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Cultura rurale viva

Michele Corti, 18 Luglio, 2021

In memoria di Berto Vassena

Sono state preziose quelle figure del mondo rurale che ha rappresentato un ponte tra la società contadina e la realtà attuale; qiando oggi ci lasciano vanno degnamente ricordata. Ci sono persone che non hanno mai rivestito ruoli pubblici, che non hanno scritto libri, fondato istituzioni, creato opere d'arte durature, lasciato invenzioni e che pure hanno lasciato un ricordo in cerchie di persone che vanno bel oltre il loro paese, i loro amici, parenti e conoscenti. Berto Vassena è stato un "papà delle capre" e un punto di riferimento per i caprai nella fase in cui l'allevamento caprino cercava di prendersi una storica rivincita. Ci è riuscito anche per merito di persone come lui che hanno trasmesso in modo sincero e disinteressato il loro sapere pratico, frutto dell'elaborazione di esperienze di comunità e personali. Queste prime note a caldo vorrebbero essere di stimolo alle tante persone che hanno apprezzato le doti di allevatore, ma anche quelle umane, del Berto e che ci piacerebbe ci facessero avere i loro ricorsi. Se qualcuno intendesse farlo lo ringrazio anticipatamente (scrivere a redazione@ruralpini.it)


L’altro ieri è stato "messo via" (i vecchi dicevano così, da noi) Berto Vassena, di Valmadrera (alta Brianza lecchese). Berto era molto conosciuto nell’ambiente degli allevatori di capre, non solo perché fu un antesignano ma perché allevava ottimi soggetti che cedeva ad altri allevatori, prodigo di consigli sinceri e disinteressati. È stato un maestro per tanti caprai. Le sue capre camosciate erano ambite in tutta la Lombardia e ne vendette anche fuori regione. Da lui presero capre Gualberto Martini, la Chiara Onida, la Lucia Morali e tanti altri. A chi voleva intraprendere anche la caseificazione (praticamente tutti negli anni ‘80/’90) offriva consigli preziosi la moglie Carmelina (Butti), una “maga” del formaggino lattico. I Vassena aiutavano coloro ai quali non veniva bene il formaggio, specie a inizio stagione, fornendo bottiglie di siero (ricordo di aver portato anch’io una bottiglia a qualcuno). Con molti allevatori che mossero i primi passi grazie a lui e a Carmelina, il Berto rimaneva in contatto e divenne un punto di riferimento.

La lavorazione dei formaggini a Valmadrera, in un'immagine di parecchi anni fa, quando furmagin veniva eseguita in modo del tutto casalingo (da fare inorridire i puristi dell'igiene, ma la forte acidità della pasta era ottima garanzia di sicurezza alimentare )

Purtroppo, da ormai qualche decennio, la vita di Berto stata funestata da gravi e invalidanti malattie che gli hanno procurato tanta sofferenza. A partire da un incidente sul lavoro (nel giardino della villa Gavazzi della quale era un tempo custode e giardiniere) procurandogli seri problemi, che gli impedivano di allontanarsi troppo da casa e di partecipare a iniziative in tema di capre alle quali avrebbe aderito volentieri. Quando stava meglio, però, accettava anche di partecipare a iniziative pubbliche, così nel 2005 quando avevamo partecipato insieme, presso il museo etnografico dell’Alta Brianza di Galbiate, a un incontro in cui si parlava dell’allevamento delle capre e delle pecore in Brianza.

La sua naturale esuberanza, la voglia di lavorare, di relazionarsi agli altri, la passione per gli animali, per molto tempo sono state più forti delle patologie. Pur riducendo il numero di capre, da una trentina a una decina, poi a cinque, continuò ad allevarle sino a pochi anni fa e a lavorare nella sua falegnameria, una passione che gli consentiva di sfornare molti oggetti belli e utili che spesso regalava agli amici, spiegando le caratteristiche delle essenze, ne usava parecchie, con le quali erano stati realizzati. 


