

Sono evidentemente in gioco dei giudizi di valore. Per Arnoldi tutto ciò che stabilisce un legame con lo spazio o con la storia (il 'passato che non passa') rappresenta un vincolo, un impedimento  ad deguarsi ai cambiamenti. Secondo molti, invece, senza un background nessuna comunità è in grado di 'selezionare' le innovazioni utili al suo sviluppo.  L'incomprensione di questo autore nei confronti delle dinamiche che interessano le comunità alpine  è evidente nella valutazione delle rievocazioni della vita rurale del passato viste in chiave di :

 

«disperato tentativo di resistere al cambiamento e alle trasformazioni attraverso la costruzione e ri-costruzione di quel 'piccolo mondo alpino' idealizzato messo in scena durante le feste dei paesi e in ogni occasione di aggregazione»

 

Lettura a dir poco a senso unico. Chi scrive (Corti, 2005), ma anche una vasta letteratura internazionale, compresi antropologi come l'inglese Heady (2001), che ha studiato delle comunità 'tristi' della Carnia, hanno fornito interpretazioni del tutto diverse dimostrando che le feste di rievocazione della vita rurale fanno parte di strategie - più o meno consapevoli e più o meno efficaci - di creazione di legami comunitari in funzione di esigenze attuali e non già di mera nostalgia senza prospettive.

Gli altri aspetti della condizione di 'tristezza' individuati da Armoldi sono il respèt e la 'intermittenza esistenziale'. Il respèt (mix di riservatezza e di gelosia dei propri 'confini') ha per corollari il campanilismo e l'iper-territorialità ). Retaggio di una condizione in risorse scarse e di mantenimento di spazi famigliari ed individuali in un contesto di necessaria cooperazione e vita in comune fianco a fianco  il respèt appare oggi una condizione disadattativa che frena la socializzazione accentuando le conseguenze della 'rarefazione sociale'. A questa analisi condivisibile Arnoldi, però, associa quella delle conseguenze combinate di respèt e del controllo sociale (tutti sanno tutto di tutti). Da questo punto di vista ci pare impossibile che non si tengano in considerazione le conseguenze dei nuovi mezzi di comunicazione e di socializzazione.  Che controllo possono esercitare gli adulti sui giovani che socializzano su Facebook? Viene poi da chiedersi se questo 'controllo' abbia solo valenze negative. Forse quei vecchietti che muoiono in casa negli alveari di cemento megapolitani avrebbero preferito avere un po' più di 'controllo sociale'.  

 

Schizofrenie alpine, schizofrenie megapolitane

 

Quanto alla 'intermittenza esistenziale' si tratta, secondo Arnoldi,  di un elemento chiave per spiegare il 'malessere alpino' i. E' la schizofrenica condizione dei centri turistici che vivono in una duplice dimensione: quella convulsa delle 'alte stagioni' e quella letargica del 'vuoto turistico', accentuata dalla presenza ingombrante di strutture turistiche più o meno imponenti e dei condomini di 'seconde case' deserti. Nelle stagioni 'morte' i locali pubblici chiudono e per i residenti vi sono disagi anche oggettivi. Si tratta di una 'sindrome' definibile della 'giostra e dei larici d'oro' con riferimento al volumetto con questo titolo ( Gagliardi, 1974) dedicato alla nota località sciistica di Madesimo. Le foglie dei larici ingialliscono dopo che i turisti se ne sono andati e la 'giostra' turistica si è fermata e prima che riparta (a Sant Ambröos) la più redditizia 'stagione invernale'.

Questa 'intermittenza' è però un fenomeno omogeneo e generalizzato? Ogni località ha una 'morta' più o meno lunga e un rapporto seconde case/prime case diverso. E poi questa 'schizofrenia' turistica non ha corrispondenza e complementarietà con la dimensione urbana che la genera? Ad agosto il pensionato della periferia e senz'auto non è in difficoltà peggiori con la città del commercio 'chiusa per ferie'. Per trovare la mica e anima viva deve andare al Centro Commerciale. E il 'nomadismo' turistico dei comunque più privilegiati turisti è scevto da schizofrenie? Stress da rientro, code in autostrada. E' una gara a chi vive il turismo in modo più schizofrenico: i montanari o i cittadini?

