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Commenti/L'esempio de l'escolo de Sancto Lucio

 

  

 

 

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(05.01.10) L' esperienza di una pluriclasse che fa riflettere sul centralismo scolastico, sull' italofonia quale registro unico e imposto alle genti alpine, sulle gerarchie di valori che premiano le 'grandi opere' e lasciano chiudere le scuole

 

Una 'scuoletta' alpina da mezzo secolo rappresenta  un riferimento culturale internazionale 

 

L'escolo de Sancto Lucìo de Coumboscuro da cinquant'anni rappresenta un laboratorio di plurilinguismo, di sperimentazione didattica e un modello di relazioni interculturali. Sulla base della valorizzazione della propria specifica identità (nella fattispecie quelle provenzale alpina) e non della rinuncia ad essa come vorrebbe imporre una certa cultura politically correct subalterna al peggior mondialismo.

 

L'esperienza de l'escolo rappresenta qualcosa di esemplare. Intorno a questa esperienza si è sviluppato, in anni ormai lontani (prima dei revival) un movimento di riscoperta e di difesa dell'identità culturale provenzale alpina nelle valli del Piemonte.  L'escolo è stato protagonista dello sviluppo di attività teatrali e di relazioni in campo scolastico e culturale con comunità alpine (ci piace ricordare quella particolarmente forte con la comunità di Poschiavo). Negli anni l'escolo ha sviluppato anche innumerevoli relazioni  con istituzioni culturali in varie parti del mondo (tra cui una ventina di università)e ha redatto  numerose pubblicazioni. Ora, protagonista la nuova scuola per adultui , è impegnata alla  preparazione  di un grande Dizionario provenzale.  

 

 

 

1861

1955

1988

1995

Italiano

1,5

10,0

38,0

44,4

Italiano / Dialetto

1,0

24,0

48,0

48,7

Dialetto

97,5

66,0

14,0

6,9

Totale

100,0

100,0

100,0

100,0

legge 30 ottobre 2008, n. 169

15 12 (montagna) pluriclassi 8 -18 (6 -12)

plessi scuola primaria (almeno 50) ma con possibilità di deroga

Fig.1. Dialetto e italiano dal 1861 al 1995: percentuali d’uso sulla popolazione (De Mauro, Dante, il gendarme e l’articolo 3 della Costituzione, inDante, il gendarme e la bolletta. La comunicazione pubblica in Italia e la nuova bolletta Enel, a cura di T. De Mauro e M. Vedovelli, Roma-Bari, Laterza, 2001.

legge 482/1999 che detta “Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche” e fare un bilancio sui risultati effettivamente conseguiti

 

Il friulano e il provenzale sono riconosciuti  riconosciuto dallo stato italiano quali lingua minoritarii, il piemontese è riconosciuto dal 1981 quale lingua minoritaria dal Consiglio d'Europa  e dall'Unesco,  il lombardo e il veneto sono riconosciuti  solo dall'Unesco

 

Il pensiero di Giovanni Gentile in materia ruota intorno alla affermazione per cui: "Nella scuola lo Stato realizza sé stesso… Perciò lo Stato insegna e deve insegnare. Deve mantenere e favorire le scuole…".

1911 legge Daneo Credaro appoggiata socialisti e radicali contro solo i cattolici

Con la legge Credaro del 4 giugno 1911, n. 407 comincia a trovare una prima timida concretizzazione l’idea di affidare allo Stato il compito della gestione dell’istruzione e della formazione dei futuri cittadi

 

Tutto è cominciato con la decisione di Francesco De Sanctis, ministro della cultura nel 1861, l’anno dell’unificazione italiana, di non tener alcun conto delle accorate perorazioni di Graziadio Isaia Ascoli, il fondatore della glottologia, della dialettologia e dell’Archivio Glottologico Italiano, e di bandire per sempre – anche a sferzate, se necessario – i “dialetti” dalle scuole del Regno Unito. Se a tale energica, fatale decisione si assommano l’horror dialecti, cioè il secolare disdegno degli intellettuali italiani per tutto ciò che è vox populi, l’opposizione della Chiesa a un qualsiasi ruolo dei dialetti (e delle ex lingue di stato, come il veneziano e il sabaudo) nella liturgia e lo scambio interregionale di insegnanti totalmente digiuni delle rispettive lingue locali, ci si spiega meglio l’entità e la repentinità della liquidazione delle lingue regionali in Italia: quelle stesse che Ascoli aveva definito – con gran più conoscenza di causa – “il più ricco patrimonio linguistico” di tutta l’Europa.