Sostenuto da una forza d’animo e da una positività nei confronti della vita non comuni (ma anche da una famiglia forte e coesa e dalla fede), ha potuto sopportare situazioni che avrebbero condannato molti alla disperazione e alla perdita dell’equilibrio mentale. Ieri sera, ricevuta la brutta notizia, non ho potuto fare a meno di ripensare a un episodio della giornata: lo “scontro” all’ingresso del Parco di Monza dove entravo in bici, con il banchetto per la raccolta di firme per l’eutanasia attiva. Come non pensare che eutanasia e distruzione della famiglia (con il ddl Zan) sono due facce della stessa medaglia? Distrutta la famiglia, che con la forza dell’amore può garantire condizioni di vita a malati gravi migliori di quelle delle strutture specializzate, il peso dei malati terminali o affetti da patologie e invalidità che, pur consentendo speranza di vita, non consentono l’autosufficienza e richiedono cure assidue, ricadrebbe tutto sulle strutture sanitarie. Così si ammanta di “diritto alla morte” (tutto quello che il sistema vuole imporre è presentato, suadentemente, come “diritto”) quello che è solo una considerazione utilitaristica: perché “sprecare” grandi risorse, in vista di un invecchiamento globale della popolazione, risorse che potrebbero essere impiegate per lo “sviluppo”, magari per finanziare i progetti di colonizzazione marziana? Via la famiglia l’eutanasia diventa una conseguenza obbligata. Tolto di mezzo Dio, e la famiglia, sarà l’uomo che ha preso il posto di Dio (ovvero gli “esperti”, di fatto il potere) a decidere la vita e la morte, a stabilire sino a quando potremo vivere, sarà il calcolo economico neoliberale. L'inganno del grande mentitore, che fa balenare diritti e libertà per incatenare l'uomo nella schiavitù del peccato (e del potere) non potrebbe essere più subdolo.

La famiglia e il contesto in cui Berto è cresciuto sono importanti anche per capire la sua bella esperienza di allevatore (aveva anche pecore, oltre alle capre, anche se cambiò diverse razze). In quanto custode e giardiniere del grande Parco di villa Gavazzi a Valmadrera, Berto aveva potuto disporre di una stalla che, a suo tempo, aveva ospitato vacche da latte importanti (vedremo subito perché). L’abitazione era al livello superiore, quasi un tutt’uno, per di più annesso al parco, che forniva anch’esso degli sfalci, vi è un grande prato, dove le capre, in alcune stagioni, potevano anche pascolare. La storia della famiglia Gavazzi è intrecciata con quella del setificio lombardo ma, relativamente al ramo proprietario della filanda e della villa di Valmadrera - cosa che pochi sanno - anche con quella dell’allevamento bovino da latte.


La villa, originaria del XVII secolo, fu acquistata dai Gavazzi nel 1817 come coronamento di un rango sociale acquisito, dalla metà del Settecento, dopo una lunga ascesa sociale (erano già nel ramo della seta nel Quattrocento a Canzo). L’ing. Pietro Gavazzi, fondatore della Gavazzi e C. che produceva nastri di seta e biancheria nei due stabilimenti di Valmadrera e Calolziocorte, si impegnò, insieme ad altri esponenti dell’imprenditoria lecchese dei primi anni del Novecento (Badoni, Falk, Fiocchi, Locatelli) nell’attività zootecnica di selezione della razza bruna. Questo movimento avveniva in un periodo in cui (prima degli anni ’30) Lecco e la Valsassina erano un centro importante dell’industria casearia italiana e le prospettive di valorizzazione della bruna valsassinese, in sostituzione dell’importazione di bestiame dalla Svizzera, apparivano concrete e strategiche. Non meraviglia, quindi, che i più noti industriali si facessero allevatori. Pietro Gavazzi ottenne importanti premi per le sue ovine da latte alla mostra zootecnica di Barzio nel 1920 e le sue lattifere, una volta avviati i controlli sistematici della produzione lattea, erano piazzate tra le prime della razza bruna. La stalla del Berto, nel corpo rustico annesso al complesso della villa Gavazzi, occupava una parte delle stalle di un tempo, è con due file di poste, mangiatoia alla parete e corsia centrale.

Il grande complesso della villa Gavazzi, con il parco, il "filandone", la villa  con il grande giardino d'inverno, la cappella di San Gaetano (che si riconosce per la cupola) e, a sinistra, il corpo rustico, con le stalle.

Divenuta angusta per le vacche era, negli anni ’70-‘80 una stalla spaziosa e luminosa per le capre. Tenuta pulitissima da Berto (la paglia della lettiera era rimossa frequentemente e il minimo avanzo di fieno rimosso e "passato" alle pecore), non si avvertiva alcun cattivo odore. Le capre erano tranquille ma vispe e socievoli, abituate alle numerose visite di amici e acquirenti dei formaggini. Mangiatoie e catture erano state realizzate dallo stesso Berto, come si è già ricordato abile falegname. La storia di questo piccolo ma importante allevamento si comprende sia con la collocazione nella villa Gavazzi che con l’importanza e l’amore per le capre di un paese come Valmadrera, posto alle prime, erte, pendici delle prealpi (il paese, a 250 m di quota è sovrastato da cime di oltre 1200 m).


