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Quel formaggio di "malga" che di malga non è

Pubblicato in Caseus. Arte e cultura del formaggio, anno XI (2006), n. 6, pp. 19-20 (Novembre-Dicembre)

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Riassunto.Produrre formaggio in grossi caseifici di fondovalle con latte proveniente da più alpeggi ,trasportato a valle con percorsi anche di decine di km è "fare formaggio di malga"? Forse sì se si pensa che con le pratiche culturali, con la sensibilità dell'artigiano del latte e con un determinato microambiente (il caseificio, la casera di maturazione), con attrezzi il cui design è stato dettato da secoli di esperienza il formaggio non c'entri nulla (e che venga meglio con I fermenti selezionati, le polivalenti, le celle). Prendiamo in esame alcuni casi del Trentino dove persino Slow Food....

 

di Michele Corti

 

Tra le schede di presentazione dei formaggi “di malga” trentini compresi nell'elenco dei prodotti agroalimentari tradizionali – PAT – e contenute nell’ “Atlante dei prodotti tradizionali trentini” edito dalla Provincia autonoma di Trento1) ne troviamo una veramente curiosa

“I formaggi di malga dei caseifici”. Per sciogliere le perplessità (ma sono di malga o di caseificio?) di coloro ai quali non risultasse chiaro che per “caseifici” si intendono le strutture industriali dei Caseifici sociali comprensoriali arriva subito la “giustificazione” (excusatio non petita ...): "i caseifici hanno bisogno di strutture moderne e funzionali e tali strutture costano tanto più quanto minore è la quantità di latte che vi si lavora. Anche per questo motivo la gran parte delle malghe trentine dove si alpeggia il bestiame da latte conferiscono il prodotto ai caseifici di valle che lo utilizzano per la produzione dei “Nostrani” caratteristici delle diverse zone, aumentando in questo modo la quantità di latte lavorato ed inoltre alleggerendo il peso dell'attività di alpeggio”. Tutto chiaro? No. Perché del latte prodotto in Trentino la quota della produzione d'alpeggio su base annua è pari al 5%; tolta la quota trasformata in malga resta meno del 3% che, per il periodo estivo, corrisponde a circa il 10% della produzione totale di latte del Trentino. Ovviamente in alcune valli questa quota sarà superiore, ma tenendo conto delle possibilità di compensazione del sistema consortile non saremmo certo di fronte ad una sottoutilizzazione drammatica degli impianti e del personale anche se tutto il latte delle malghe fosse “liberato” e trasformato in quota. Per la malga siamo sicuri che “sollevarla” dall’onere della trasformazione sia un regalo?

Sempre nel medesimo “Atlante”, per giustificare la scelta di trasportare a valle il latte prodotto in malga si sostiene che tale operazione rappresenta una forma di sostegno al sistema delle malghe riducendo gli oneri di manodopera legati alla trasformazione del latte. Ma alleggerire il peso dell'attività d'alpeggio significa che il personale viene ridotto al minimo con quello che ne consegue in termini di socialità. Se poi l'operazione più impegnativa diventa la mungitura (a macchina) può essere sufficiente anche personale non particolarmente qualificato e privo di legami con la tradizione del territorio; dalla malga sparisce il casaro, gli attrezzi locali della conservazione e trasformazione del latte nonchè della stagionatura dei formaggi diventano... pezzi da museo.

La cultura della malga ruota intorno al latte e alla sua trasformazione Malga ha la radice indoeuropea *melg = mungere, da cui il latino mulgeo, l'inglese milk, il tedesco melken e molti dei nomi derivati da questa radice (es. malghéra = ”caseificio”) rimandano in modo specifico alla lavorazione del latte. Senza la trasformazione la malga è svuotata della sua anima, diventa un mungimificio in linea con la logica del produttivismo quantitativo e le sue derive. Infatti vi è il rischio che anche la malga diventi il palcoscenico della finzione, con le dimostrazioni ad hoc di lavorazione del latte ad esclusivo uso e consumo dei turisti.

 

Ma svuotata dei suoi valori, resa in autentica, la malga può guardare al futuro?

 

Sono le valenze di una produzione casearia a forte specificità, del mantenimento di un paesaggio culturale, di una funzione ricreativa ed educativa che possono mantenere e rivitalizzare il sistema delle malghe. Non le cisterne di latte che lo trasportano a decine di km e lo mescolano a quello di altre malghe (se va bene) e vi aggiungono fermenti selezionati più o meno originali (se va bene), ma sempre uguali a se stessi. Poesia? Mica tanto se pensiamo che dall'operare la scelta giusta tra le opposte ricette “produttivistica” e “multifunzionale” può dipendere il mantenimento di questo sistema, dipende la conservazione paesaggistica ed ambientale di qualcosa come il

20% della superficie territoriale delle Alpi. Posto che di queste considerazioni territoriali ai manager dei caseifici nulla importi e posto anche che i politici preferiscano continuare a ragionare a compartimenti stagni (rende di più nell’immediato!), vorremmo comunque osservare che questo “Nostrano di malga” rischia di confondere non poco il consumatore e in termini commerciali le autentiche produzioni di malga (e, a lungo termine, quel capitale costituito dall'apparentemente inossidabile immagine turistica

del Trentino). «Il latte utilizzato deve provenire da bovine di razza Bruna, Rendena, Grigio Alpina e … altre [quindi tutte!], alimentate al pascolo in alpeggio. E’ consentito l’uso [quanto?], di mangimi semplici e composti» A parte che il “Nostrano di malga” può essere prodotto anche in un caseificio di tipo industriale, consultando il già citato Atlante2 scopriamo che esso può essere prodotto con il latte di

bovine alimentacon quantità elevate di mangime3 (basta che mangino un po’ d’erba), trasportato al caseificio e addizionato di fermenti. Un bell'aiuto a chi continua a mantenere le malghe vive, ovvero ben di più della sommatoria di una certa estensione di pascolo4 e di una sala di mungitura.

 

Note

1. http://vvww.trentinoagricoltura.net/630/Standard.aspx

2. http://www.trentinoagricoltura.net/361/Standard.aspx

3. Si spera che vada a buon fine la proposta di un regolamento per limitare la quantità di mangime sulla scorta

dell'esperienza della Comunità Montana d posto un tetto al 20% del fabbisogno energetico

4. Che serve a incassare contributi