La spinta verso il monolinguismo è stata così energica che ancora oggi i genitori proibiscono con veemenza a nonni ed anziani di parlare la lingua regionale ai nipotini per timore di “contaminazioni” che impediscano ai loro rampolli di apprendere correttamente l’ormai corrotta lingua nazionale. Corrotta, tra l’altro, da quella stessa, agognata, mitizzata lingua inglese, che i genitori tanto vorrebbero che i loro figli imparassero a scapito – se necessario – della lingua nazionale.

Che una lingua locale – erroneamente chiamata “dialetto” (che, tanto nell’etimologia della parola greca, quando nella realtà dei fatti, vuol dire ben altra cosa) contenga qualcosa come dieci volte il lessico corrente di un adolescente oggi, che l’apprendimento in primis di un “dialetto” comporti una ginnastica mentale e una disposizione psicolinguistica che predisponga idealmente all’apprendimento di altre lingue, che i bambini che hanno imparato dapprima una piccola lingua sono molto più agili, linguisticamente, dei loro “epurati” figli, non sembra preoccuparli più di tanto: più parole inglesi radio, televisione, giornali, l’internet, l’insegna del bar dell’angolo, il governo italiano stesso mettono nello slavato italiano nazionale, meglio è: sono convinti che così il passo per imparare l’inglese, “la vera lingua”, sarà molto più breve.

 

Ferroni: «Studiare il dialetto ci porterebbe fuori dall' Europa»