Le capre, adatte ai “bricchi”, erano l’idoneo complemento di una magra agricoltura sui terreni al piede dei monti e su qualche ripiano del versante e di precoci attività industriali. Le capre erano mantenute per il latte, dal quale ottenere i formaggini che venivano fatti stagionare anche in grotte e nei caratteristici "casotti". Intorno alla capra si era sviluppata una cultura locale che comprendeva anche mostre informali, con tanto di gare di mungitura (il tutto in un'epoca in cui la politica forestale del fascio tendeva a rilanciare i pregiudizi contro le capre). Da queste competizioni emergeva la “regina del latte”, in evidente analogia con quanto si faceva allora nell’ambito della vacca bruna.   Un parallelismo interessante perché mostra come l’interesse a valorizzare la capra non sia solo, come si vuol far credere, una “moda” di “neorurali” a imitazione di un “movimento” proveniente da oltralpe (peraltro iniziato anche in Francia non prima del periodo tra le due guerre). Berto raccontava questi fatti per sottolineare come la sua passione per le capre contenesse elementi di continuità ma al tempo stesso di innovazione, legata alla sua personale iniziativa. A proposito delle "regine del latte" non mancava di ricordare divertito come i "paesani", per dar produrre più latte alle proprie "campionesse", ricorressero a vari espedienti.


Valmadrera dalle creste del Moregallo. Valmadrera è costituita da una piana (oggi occupata dalle industrie) dai terreni al piede dei monti e da alcuni piccoli pianori, come quello di San Tomaso, dove si esercitava l agricoltura e l'allevamento contadino

Ma perché le camosciate, una razza non propriamente autoctona, seppure del ceppo alpino? Le camosciate che, detto per inciso, qualcuno continua buffamente a chiamare "scamosciate", anticipando un utilizzo post-mortem della pelle dell’animale che prevede una particolare concia (con l'esclusione dello strato più esterno, duro e resistente, della pelle di capra), utilizzata in prevalenza per la confezione di scarpe, per l'appunto "scamosciate".

Le camosciate (senza esse, per favore), il Berto le aveva importate negli anni ‘70 dalla Savoia. Non si era affidato a commercianti e si era recato personalmente da un allevatore savoiardo (Arpin, che nominava sempre con ammirazione). Pur conoscendo bene le capre (a Valmadrera come in altri centri dell'alta Brianza c'è, come visto, una radicata tradizione del caprino lattico) aveva assorbito il sapere specifico dell'allevatore francese relativo alla razza. Quanto al formaggio, la moglie Carmelina Butti non aveva da imparare nulla dai francesi. I suoi caprini lattici, giustamente maturi, non avevano rivali. Non ho mai mangiato formaggini più buoni. Anche quando l’Asl costrinse a non usare la cantinetta con fondo in terra battuta, dove venivano benissimo. La Carmelina era riconosciuta specialista di formaggini lattici stagionati. Li vendeva anche freschi, se qualcuno, seguendo le nuove tendenze dietetiche, e non sapendo che il grasso cambia nella stagionatura ma non aumenta, li chiedeva, ma soptattutto maturi al punto giusto. Era orgogliosa e consapevole del suo "sapere pratico" ma anche del fatto che la qualità del suo prodotto dipendeva anche da quella del latte (e quello era merito del suo Berto).



I furmagitt li confezionava secondo la tradizione locale, con qualche aggiustamento, utilizzando il sieroinnesto (di bustine di fermenti industriali, invece, non voleva neppure sentire parlare). Quando avevano ancora un discreto mumero di capre, i Vassena vendevano i formaggini a un negozio di Lecco, che li supplicava di farglieli avere, ed erano ricercatissimi. I formaggini di Berto e Carmelina erano coperti da una crosta fiorita omogenea di Geotrichium candidum con leggere grinze  e un tendenziale distaccamento, a maturazione avvenuta, della "pelle" dalla pasta cremificata sottostamte. Non erano mai amari o con gusto di grasso ossidato, come quando lo sviluppo del Geotrichium è troppo aggressivo. Chissà perché la "pelle di rospo" da noi è considerata un difetto e in Francia un "pregio'".  Quando gli si chiedeva perché non volessero cimentarsi in altre tipologie, i Vassena rispondevano che i loro formaggini erano già prenotati prima di produrli. L'univa variazione riguardava l'aggiunta o meno del pepe nero spolverato e il grado di maturazione. Chi veniva via dai Vassena con un vassoietto di formaggini della Carmelina li portava via fiero come un trofeo. A volte, infatti, si rischiava di andare via a mani vuote o di dover accontentarsi di formaggini freschi (che agli intenditori "dicono poco")

