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L'allevatore diventa un opertatore zooenergetico … e il latte?

Pubblicato in Caseus. Arte e cultura del formaggio, anno XII (2007), n. 2, pp. 21-22 (Marzo-Aprile 2007)

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Riassunto. Le regioni, Lombardia in testa, invece che aiutare la montagna, le produzioni di qualità, il biologico, sovvenzionano pesanti investimenti per "industrializzare" ed "esternalizzare" anche la gestione dei reflui zootecnici, finanziando costosi impianti di biogas e "abbattimento" del contenuto di azoto dei liquami. Nell'illusione di "svincolare" gli elevati carichi di bestiame della zootecnia intensiva padana, concentrata in poche provincie sovraccariche, dai limiti della incombente Direttiva nitrati.

 

di Michele Corti

 

L’incremento del mercato dei Certificati Verdi e le prevedibili conseguenze dell'ormai non più rinviabile recepimento della “Direttiva nitrati” hanno trasferito al settore delle vacche da latte quelle problematiche che un tempo si credeva prerogative della suinicoltura intensiva.

Gli impianti “coproelettrici” per la produzione di biogas da liquami zootecnici oggi sono all'ordine del giorno in tutti quei contesti territoriali dove la zootecnia da latte è oversize.

Il problema non tocca più solo la bassa pianura lombardo orientale (dove i grandi impianti consortili, allacciati ai “merdodotti”, erano legati alla presenza di centinaia di migliaia di suini in singoli comuni). Le centrali a biogas “coproelettriche” sono proposte anche nelle valli alpine dove

l’immaginario collettivo immagina ancora mucche al pascolo in mezzo ai fiorellini profumati. A volte non ci si rende conto che una stalla di 150 Frisone in una vallata di montagna dove i prati sono sempre di meno (per via dell'urbanizzazione, ma anche del fatto che i grossi

allevatori sfalciano solo dove la raccolta è completamente meccanizzabile) presenta impatti superiori a quelli di una stalla di 1.000 nella pianura padana. Fatto sta che le produzioni medie per vacca continuano a crescere (sotto la spinta di un trend genetico che sarà difficile disinnescare finché la “selezione” sarà finanziata da uno stato prono alle lobby). Fatto sta che anche le dimensione delle mandrie da latte continuano ad aumentare. In questa situazione, in cui il rapporto produzione latte/superfici aziendali continua a peggiorare, i vincoli ambientali sono raggiunti e superati.

Con la "Direttiva nitrati”, che l'Italia sta recependo ora con 15 anni di ritardo, tutte le Regioni sono vincolate ad una norma nazionale che risulta più rigida di quelle in precedenza adottate da alcune Regioni della pianura padana. Le “aree vulnerabili” (dove lo spandimento in campo di azoto non può superare i 170 kg/ha) sono state estese e, al contempo, è stato rivisto sostanzialmente l'impatto di una vacca da latte. II nuovo parametro equivale a 83 kg di azoto/capo/anno in campo (al netto delle perdite in atmosfera), ancora sottostimato se si fa riferimento a Frisone ad alta produzione, ma comunque ben al di sopra di quei ridicoli 50 kg finora considerati quale parametro di riferimento sulla base di studi vecchi di trent'anni. Purtroppo non si è voluto tenere conto della razza e il parametro si applica alla Frisona come alla Modicana o alla Grigia alpina (un bell’incentivo a sostituire le razze autoctone con quelle più produttive cosmopolite alla faccia della difesa della biodiversità proclamata dai ministri di vario colore). In ogni caso, in questa situazione, moltissime aziende dovrebbero ridurre del 50-60-70% il loro parco vacche.

Ecco allora che la produzione di biogas e gli “abbattimenti di azoto” attraverso soluzioni impiantistiche costose (e promettenti di business per parecchi soggetti) appaiano come una manna caduta dal cielo; per di più l'operazione è presentata come un aiuto all’ambiente, una riduzione degli effetti inquinanti della zootecnia intensiva, un risparmio energetico, una riduzione dell'effetto serra e chi più ne ha ne metta. L'incentivo ad imboccare la strada della trasformazione dell'allevatore in un operatore zooenergetico è offerto dai “Certificati verdi”, che consentono di incassare 13 cent per ogni kWh ricavato da “energie rinnovabili”. Si tratta di un fortissimo incentivo, ben superiore al prezzo dell'energia (al massimo di 9 cent).

 

Ma quanto è ecologica questa operazione?

 

Se la motivazione è che così si evita di inquinare le falde freatiche e le acque superficiali si deve concludere che allora queste aziende inquinano eccome, e che - a dispetto di normative inefficaci - hanno potuto crescere oltre i limiti del rispetto degli equilibri ambientali.

La seconda considerazione è che tutto il contenuto ambientale dell'operazione si basa su un operazione semantica (e legislativa) che ha trasformato quella che per tutta la storia dell'agricoltura vegetale ed animale è stata considerata una delle risorse più preziose (la sostanza organica) in un “rifiuto”. Far smontare dai batteri anaerobici questa sostanza organica e bruciare (con una resa del 40%) il biogas (composto di metano, ma non solo) per produrre energia elettrica è uno spreco energetico colossale se si considera tutto il ciclo e non ci si limita a riciclare una parte dell'immensa quantità di energia (fossile e solare) immessa nel sistema.

Nel sistema entrano a tutti i passaggi enormi quantità di concimi chimici, pestici e gasolio. Alla fine, con trattamenti che richiedono anch'essi energia, ricaviamo dai digestati un fertilizzante ben poco organico che può far risparmiare un po’ di concimi chimici, ma che non risolve i problemi dì riciclo dei principi nutritivi nelle grandi aree di produzione agricola di quelle materie prime che entrano nella formulazione dei mangimi e dei “sostitutivi del foraggio”. II grosso guaio, però, è che con l'esternalizzazione verso impianti industriali della gestione dei reflui (che siano gestiti da coop di allevatori poco cambia), l'unità produttiva di latte diventa un reparto industriale al 100%. Già il latte va ad un impianto industriale di trasformazione (dove sappiamo come viene termizzato e manipolato!), già buona parte dell'alimentazione delle vacche è passata attraverso manipolazioni industriali; ora la quota di mangimi e “sostitutivi de foraggio” può crescere ancora, ora si allenta ancor più pericolosamente il legame zootecnia territorio perchè si riduce la necessità di terreni su cui “smaltire” i liquami.

Recisi questi ultimi vincoli la produzione di latte diventa un fatto ingenieristico e bioingenieristico, che con la zootecnia e l'agricoltura ha sempre meno a che fare. Si promuove l'uso dei non foraggi, della “tecnofibra”, della pectina, dei biomodulatori ruminali, dei tamponi, dei captanti, del grasso bypass, degli immununostimolanti, degli antichetogenici, del glicol propilenico, degli aminoacidi di sintesi, tesi a tenere in equilibrio (precario) la povera mucca- macchina-da-latte, ormai una parvenza di erbivoro. Avrmo latte ad “alta qualità” ma che reca sempre più l'impronta di un metabolismo e di una fisiologia alterate, di tutti questi additivi, correttivi, sottoprodotti, integratori e sempre meno del foraggio (dell’erba di pascolo poi ...).

In attesa che la mucca macchinizzata e disanimalizzata (ricordiaci le immagini delle “vacche a terra” diffuse dalla LAV) lasci il campo ad un clone geneticamente modificato, ad un bovinoide, ad una cybermucca è bene essere consapevoli che il latte è già oggi tecnolatte.

Se non gradiamo dobbiamo darci una mossa per volere un’altra sceneggiatura per il film dell'alimentazione del futuro.