La nostra migliore narrativa si è sempre mossa con uno sforzo unitario

«Gravi e pericolose» sono definite da una mozione unanime degli italianisti italiani le iniziative recenti sulle celebrazioni del 2011 per l' Unità d' Italia e sui dialetti: iniziative «mirate a mettere in questione, nella vita sociale, nella comunicazione, nella scuola, il carattere unitario della lingua e della cultura italiana». Gravi e pericolose perché la nostra tradizione culturale è un «intreccio fecondo tra pluralità di esperienze e tensione unitaria». E di questo intreccio, chi può parlarne meglio di Giulio Ferroni, critico e storico della letteratura al quale nei prossimi giorni verrà consegnato il Premio De Sanctis? Ferroni + De Sanctis + Ariosto: perché il premio è assegnato alla monografia dedicata dallo stesso Ferroni all' autore dell' Orlando furioso (Salerno editrice). Partiamo dall' inventore della nostra storia letteraria: «Nel raccontare il legame tra civiltà, storia, letteratura, arte, De Sanctis dimostra come la cultura italiana abbia sempre cercato un' unità - dice Ferroni -, è stato l' autore del grande romanzo dell' Unità d' Italia proprio mentre l' Unità si realizzava sotto i suoi occhi». Perché viene giudicato pericoloso mettere in discussione questa dimensione unitaria? In fondo, già un grande storico della letteratura venuto dopo De Sanctis, Carlo Dionisotti, espresse qualche dubbio sulla «teocrazia desanctisiana» e sul suo disegno storico: «Secondo Dionisotti c' è una molteplicità di centri che però tendono a un discorso comune: ognuno di questi centri si confronta con gli altri. Dionisotti rivendicava con forza la propria tradizione familiare risorgimentale e nel suo disegno di storia e geografia non ha mai messo in dubbio quella tradizione: per lui, che guardava all' Italia da Londra, dove viveva, l' attenzione per le varietà locali era inserita in un orizzonte europeo». Niente di «pericoloso» in senso leghista? «Le proposte leghiste sono pretesti per fare rumore, uscite pericolose che ci fanno tornare al Medioevo e rischiano di proiettarci verso un modello jugoslavo: pensate a che cosa succederebbe se i nostri giovani si mettessero a studiare il dialetto (e quale dialetto poi?) in una situazione in cui l' italiano nelle scuole è già molto sacrificato e le lingue straniere si studiano male. Rimarrebbero tagliati fuori da qualunque contesto internazionale». Eppure ci sono stati importanti filoni di studio - per esempio tutte le indagini «lombarde» di un grande filologo come Dante Isella - che hanno rivalutato la letteratura dialettale, senza che nessuno vi intravedesse pericoli di sorta: «Isella, studiando Maggi o Porta, li collocava in rapporto dialettico con la lingua centralizzata e con la grande cultura europea: la Milano illuminista di Verri era un centro internazionale e il dialettale Porta era un romantico illuminista legato a uno scrittore europeo come Manzoni. E poi non bisogna dimenticare che c' è uno scambio continuo: Belli ha tenuto in notevole considerazione le suggestioni di Porta». Anche il padanissimo Ariosto sembra muoversi su più dimensioni: lo ricordava ieri sul «Corriere» Carlo Lizzani citando Sergio Leone: «Lizzani ha ragione a indicare la vocazione internazionale italiana anche con quel singolare percorso Ariosto-Leone: la Ferrara di Ariosto guardava ai romanzi cavallereschi francesi come noi abbiamo guardato al cinema americano. Ma a me pare che cinema e letteratura recenti l' abbiano perduta, quella vocazione, sospesi provincialmente tra chiusura locale e mero remake di modelli americani». Ciò non esclude, anche in Ariosto, un carattere locale: «Ariosto è fortemente radicato a Ferrara e in un poema di avventure fantastiche com' è l' Orlando furioso inserisce riferimenti concreti alla realtà quotidiana della sua città, alle guerre contemporanee eccetera. Insomma, ha la straordinaria capacità di metabolizzare nel poema tutte le conoscenze classiche e grazie a ciò riesce a trasformare il suo forte radicamento in un' apertura inventiva straordinaria. Così Ferrara acquista una dimensione altra, molto più ampia». Ma non piacque molto a De Sanctis: «In Ariosto vedeva un dominio del cinismo comico e un culto eccessivo della bellezza fine a se stessa, come fosse privo di tensione civile. Però ha messo in luce il valore dell' ironia e la forza fantastica». C' è un filone comico-emiliano che sopravvive ancora oggi: «Il più ariostesco di tutti è Cavazzoni, ma anche il primo Celati è nel solco di Ariosto. Per non dire della combinatoria fantastica di Calvino. Ma gli ariosteschi si trovano anche fuori d' Italia: basti pensare a Borges. Altro che scrittore padano!». Quel che ancora oggi ci dice De Sanctis è che la grande letteratura non è campanilista né secessionista. Non lo è neanche quel filone di poesia dialettale così importante nel Novecento (tantissimi i nomi, da Marin a Pasolini, da Giotti a Scataglini, da Noventa a Baldini)? «La scelta del dialetto in poesia è stata la scelta di una lingua pura per eccellenza, in contrasto con la lingua della comunicazione consumata dai media: è quella che Pascoli chiama "la lingua che più non si fa". Il dialetto della poesia non ha un rapporto effettivo con la comunità dei parlanti, è la lingua originaria, dell' infanzia perduta». Come succhiare il latte di Eva, ha detto Zanzotto: «Niente a che vedere con il dialetto usato oggi in certa narrativa, un colore locale, un idioma banalizzato che ha aspetti di espressionismo soltanto esteriore, un uso superficiale e di maniera». Ma oggi, tolto l' aspetto linguistico o espressivo, qual è in letteratura il vero elemento unificante? «Nei libri migliori, direi l' attenzione alla disgregazione, la capacità di collocarsi dentro il cuore frammentato della società, dalla Sicilia a Milano: penso all' orizzonte romano di Andrea Carraro o a quello lombardo di Giorgio Falco (una grande sorpresa!), o ai napoletani Giuseppe Montesano e Antonio Pascale, tutti autori che affrontano la dimensione slabbrata della quotidianità e di una periferia diffusa e alla deriva: tutta gente che evita gli effetti choc e esasperati del noir, ormai diventato un genere consumato». A proposito. Ferroni ha appena pubblicato, da Liguori, una sua intensa testimonianza in difesa della letteratura, La passion predominante: vi racconta, tra l' altro, come nacque il suo piacere di lettore negli anni della ricostruzione, quando trovare un libro era un' impresa. Ci sono pagine molto suggestive in cui si raccontano incontri-chiave, come il prof. Puntoni che obbligava i suoi allievi a redigere una sorta di storia letteraria personale, il gusto combinatorio sperimentato nel gioco e nello sport e poi trasferito all' esercizio critico. E i primi oggetti del desiderio: la scoperta dei piccoli libretti grigi ed economicissimi della Bur, con i «noir» di Poe e le opere di Gogol, e poi con i drammi di Shakespeare. Un' iniziazione letteraria che coincide con i nodi esistenziali ed etici di una vita, dandole pienezza e valore. E proprio sul concetto di valore ci fa riflettere Ferroni, nella seconda parte del suo libro, più amara: vissuto il tempo della lettura come esperienza critica e rapporto vitale con l' altro, si passa a un' epoca (quella attuale) in cui il solo valore visibile è la quantità. E l' effetto della costipazione (di libri, di istituzioni, di burocrazia, di oggetti), opposto alla penuria di un passato pieno di futuro, diventa vera e propria angoscia della quantità. Così, anche l' esigenza di un' ecologia della letteratura quale coscienza e difesa della memoria dovrebbe essere un' urgenza capace di unirci. RIPRODUZIONE RISERVATA Riferimenti Dall' alto: il docente e critico Giulio Ferroni e gli storici della letteratura italiana Francesco De Sanctis (1817- 1883) e Carlo Dionisotti (1908-1998)