Berto avrebbe voluto riprendere l'allevamento della bormina (bionda/toggemburg). I pastori transumanti, specie camuni, che hanno sempre prediletto la bionda avevano lasciato in Brianza un ceppo di capre, che i contadini locali avevano intuito avere buone caratteristiche lattifere e che andavano poi a ricercare sino in Valcamonica. Ai tempi in cui Berto voleva rilanciare l'allevamento caprino su basi un po' più consistenti e specializzate, c'erano ancora diversi piccoli nuclei di "bormine brianzole" ma, su quella base, non era possibile rilanciare l'allevamento. In zona è stato Roberto Mainetti a rilanciare la bionda/bormina/toggemburg, mietendo successi alle mostre camune. Ovviamente è ricorso all'incrocio con la Toggemburg, ma non basta importare e incrociare per creare un allevamento di soggetti di grande pregio. Serve passione, occhio, intuizione, costanza. Roberto, che sceglieva i migliori soggetti della Valcamonica, incrociandoli poi con quelli svizzeri,  ha avuto la fortuna di avere un successore in Carlo (grande appassionato più di capra orobica, però) mentre i figli di Berto, causa un’allergia al pelo di capra, non hanno neppure potuto prendere neppure in considerazione l’attività.  In ogni caso, anche se Berto ed altri allevatori presero la strada di una razza più produttiva, in sede di applicazione delle misure che premiano le razze in via di estinzione (il mitico regolamento 2078), la bionda venne ammessa a contributo, oltre che in provincia di Brescia, anche nel triangolo lariano a riconoscimento di una realtà radicata. Berto, che per vari motivi aveva dovuto scartare la possibilità di importare dalla Svizzera la Toggemburg (cosa che più facile poi per Mainetti), a malincuore si risolse a orientarsi sulla camosciata.


Meritano un cenno tra gli "antesignani" il Colombo di Civate e il dr. Origgi con il quale era socio. Di seguito vennero a ruota il dr Spelta (altro veterinario appassionato di capre, saanen, però, che si trasferì dalla val d' Intelvi all'appennino piacentino, il Butti, che lasciò un posto di tecnico all'Ibm per fare il capraio a Vendrogno, i Buzzi a Valbrona, un altro Colombo ai Piani Resinelli. Peccato che Colombo, a Civate, paese confinante con Valmadrera,  dovette chiudere per brucellosi. Dove c’era la sua azienda c’è ancora il Crotto del Capraio che ricordo per una “cena dei caprai” a base di becco con la partecipazione del Berto.  Dopo gli "antesignani" sono arrivati in tanti. Allora, i pionieri erano considerati un po' strani e guardati con sospetto, come "figli dei fiori". Ma quello che è bene sottolineare è che Berto (non era il solo, peraltro) non era affatto un neo-rurale, era un vetero-rurale, sensibile e intelligente che aveva intuito che la capra meritava una "riabilitazione" e uno spazio a pari dignità nel panorama zootecnico.  In comune i caprai avevano comunque qualcosa: l'aspirazione ad un'agricoltura meno industrializzata, più a dimensione artigianale, umana, animale, la voglia di recuperare ambienti e risorse della montagna a rischio di abbandono, di ritornare a filiere corte (quando non si conosceva ancora neppure il termine). I primi caprai si sentivano portatori di valori morali: rispetto dell'ambiente, dell'animale, rapporto diretto e sincero con il consunatore e il tutto era quindi visto da alcuni con simpatia, da altri con sospetto. Figure come quella del Berto, saldamente legate alla cultura rurale, hanno contribuito a far "mettere i piedi per terra" all'allevamento caprino e a farlo crescere.