 

La 'tristezza' non è un destino

 

Come dicevamo all'inizio il cliché della 'montagna triste' non è nuovo. Il sociologo Aldo Bonomi nella sua opera su 'Il capitalismo molecolare. La società al lavoro nel Nord Italia' (1997) delineava 7 'Nord'. Tra questi le 'aree tristi'. Queste aree coincidevano nella classificazione dell'autore con aree di montagna: valli di Cuneo, vallate laterali valtellinesi, alto Lario, Valcamonica, Valsugana, Carnia, alto Friuli, aree confinarie goriziane. L'analisi di Bonomi, però, coglie - almeno in parte - come la 'tristezza' non rappresenti un elemento assoluto, irreversibile ma si inserisca in una realtà di opportunità e conflitti almeno laddove non si è superata una 'soglia di non ritorno'. In questo Bonomi si dimostrava molto meno unilaterale e meno condizionato da 'paraocchi interpretativi' di Arnoldi. Scriveva Bonomi:

 

« Il nodo sta nel rapporto tra le risorse locali (prima di tutto il territorio e l'intensificazione degli scambi economici, sociali e culturali mediati dall'intensificazione del turismo) con altre aree più forti e dinamiche. In questo rapporto, quello che va indagato è il conflitto innescato dai processi di resistenza rispetto a fenomeni come la grande distribuzione, il turismo di massa, la parchizzazione del territorio: tutti fenomeni con cui si presenta la modernizzazione, percepita spesso come distruzione di forme di lavoro e di attività produttive piccole e lente ma consolidate nel tempo»

 

Analisi che a distanza di 13 anni possiamo dire confermate come dimostrano vicende come quella del Bitto storico in cui la 'resistenza' ai meccanismi delll'economia industriale ha proiettato in una dimensione di ammirazione e rispetto internazionali (con interessanti implicazioni per un turismo 'alternativo' e 'sostenibile' l'esperienza di un gruppo di 'trogloditi' difensori della tradizione. A conferma di queste tendenze possiamo citare i segni di rinascita nelle valli di Cuneo  legati ad una economia identitaria tutt'altro che 'residuale' che coniuga valori culturali, gastronomici, ambientali . Qua e là nelle Alpi mentre vanno in crisi i modelli a rimorchio della pianura e dell'industria recuperano visibilità e spazio nuovi-vecchi modelli che fanno leva sulle risorse umane delle 'aree tristi'. Anche l'idea di un destino irreversibile è messa in discussione da nuovi insediamenti di neo-contadini e neo-allevatori che qua e là hanno ripopolato villaggi fantasma ( sarebbero di più se sostenuti da una volontà politica e da una clima culturale favorevole).

Bonomi nella sua per altri versi lucida analisi non rinunciava alla tentazione di avventurarsi sul terreno vischioso della sociologia politica e di mettere in relazione 'aree tristi' e fenomeni politici notando una forte correlazione tra 'tristezza' e voto 'leghista'.  Una linea di stigmatizzazione politico-ideologica delle espressioni di identità culturale o politica da parte delle comunità alpine che, purtroppo, ha avuto diversi emuli.

Bianche vette, verdi alpeggi, camicie brune (!?)

E' il titolo di un saggio di Stefano Fait (2009). Una provocazione eccessiva e dichiarata ma indicativa di un atteggiamento diffuso tra gli intellettuali liberal. Fait ha il merito della 'trasparenza', dichiarando apertamente la sua propensione cosmopolita, la sua devozione senza se e senza ai valori borghesi  dell'individuo. Così come non dissimula la sua avversione per qualsiasi cosa che abbia vago sentore di 'comunitarismo', 'etnicismo', 'diritti collettivi', 'identità'.  I suoi strali sono contro la 'proporzionale etnica' (il clima di presunta apartheid imposto a Bolzano dallo statuto di autonomia) ma l'analisi si estende al 'populismo alpino' (dichiaratamente contro Heider, implicitamente contro la Lega).

Ci sarebbe molto da dire sui precedenti storici che hanno portato allo statuto autonomistico. La rigida difesa attuale della propria identità, lingua, cultura da parte della locale maggioranza di lingua tedesca è motivata da interessi politici ed economici ma non è comprensibile se non si fa riferimento al drammatico tentativo di 'pulizia etnica' intrapreso dal fascismo contro il popolo sudtirolese (per chi non ricorda l'alternativa era: assimilazione sino alla italianizzazione del cognome o espulsione verso la Germania; era il 1938, poi c'è stato altro cui pensare).