 

Ci erano dunque due lingue nostre nazionali, il latino e il volgare. E che accanto al latino ci fosse il volgare, parlato nell'uso comune della vita, si vede pure da' contratti e istrumenti scritti in un latino che pare una traduzione dal volgare, e dove spesso accanto alla voce latina trovi la voce in uso con un «vulgo dicitur», o «dicto

Questo volgare non era in fondo che lo stesso latino, come erasi ito trasformando nel linguaggio comune, detto il «romano rustico». Nell'812 il concilio di Torsi raccomanda ai preti di affaticarsi a dichiarare le omelie in «lingua romana rustica». Questa lingua romana o romanza, dice Erasmo, presso gli spagnuoli, gli africani, i galli e le altre romane province era così nota alla plebe, che gli ultimi artigiani intendevano chi la parlasse, «solo che l'oratore si fosse accostato alla guisa del volgo». Il volgo dunque parlava un dialetto molto simile al romano, e similissimo a questo dovea essere il nostro volgare, anzi quasi non altro che questo, uno nelle sue forme sostanziali, vario ne' diversi dialetti, quanto alle sue parti accidentali, come desinenze, accenti, affissi, ecc. C'era dunque un tipo unico, presente in tutte le lingue neolatine, e più prossimo, come nota Leibnizio, alla lingua italica, che ad alcun'altra.

Con lo scemare della coltura prevalsero i dialetti. Per le chiese per le scuole, negli atti pubblici era usato un latino barbaro, molto simile alla lingua del volgo. Nell'uso comune il volgare non era parlato in nessuna parte, ma era dappertutto, come il tipo unico a cui s'informavano i dialetti e che li certificava di una sola famiglia.

