Ruralpini 

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  Cultura ruralpina




La caccia alla volpe (e al lupo)

(nella realtà contadina)



di Antonio Carminati



(15.02.19) Nel periodo più freddo e nevoso dell’anno, quando cioè gli uomini avevano tempo a disposizione, öna ölta (una volta) i cacciatori più sfegatati, ma anche i contadini meno provetti all’uso dell’archibugio, i vàa a vulp. (andavano [a caccia] di volpi).  Non era certo la caccia alla volpe proposta, quale nobile divertimento, dai signori nei paesi anglosassoni, ma attirava comunque l’interesse di tutta la popolazione e la notizia della cattura di una volpe si diffondeva presto nel villaggio, passando di bocca in bocca. Quando, poi, la battuta di caccia risultava essere più generosa, con un trofeo di tre o quattro esemplari, allora si ringraziava persino Sant’Uberto e di quell’impresa se ne sarebbe parlato per molti anni a venire. Per endà a vulp, però besognàa ìga sö de bèi barbìs! (per andare a caccia alla volpe era necessaria una bella esperienza, lett. "avere dei bei baffi"). Era infatti necessario superare in furbizia l’animale che, per antonomasia, è sempre stato indicato quale esempio di abilità nel procacciare i propri ed esclusivi interessi, a scapito degli altri. Come non ricordare, qui, tra le tante storie del Tata (il capo della famiglia patriarcale contadina), quella del lüf e la vulp (del lupo e delle volpe)!
Raccontata dalla nonna, la quale circostanziava i fatti narrati in luoghi e persone conosciuti, la storiella ci lasciava tutti a bóca èrta(bocca aperta)!.  Ambientata en dol casèl (1) dol pòer Barbaróssa (nel crottino del latte del definto Barbarossa), si narra che questo anziano contadino tutti i giorni trasportava in quel luogo, così ben refrigerato dalla presenza all’interno de öna surtìda de acqua, ü sedèl de làcc da spanà (di una sorgente d'acqua un secchio di latte da scremare per affioramento).  Un giorno, inavvertitamente, si era dimenticato de stopà sö la bösaröla de la pòrta (lo sportello più piccolo che impedisce l'entrata degli animali). Da alcune settimane il lupo e la volpe tenevano sotto osservazione - dal bosco soprastante, senza farsi notare – ol casèl dove si conservava il prelibato alimento, l’oro bianco della montagna. Quando ol Barbaróssa si è allontanato, i due complici si sono avvicinati guardinghi e, attraverso la bösaröla, sono riusciti ad entrare! Trovatisi di fronte al gustoso alimento, hanno incominciato la festa: e lip e lap, e lip e lap, e lip e lap!.... Finalmente potevano saziarsi quanto volevano da quei secchi contenenti latte e panna freschi! Una vera delizia! La volpe, però, astuta e previdente, ogni tanto usciva e rientrava da quella piccola bösaröla, per accertarsi che nessun pericolo imminente fosse in agguato, ma soprattutto per tenere controllate le “misure” della sua pancia, rispetto alle dimensioni esigue della piccola apertura. Ol lüv (il lupo), invece, continuava imperterrito a lapà fò dal sedèl làcc e pana (lappare latte e panna dal secchio), con ingordigia, senza preoccuparsi d’altro. Inutilmente la volpe lo invitava alla moderazione. A un certo punto, quando i due amici sentono rumori di passi in avvicinamento… vià de córsa! La volpe per prima si infila nella bösaröla e scappa a zampe levate, rifugiandosi nel bosco, ma al lupo, a forza de lapà, gli si era gonfiata la pancia da non riuscire più a passare da quella feritoia. Rimase quindi prigioniero nel casèl e della sua stessa presunzione. Ol Barbaróssa, quande che l’à ést essé (Il Barbarossa quando è arrivato), accortosi subito di quanto stava accadendo, l’à ciapàt en mà ü stanghèt (ha afferrato con la mano una spranga) e, una volta entrato en dol sò casèl (nel suo crottino), chiusa la porta dall’interno, ha incominciato a bastonà ol lüv… e pinf e punf e panf!.... finchè e l’s’è laghàt dó mòrt (è caduto a terra morto)! La volpe, intanto, dal bosco osservava quanto stava accadendo: la sintìa caenà ol lüv (sentiva i lupo che guaiva), ma non poteva fare nulla per aiutarlo! E qui termina la storiella. La morale è presto detta: en de la éta, se s’völ mia ciapà sö de stanghàde, mè robà mia e mè ès balòss compàgn de la vulp; mè stà aténcc, perché pöl sémpre gnì fò ergót
(nella vita, se non si vogliono prendere sprangate è meglio non rubare e essere bricconi come la volpe; è meglio stare in guardia perché può sempre succedere qualcosa) in qualsiasi crcostanza e, dulcis in fundo... mè mia ès satù compàgn dol lüf!... (meglio non essere ingordi come il lupo).
Ce n’è quanto basta per tutti! Inoltre è più facile fàgola al lüv, che a la vulp (ingannare il lupo piuttosto che la volpe), tant’è che il primo è stato definitivamente allontanato dai contesti abitati (se non consideriamo gli incomprensibili programmi attuali di reintroduzioni del temibile predatore), anche perché decisamente più pericoloso, mentre la volpe è… sempre in agguato vicino a pollai.