Che questo movimento abbia investito per primi il varesotto e il  lecchese non deve sorprendere. In realtà i primi allevament di camosciata erano nati sotto forma di coop con moltissimi animali e grandi strutture nel basso Piemonte, ma "pompati" dai contributi regionali e il
modello, senza radici e fondati sulla supponenza del sapere tecnico, andò in contro a clamorosi fallimenti sia sul piano gestionale che su quello delle patologie. Il "modello lombardo", a metà tra neo e vetero ruralismo, crebbe invece gradualmente, in modo spontaneo (pur con il sostegno di alcune istituzioni come la Camera di commercio di Varese); le aziende con centinaia di capi apparvero solo dopo anni dalla ripresa dell'allevamento caprino, quando si erano consolidate e diffuse le conoscenze zootecniche e veterinarie. Il fatto che sia partita tra il lecchese (allora ancora provincia di Como) e il Varesotto non deve sorprendere. Qui c'era una cultura  particolarmente radicata per le capre e per i formaggini di capra (nel Varesotto, in realtà per la furmagina, una pasta di caprino utilizzata per il zincarlin, aggiungendo pepe e aglio (sono convinto che sia legato alla forte matrice celtica che ci accomuna con i cugini francesi). Poi il "revival" si allargò alla val Camonica, alla Valtellina e alla provincia di Bergamo che, da provincia con meno capre di tutta la Lombardia (in relazione alle "guerre alle capre" ottocentesche) è divenuta la più caprina di tutte. Un fenomeno assecondato dalle istituzioni (APA, Regione, Provincie, quella di Bergamo si impegnò in modo particolare) ma che è potuto svilupparsi, consolidarsi, continuare a crescere (il "boom" delle capre continua da quarant'anni) grazie a supporti "orizzontali" all'esperienza accumulata dai primi allevatori e trasmessa con meccanismi "tra pari". E qui il riconoscimento al Berto è d'obbligo

In provincia di Bergamo il boom dei nuovi allevamenti di capra è stato più tardivo (anni 2000) ma si è rivelato consistente e duraturo. Un cimelio di quel periodo è il libro edito dalla Provincia di Bergamo (in vendita su Internet come "antiquariato" da ElleLibri).

Le capre di Berto erano produttive ma non spinte, per questo erano longeve. Accolse alcuni miei consigli alimentaristici che, probabilmente erano utili a bilanciare la razione, ma mai l'idea di utilizzare quelle quantità di concentrati che, a cuor leggero, molti allevatori senza il retroterra e l'etica di Berto (quinta elementare ma con una sensibilità verso l'animale e principi morali nettamente superiore a quella dei laureati "studiati" e agli "imprenditori", per i quali capre o cavoli purché facciano profitto). Lui parlava di ogni capra come di una figlia, valutando tutti i pregi e i difetti (conformazione, mammella, produttività, indole e comportamento, mungibilità). Snocciolava le genealogie delle sue capre con la naturalezza del vero allevatore, tra le mitiche fondatrici ricordo una Frida (bel nome evocativo, se ricordo bene). Forse anche per la presenza delle corna, le camosciate del Berto non avevano quell'aspetto "gentile" di quelle che si vedono in altri allevamenti. E continuarono a piacermi anche quando le "autoctone" presero ad interessarmi sempre di più grave. Aveva creato delle "linee" che tendeva a mantenere, ovviamente attento a evitare la consanguineità. Inutile dire che, nella scelta delle madri di becchi, non guardava solo al "secchio".


Allora non ero ancora in grado di riconoscere in queste pratiche sapienti qualcosa di altrettanto importante del sapere accademico. Quando (anni ‘80) cercavo di convincere Berto a "spingere" di più le sue capre (per la mera soddisfazione di ottenere alte produzioni) egli contrapponeva un gentile ma fermo diniego. Aveva ragione lui. E gli sono debitore per avermi trasmesso la sua filosofia. Nel 1986, quando avvenne il disastro di Chernobyl stavo seguendo gli allevamenti di capre del lecchese (analisi del fieno, del latte e del sangue, allora c'era la mania dei "profili metabolici" che facevano tanto "scientifica" l'indagine zootecnica). Chernobyl rappresentò una svolta. Le regole più severe sull'uso dei prodotti radioattivi bloccarono le mie velleità di studi con isotopi radioattivi sugli animali in vivo (il mio istituto non disponeva di laboratori con specifiche tali da consentirli) e mi indusse a un ripensamento critico nei confronti dello scientismo e a una sana diffidenza per le tecnologie (atomiche o "bio" che fossero) che mi portò verso tutt'altra direzione di interessi (pascoli, prodotti tradizionali, valenze culturali dell'allevamento, etnografia).

Un esemplare di camosciata che ricorda quelle del Berto.