Questo tipo o carattere de' nostri dialetti appare e nella somiglianza de' vocaboli e delle forme grammaticali, e ne' mezzi musicali e analitici sostituiti alla prosodia e alle forme sintetiche della lingua latina. Il nome generico della nuova lingua, come segno di distinzione dal latino, era il «volgare». Così Malespini dicea: «la nostra lingua latina e il nostro volgare», cioè la nuova lingua parlata in tutta Italia dal volgo ne' suoi dialetti.

Con lo svegliarsi della coltura, se parecchi dialetti rimasero rozzi e barbari, come le genti che li parlavano, altri si pulirono con tendenza visibile a svilupparsi dagli elementi locali e plebei, e prendere un colore e una fisonomia civile, accostandosi a quel tipo o ideale comune fra tante variazioni municipali, che non si era perduto mai, che era come criterio a distinguere fra loro i dialetti più o meno conformi a quello stampo, e che si diceva il «volgare», così prossimo al romano rustico.

Proprio della coltura è suscitare nuove idee e bisogni meno materiali, formare una classe di cittadini più educata e civile, metterla in comunicazione con la coltura straniera, avvicinare e accomunare le lingue, sviluppando in esse non quello che è locale, ma quello che è comune.

La coltura italiana produsse questo doppio fenomeno: la ristaurazione del latino e la formazione del volgare. Le classi più civili da una parte si studiarono di scrivere in un latino meno guasto e scorretto, dall'altra, ad esprimere i sentimenti più intimi e familiari della nuova vita, lasciando alla spregiata plebe i natii dialetti, cercarono forme di dire più gentili, un linguaggio comune, dove appare ancora questo o quel dialetto, ma ci si sente già uno sforzo ad allontanarsene e prendere quegli abiti e quei modi più in uso fra la gente educata e che meglio la distinguano dalla plebe.

 

L'Escolo di Sancto Lucìo de Coumboscuro, da cinqu ant'anni è laboratorio didattico per il plurilinguismo. Nella pluriclasse è nato il primo nucleo di riscoperta della civiltà provenzale alpina in Italia e si è fondata l'associazione Coumboscuro Centre Prouvençal.

La scuola elementare, oggi conosciuta come "L'Escolo de Sancto Lucio de Coumboscuro" rappresenta soprattutto, la straordinaria storia di una pluriclasse alpina, che negli ultimi cinquant'anni ha lasciato una rara testimonianza di vita e di sentimento, ad oltre mille metri di quota, nelle valli alpine occidentali. Nella scuoletta di Sancto Lucio de Coumboscuro, decine di allievi, stimolati dai loro insegnanti, hanno creato un patrimonio di grande valore letterario in lingua locale provenzale alpina, che ha pochi confronti.

Una esperienza didattica alla "Don Milani", da cui è nato il Movimento Coumboscuro e Coumboscuro Centre Prouvençal, e di qui il fermento di riscoperta della civiltà provenzale alpina in Italia.

 

 

 

Una vicenda estremamente curiosa che ha visto la pluriclasse di S. Lucio essere al centro di iniziative, quali la nascita dell'unica compagnia di teatro in lingua provenzale in Italia "Teatre Coumboscuro" e l'incredibile relazione di studio con oltre venti Università europee e del mondo. La scuola è stata e continua a essere al centro di scambi e di relazioni con scuole Friulane, Trentine, Lombarde e della Regione Provenza. Anche il "maestro" d'Italia, Mario Lodi, si è interessato alla pluriclasse di Coumboscuro ed in occasione della pubblicazione dei metodi di insegnamento della lingua provenzale nella scuole dell'obbligo è intervenuto con decisione a sostegno dell'insegnamento plurilingue applicato in via sperimentale a S. Lucio.

Oggi la "scuoletta" di Coumboscuro continua ad essere laboratorio didattico e punto di interesse per ricercatori e reportages giornalistici. Dopo la straordinaria visita di Folco Quilici "Ritornerò sempre con piacere a ritrovare l'emozione della vostra poesia" e di numerosi giornalisti ed emittenti radiotelevisive europee, è stata la rete SKY, che recentemente ha dedicato uno speciale trasmesso via satellite per il programma "Marco Polo".