Per i 'liberal' come Fait questi sono dettagli; contano solo i sacri principi della libertà individuale : la memoria storica collettiva è 'invenzione', l''identità' una truffa.  Ma la tanto venerata libertà  si è storicamente tradotta nella trasformazione dei piccoli produttori (contadini e artigiani) in salariati sottoposti ad un controllo personale senza precedenti sull'insieme della vita delle persone in forza di un « volume senza precedente di repressione»  e «per disporre liberamente del loro lavoro i lavoratori dovevano essere privati quindi della loro libertà» (lo dice  il noto sociologo di sinistra Bauman  - 2005 -  distaccandosi non poco dalle 'classiche' analisi marxiane).

Parallela alla 'liberazione del lavoro' che significò la semi-schiavitù degli operai fu la 'liberazione' dei beni e dei diritti in possesso delle comunità rurali e alpine (due processi interrelati: senza beni collettivi il montanaro è spinto all'emigrazione definitiva e alla proletarizzazione).

Dove è arrivato Napoleone alle comunità sono stati sottratti boschi, pascoli e altri beni di cui disponevano quale proprietà collettiva (privata) trasferendole al comune politico, articolazione dello stato, e divenendo quindi di proprietà pubblica. Quando non vennero ceduti a speculatori. A Zermatt, dove Napoleone e la liberté non sono arrivate la Bürgergemeinde (collettività degli antichi originari, corrispondente ad istituzioni ovunque presenti sull'Arco Alpino) ha mantenuto la proprietà dei pascoli. Così oggi gli impianti da sci e gli alberghi appartengono alle famiglie originarie del posto .

Dove è arrivata la libertà (ovvero la dissoluzione dei vincoli che tenevano 'schiavo' l'individuo rispetto alle organizzazioni comunitarie) gli impianti di risalita e gli alberghi sono di società di capitali con sede nelle città ('colonialismo economico').

 

La montagna ha sempre torto

 

E' interessante notare che, laddove le comunità montanare subiscono l'assimilazione alla cultura urbana,  viene loro rinfacciata la 'perdità di valori e identità', si parla di 'spaesamento' e di 'anomia' (che condurrebbe a disagio sociale e psichico ecc.). Quando, invece, le comunità cercano in modo più o meno coerente di far valere una propria autonomia (ricorrendo, in mancanza di meglio, a immagini convenzionali che indulgono a rappresentazioni stereotipate della montagna) gli si rinfaccia o di voler riproporre visioni anacronistiche, inautentiche, 'per i turisti' o - in alternativa - di peccare di esclusivismo etnico, populismo, chiusure egoistiche.

Poco ci manca che chi non si conforma al paradigma della 'montagna triste' e 'osa' entusiasmarsi per i  'verdi alpeggi' sia etichettato dai custodi liberal del politically correct come 'camicia bruna' (dimenticando che il socialismo nazionale aveva come riferimenti il militarismo, lo stato, le masse, l'industria e che la il folkish e il ruralismo erano accessori).

Per i difensori dei sacri principi dell'universalismo, delle libertà individuali, della nazione dei cives (apparentemente forniti di uguali diritti e doveri)  ogni accenno a far valere particolarità linguistiche evoca lo spettro della 'balcanizzazione' delle 'pulizie etniche' delle fosse comuni. Non è difficile dimostrare che così facendo essi difendono lo status quo e una situazione in cui molto spesso si difende l'egoismo di 'maggioranze etniche' e l'esclusivismo degli stati nazionali.

Con i 'sacri principi' di 'una testa un voto', inserendo la montagna in collegi elettorali in cui è minoritaria, facendo valere la massa (che è il contraltare dell'individuo atomizzato), si è 'elegantemente' tolto peso e potere politico alla montagna ('colonialismo politico'). Ma la vera egemonia si ottiene stabilmente solo esercitando il potere culturale. Gli schiavi devono applicarsi da soli le proprie catene ed essere consenzianti a portarle.

 

Una inferiorità storicamente determinata e reversibile

 

Che la montagna sia 'inferiore', 'segregata dal consorzio civile', 'triste', 'chiusa nell'immobilismo, nelle gelosie e nella diffidenza reciproche' deve affermarsi come assioma, dato indiscusso, tanto da influenzare l'autorappresentazione degli stessi montanari e paralizzarli. Ottenuto lo scopo e definitivamente convinti dei loro cronici limiti i montanari non oseranno esprimere qualcosa di diverso, di autonomo, e si conformeranno ai valori e agli interessi urbani dominanti. Un meccanismo culturale che ci sembra pertinente definire 'colonialismo culturale'.