Berto mi fece meglio capire quanto contava, oltre al "produttivismo" anche il benessere dell'animale, la durata in stalla, la qualità del latte (considerando che poteva avere un riscontro immediato nella resa quanti-qualitativa), la correttezza degli appiombi e della linea dorsale. Era anche un nemico dei formalismi. Si indispettiva quando i burocrati romani dell'Assonapa non volevano iscrivere nel Libro genealogico soggetti con "difetti " di colorazione del mantello (questo accadeva prima che la FA diventasse comune anche nelle capre e l’uso del seme francese diffondesse mantelli pezzati e persino molto scuri, sino al nero, tanto da indurre i burocrati ad arrendersi).

Berto, il fieno lo faceva con le sue mani ed era solo quello che dava alle sue capre (attento a utilizzare quella qualità per le caprette, l'altra per le capre in lattazione, l'altra ancora per l'asciutta ecc.). Certo, essendo poche, erano ben curate, ma non erano belle e sane solo per quello, era per l'attenzione, per il rispetto, per il senso di simbiosi senza smancerie "animaliste" che lui instaurava con i suoi animali (aveva anche pecore e pur preferendo le capre le trattava con uguale considerazione). Entrare nella stalla era per me, un'occasione di serenità. Ci si andava volentiri, per le capre, per la cordialità del Berto, per le cose che raccontava e faceva vedere e dalle quali si imparava sempre qualcosa- Quando si entra in una stalla ci sono delle sensazioni sottili che ti colpiscono. C'è una forma di comunicazione animale prerazionale che ci dice, forse in quanto mammiferi evoluti, non necessariamente umani, che quegli animali stanno bene, vivono una vita serena... e trasmettono senso di benessere e serenità. La stalla del Berto era così meta di un vero e proprio pellegrinaggio, non solo di persone che erano interessate alle capre ma anche dei “golosi” dei formaggini e di tanti amici che, forse, trovavano confortante il senso di serenità, pulizia, attenzione, passione che da essa promanava.


Berto e Carmelina trasmettevano agli altri il senso di accudimento e di rispetto con il quale trattavano animali e piante. L'orto di Carmelina è sempre stato uno spettacolo per il suo rigoglio. Pollice verde ma anche attenzione a scegliere le varietà giuste (Berto, pur piccolissimo agricoltore, era attento anche alle innovazioni, andava alla Fondazione di Minoprio a sceglierle). Personaggi di un mondo che non c'è più Berto e Carmelina erano anche aperti alle novità.

Un'immagine del museo della vita contadina a Sam Tomaso (Valmadrera)

Berto era un vero esponente della cultura rurale, la esprimeva in modo spontaneo nella sua vita, ma era anche interessato ad essa come fatto consapevole. Quando gli feci conoscere il libro di Paul Scheuermeier (un librone in due volumi da 90 €) su “Il lavoro dei contadini” (frutto di una sterminata inchiesta etnografica approfondita sul modo contadino italiane degli anni '20 del secolo scorso, pubblicato in edizione italiana da Longanesi, Milano, ultima ed. 1980) volle procurarselo (lo fece arrivare tramite la libreria-editrice Cattaneo di Lecco-Oggiono).  Va detto che a Valmadrera c'è, un po' in tutta l'alta Brianza, c'è un interesse piuttosto diffuso per la cultura rurale come testimoniano i libri prodotti e il museo contadino presso la località San Tomaso.

Animo sensibile, attento, generoso il Berto, coerente con i suoi principi sino al rigore, era all’opposto della figura sulla quale ama indulgere lo stereotipo urbanocentrico del contadino “rozzo” e avaro. Uno stereotipo che, è bene dire, non pochi rurali, che pur sbandierano il loro essere "imprenditori", si continuano ad auto-appiccicarsi addossoe.  .

Figure belle di un modo rurale “che non c’è più ma che una volta c'era”. Non ne ho conosciute molte. Non ce ne sono molte e stanno sparendo. Però c'erano e qualcuna c'è ancora. Valorizzatela, sono beni culturali viventi. Ne abbiamo bisogno. Nei musei, che dovrebbero essere centri di produzione di cultura viva (distribuire sementi, fornire supporti ai contadini) ci dovrebbe essere uno spazio, oltre che per attrezzi lasciati alla voracità dei tarli, per ricordare persone come il Berto che ora riposa in pace avendo lasciato tanti buoni ricordi in chi lo ha conosciuto.

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