A parte il lupo, volpi e faine, certo dopo lepri e viscarde, erano gli animali più cacciati dagli uomini durante il periodo invernale. Era certamente un pretesto per allontanare da polèr e serài (pollai e recinti esterni) il pericolo di questi animali, ma anche l’occasione per guadagnare qualche palanca dalla vendita delle pelli al Ragiùna, o ad altri strassér che passavano di casa in casa. Nella cattura delle volpi, in particolare, il contadino misurava le proprie abilità; inoltre il suo prestigio nella comunità aumentava in relazione al numero delle pelli esposte a trofeo nella propria abitazione, poi vendute.
Lo strumento principale per la cattura delle volpi è sempre stato ol lass (il laccio)  collocato e ben mascherato nel bosco, lungo il presunto percorso di questi mammiferi, anche nel mezzo di semplici sentierini poco frequentati. Il cappio - una sottile ma robusta corda di acciaio - scorrendo, si sarebbe subito stretto al collo dell’animale che vi fosse incappato. E, col suo dimenarsi, il terribile nodo scorsoio si sarebbe stretto sempre di più, sino a provocarne la morte per soffocamento. Oltre ai lass, assai diffuse erano anche le taöle (tagliole), decisamente più pericolose, che venivano collocate in località isolate nel bosco, lontano dal passaggio abituale degli uomini, poiché i suoi denti d’acciaio e la grave morsa sarebbero stati fatali per qualsiasi essere animato. Specialmente nel passato (ma anche oggi questo fenomeno si ripete, seppure in dimensioni ridotte), durante il periodo invernale i boschi erano, per così dire, infestati dai lacci per le volpi e, purtroppo, queste micidiali trappole non risparmiavano l’animale che l’ga borlàa dét (vi incappava). Così l’assenza prolungata del cane dalla stalla stimolava il contadino a perlustrare il bosco circostante, per verificare che ol sò Pasturì (il suo Pastorino) non fosse rimasto intrappolato in qualche pericolosa trappola.
Un’ultima chiosa, riferita sempre al pòer Barbaróssa (defunto Barbarossa) e alla sua atavica e passionale caccia alla volpe, prima di congedarmi dai lettori. Si racconta, ancora oggi, nel villaggio una vicenda che ha dell’incredibile e che solo grazie alla fortuna non ha avuto un esito drammatico. È difficile stabilire, a distanza di tanto tempo, cosa sia realmente accaduto e quanto, invece, sia il frutto dell’interpretazione popolare, anche nelle sue componenti burlesche. Il nostro contadino, incamminatosi un giorno lungo il sentiero che, dalla Bötèla, la sua contrada, dove viveva con la Teresì (Teresina), sua moglie, raggiungeva il löch (2) delle Patèrne, superati da poco i quattro grossi passi squadrati collocati sull’attraversamento della Àl (valle) de Tolóne, improvvisamente scorge nel bosco soprastante, sö en de
(su alle) Sabbionère, una volpe ferita gravemente alla zampa da öna taöla, che la trascinava appresso, e la vede infilarsi in un buco, dove probabilmente c’era la sua tana. Un cacciatore di volpi, come il Barbarósa, non poteva resistere a questa tentazione e, per catturare la volpe e recuperare la tagliola, pareva essere disposto a tutto. Inerpicatosi subito sul ripido versante boscato, raggiunse in poco tempo l’ingresso della tana: con le mani e avvalendosi del corlàss (3), sempre appeso alla felépa (cinta), tentò dapprima di ampliare il buco d’ingresso; quindi cercò di entrarvi, strisciando, allungando le mani davanti, con l’intento di raggiungere il suo obiettivo. I suoi sforzi furono vani, perché non solo non riuscì nell’impresa, ma rimase letteralmente incastrato in quel pertugio: le gambe penzolanti all’esterno, mentre le mani e la parte superiore del corpo erano come rinchiuse in quel buco. Ol Barbaróssa non riusciva né ad avanzare, né ad arretrare. Incominciò ad urlare, chiamando aiuto, ma chi poteva sentirlo, infossato com’era in quel canale sperduto? Casualmente passò da quelle parti ol pòer (il defunto) Giösèp de Manzenài, che stava raggiungendo la sua stalla alle Patèrne, quando sentì chiamare aiuto nel bosco. Inerpicatosi anch’egli sul ripido versante boscato e raggiunta la tana, da dove provenivano le grida di soccorso, scorse subito ol Barbaróssa in quelle condizioni e faticò non poco per estrarlo, tirandolo fuori per le gambe, dopo aver trascorso diverse ore di “prigionia”. La notizia si diffuse presto nel villaggio e si trasformò in uno dei tanti racconti di stalla.
La vulp e l’go l’ìa pundìda ön’ótra ölta (la volpe l'aveva beffato un'altra bolta)!




Note

(1)
  piccolo fabbricato semi-interrato, indipendente dalla casa, per conservazione al fresco di latte e latticini; spesso costruito dove sgorga una sorgente.
(2)
prati con stalle-fienile.
(3)
coltellaccio a lama larga e squadrata, simile a mannaia, utilizzato per spaccare le fascine.


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