Tutto ciò è basato sull'assolutizzazione del punto di vista della pianura, delle città. La segregazione della montagna è frutto dei confini politici moderni, dello sviluppo delle moderne reti di comunicazione in funzione degli interessi urbani dominanti. Nella storia millenaria delle Alpi vi sono state epoche in cui le montagne erano solcate da vie di transito mentre le pianure erano 'segregate', spezzate dai fiumi che scendevano dalle Alpi, divise da paludi impraticabili. I traghetti (chiamati 'porti' esistevano ma c'era un dettaglio, costavano parecchio e i fiumi che scendono dalle Alpi sono tanti).

Quando ci si spostava a piedi o, al massimo, a dorso di mulo la differenza tra pianura e montagna era meno evidente. Su un sentiero si va alla stessa velocità. Se invece confrontiamo lo spostamento a piedi con lo sfrecciare in auto su un'autostrada le cose cambiano.

Vi sono state epoche, non lontane (parliamo del XIX secolo) in cui le percentuali più elevate di persone in grado di leggere e scrivere si trovavano sulle Alpi, in cui l'apertura al mondo era maggiore da parte dei montanari. Essi giravano l'Europa come maestranze specializzate, artisti, commercianti.

Quanto alla noia, al 'non succede niente' non è tanto difficile dimostrare che è l'uomo di città che, spostato dal suo habitat, non si accorge di cose che non rientrano nella dimensione del suo mondo artificiale. Ma è la sua 'inferiorità' a cogliere la variabilità ambientale che è in gioco.

Oggi con una dimensione di vita trascorsa troppo spesso in casa, davanti alla TV, o comunque alle prese sempre con qualche 'elettrodomestico', la vita montanara si è appiattita in una dimensione spazio-temporale che non conosce la ricca successione di eventi del passato, scanditi dai prevedibili ritmi del sole e della luna, dai ritmi biologici di animali e piante ma anche da eventi non prevedibili, da momenti di socializzazione, riti, pellegrinaggi. Ma questa involuzione, forse positiva dal punto di vista della fatica fisica, deprivante da punto di vista degli stimoli emozionali e cognitivi, è qualcosa di insito nella montagna? Per nulla. Alla noia, al vuoto è possibile reagire, innescare dinamiche di aggregazione, mobilitazione sociale intorno ai tanti problemi della montagna. Non è facile, ma è possibile.

Esperienze come il recupero di vecchie coltivazioni in forma 'civica', l'attività degli ecomusei, il coinvolgimento di scuole e anziani in progetti culturali insegnano che l'apatia, l'immobilismo, la noia non sono una condanna definitiva e irreversibile per la montagna.

Quanto poi alla letteratura portata a supporto della tesi della  'dimensione immobile' e 'triste' della montagna viene da dire: ma Rigoni Stern l'avete letto?

 

Bibliografia

 

C. Arnoldi  (2009a),Tristi montagne. Guida ai malesseri alpini Priuli e Verlucca  Pavone Canavese, TO

 

C. Arnoldi a (2009b) Bontà e cattiveria della montagna. Visioni e rappresentazioni contemporanee delle valli trentine in: SM Annali di San Michele, 22, 21-42.

 

Z. Bauman (2005) Classi e potere in Z. Bauman Globalizzazione e glocalizzazione, Armando Editore, Roma, 88-149.

 

A. Bonomi (1997) Il capitalismo molecolare. La società al lavoro nel Nord Italia Einaudi, Torino.

 

M. Corti (2009) Riti del fieno e del latte. Alpi, inizio del XXI secolo  in: SM Annali di San Michele, 22, 249-284.

 

M. Corti (2005) Contadini e allevatori del Nord nelle transizioni rurali del XX e XXI secolo in: SM Annali di San Michele, 18, 135-174).

 

S. Fait (2009) Bianche vette, verdi alpeggi, camicie brune. La commercializzazione di un'utopia in: SM Annali di San Michele, 22, 59-88.

 

N. Gagliardi (1974) La giostra e i larici d'oro Sasga, Como.

P.Heady (2001) Il popolo duro. Rivalità, empatia e struttura sociale in una valle alpina Forum libreria editrice universitaria ,Udine, 2001.

A. Mariani, Geografia economica e sociale dell’Italia, 1910, Hoepli, Milano

 

 

pagine visitate dal 21.11.08

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