 

La storia della pluriclasse di Coumboscuro è narrata nel libro "NOSTO POUESIO - cinquant'anni di poesia di una pluriclasse alpina", prima antologia poetica in lingua provenzale scritta e prodotta dai bambini di una scuola pubblica in Italia. Il libro è frutto di una coedizione tra la Provincia di Cuneo - Ass. alla Cultura e Coumboscuro Centre Prouvençal. (vedi catalogo)

 

Un film sulla Escolo

La raccolta di poesie ha ispirato la realizzazione di un film ora in lavorazione, che narra gli ultimi cinquant’anni della “Escolo di Coumboscuro”. La regia è stata affidata a Sandro Gastinelli. Al film hanno partecipato circa 250 abitanti delle valli alpine tra Piemonte e Provenza e sono “voci di poesia” Dori Ghezzi, Lella Costa, Moni Ovadia, Toni Servillo, Gianmaria Testa, Claudio Bisio, Stefania Belmondo, Giovanni Lindo Ferretti, Paolo Conte, Antonella Ruggiero.

 

Il futuro della Escolo

L’anno scolastico 2006/2007 è l’ultimo anno di attività “ufficiale” per la “Scuola elementare di Santa Lucia di Monterosso Grana” nota come “Escolo de Sancto Lucio de Coumboscuro” in quanto per lo Stato italiano non esiste più: la Direzione scolastica di Caraglio e valle Grana ha preso la decisione di sopprimerla togliendosi il sassolino dalla scarpa e un “evidente fastidio”. 
Lo stesso anno si è costituita l’associazione “Escolo de Sancto Lucio de Coumboscuro” , in cui sono presenti genitori, vecchi allievi, estimatori, sostenitori dall’Italia e dall’estero. L’associazione ha così costituito il più piccolo Istituto Scolastico in Italia e, si ritiene, d’Europa. Composto da tre allievi che frequentano sia le scuole medie che le elementari, otto insegnanti per tutte le materie, una sola aula (l’aula che da 1800 ha accolto generazioni di scolari).

 

Da questo momento inizia una nuova avventura per l’Escolo de Sabcto Lucio de Coumboscuro. Non essendoci piu’ i numeri richiesti perché la Scuola , a seguito della riforma , possa continuare ad essere statale e essendo stato bocciato all’unanimità e a scrutinio segreto dal Collegio Docenti di Caraglio la proposta di tele insegnamento proposta dalla Regione Piemonte Assessorato Montagna ed Istruzione, i genitori degli alunni si riuniscono in Associazione ed istituiscono con la collaborazione della Regione Piemonte Assessorato alla Montagna, la ESCOLO DE SANCTO LUCIO DE COUMBOSCURO_ LA SCUOLA IN PROVENZALE dove parallelamente alle materie curriculari si insegna la lingua e la cultura provenzale

2008/2009 La “Escolo de Sancto Lucio de Coumboscuro – La Scuola in Provenzale – raddoppia la sua attività e nasce oltre alla Scuola per Alunni dell’Elementari e Medie la grande Escolo per adulti con partecipanti da tutte le 15 Valli a parlata Provenzale per la preparazione del Grande Dizionario della Lingua Provenzale . Il lavoro di ricerca e stesura del dizionario è diretto dal Prof . Sergio Maria Gilardino che ha appena terminato la stesura del Dizionario Walser .Continua la stesura del Dizionario a tema con i ragazzi della Scuola Elementare e Media  con la supervisione del Prof. Gilardino sul tema della castagna e delle sue varie lavorazioni. La Escolo de Sancto Lucio si fa conoscere in tutta Italia ed è ricevuta al Ministero degli Interni a Roma dal Prefetto Stancari Direttore dell’Ufficio per le Minoranze Etniche. Viene organizzato una serie di lezione-concerto in collaborazione con  il gruppo Medioevo di Torino in molte scuole della Provincia di Cuneo.

 

 

pagine visitate dal 21.11.08

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