Ruralpini 

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  Cultura ruralpina




La gestione del letame nell'economia agropastorale montana



(Bàt fò, spand e röga ol rüt)




di Antonio Carminati



(20.03.19) Lo spargimento del letame nei prati e campi di montagna, utilizzato quale fertilizzante, è forse una delle attività maggiormente faticose, ma anche più importanti, sul piano della conclusione di un ciclo naturale. Almeno così era nel passato. Di norma, i bergamini (1), prima di scendere alla Bassa con i loro armenti, dove sarebbero poi rimasti in cascina tutto l’inverno, provvedevano già a settembre, a conclusione dell’ultimo pascolo, alla concimazione dei prati.

Gli allevatori più importanti o impegnati avrebbero, invece, dato l’incarico a qualche marà (2) del posto. Le mésse dol rüt (le concimaie), che si ergono come piccoli ma robusti torrioni neri in prossimità della stalla, venivano così demolite, a forza di vigorose forcate, col ràscc (forcone a due punte) impugnato da entrambi le mani, per caricare ol dèrel dol rüt (il gerlo del letame), tenuto sollevato da terra da un rudimentale trabiccolo di legno, a guisa de ü caalèt (cavalletto), simile a un treppiedi, che ne favoriva il carico e il sollevamento a mezzo di due robusti spallacci. Occorreva anche far spazio alla costante produzione di concime organico, ottenuto dalle continue spassàde, due volte al giorno.
I contadini di monte restituivano così alla terra ciò che dalla terra avevano ricevuto: fogliame di faggio o di castagno, ottenuto dalla pulizia di boschi e pascoli, intriso delle deiezioni dei quadrupedi, divenuto letame, dopo alcuni mesi di deposito nella méssa. Chèl fàcc (quello maturo), trasformatosi ormai in terriccio, l’ìa chèl piö bù! (era il migliore) Lo chiamavano anche “gràssa”, per indicare la sua funzione fertilizzante.

Sulle nostre montagne, sino poco più di due decenni addietro, è sopravvissuto un circolo chiuso e virtuoso, dove i prodotti ottenuti dalla coltivazione della terra e dall’allevamento del bestiame venivano usati per concimare campi e prati, che a loro volta producevano foraggio e mais. Attualmente la situazione è un po’ cambiata: in realtà penso che almeno il trenta per cento - è un’idea che mi sono fatto io, non supportata da alcuna statistica ufficiale - del foraggio utilizzato dalle aziende zootecniche della valle venga importato e una quantità elevata del letame così prodotto finisca nei prati. Gli animali aumentano, soprattutto in talune aziende ad allevamento intensivo, e superano di molto la percentuale del terreno a disposizione, sia per la produzione di foraggio che per la concimazione.
Letame e soprattutto liquami devono essere smaltiti diversamente e costituiscono rifiuti speciali. La catena con la terra si è spezzata. Si pone anche la questione di ampliare la superfice coltivabile, sottraendo al bosco nuove aree da trasformare in prato stabile. Evidentemente l’eccesso di concime, soprattutto se ottenuto dall’alimentazione di mangimi e foraggi provenienti dall’esterno, rischia di distruggere la biodiversità. Un vero problema per i prati di montagna è la scomparsa graduale di erbe, fiori e piante autoctoni per il sopravvenire di specie infestanti e di lontana provenienza.

Il circolo chiuso e virtuoso si propaga ancora nelle piccole stalle di montagna, quelle che hanno rifiutato di copiare il modello delle grosse aziende della Bassa, quelle che ancora resistono con modesti numeri di capi di bestiame, dove la produzione di concime naturale è sempre stata possibile, poiché le deiezioni liquide e solide dei quadrupedi - alimentati con foraggio ottenuto dalla coltivazione dei piccoli
appezzamenti di prato - fanno un tutt’uno con il fogliame della lettiera, che confluisce nella cönèta dol rüt e va a formare un unico “impasto”. Non si pone il problema dei liquami, che non si formano, e l’olfatto dell’escursionista non viene troppo disturbato quando, a fine inverno e inizio primavera, si reca a passeggio da queste parti. Tutto ritorna alla natura in modo molto naturale. Il periodo tardo autunnale sarebbe quello privilegiato per la distribuzione del letame nei prati. I piccoli allevatori, prima di abbandonare le stalle di monte, per trascorrere l’inverno nelle stalle in prossimità delle contrade, cercano di completare tutti i lavori agricoli connessi alla gestione dei löch (maggenghi)(3), più distanti, per laghà töt en ùrden (lasciare tutto in ordine). Inoltre la neve e le gelate, ricoprendo il letame disteso nei prati, ne favoriscono la completa decomposizione. In primavera non sarebbe rimasto altro da fare che provvedere a una veloce passata di rastrello nel prato, per asportare le poche impurità rimaste, soprattutto bachècc ("bacchette") (4) e piccole pietre, che, se non raccolti, avrebbero ‘ntepàt (danneggiato) la lama de la rànza (falce fienala) durante la falciatura. Nel frattempo si stendevano anche i mucchietti di terriccio provocati dall’incessante lavoro delle tópe (talpe) nel sottosuolo. Il prato si appresta, così ben ordinato, alla nuova fioritura.

Distribuire il letame su un prato con il dèrel era un lavoro pesantissimo, se calcoliamo che ciascun carico superava ampiamente i cinquanta chilogrammi e che andava trasportato in terreni affatto pianeggianti. Con un simile peso sulle spalle la fatica è notevole, sia a ‘ndà de ‘nsö, che a ‘ndà de ‘ndó (a procedere in salita che in discesa) . Il letame era una risorsa limitata, prodotto dai pochi quadrupedi nella stalla, generalmente insufficiente a soddisfare tutte le esigenze, e andavano rispettate alcune priorità: dapprima si concimavano i càp (campi) – in concomitanza con la vangatura – e quindi i prati migliori, ma se un anno ne avanzava un po’, si concedeva a coloro che erano senza o, a la malparàda, una parte poteva essere distesa anche sui pascoli migliori.
Durante i lavori di concimazione si mobilitava tutta la famiglia, compresi i bambini e le donne, anzi spesso e volentieri era proprio la componente femminile a sobbarcarsi i lavori di maggior fatica, compreso il trasporto del dèrel cargàt de rüt, dó per i càp o sö per i sée (gerlo riempito di letame, giù per i campi e su per i terrazzamenti). Spesso gli uomini erano addirittura lontani, emigrati per lavoro. Il lavoro agiva come una sorta di collante che teneva uniti tutti i componenti del gruppo familiare nei momenti più difficili e impegnativi. C’era la condivisione del sacrificio e della fatica.

Solamente le famiglie più strutturate e, in un certo senso, “benestanti”, le quali disponevano di un asinello - il mulo era solo per i carrettieri o di quanti dediti ai trasporti di generi alimentari dal fondovalle alle contrade di monte - potevano schivare alcune fatiche, utilizzandolo per il trasporto del letame dalla méssa dol rüt al prato o nel campo. Sui terreni pianeggianti - pochi, per la verità - o leggermente inclinati, il somarello trainava una slitta, costruita anche sul momento, utilizzando frascame intrecciato e legato insieme, sulla quale venivano scaricate ras-ciàde de rüt (raschiate di letame). Sui versanti particolarmente ripidi, o nei rùch (ronchi, terreni terrazzati), l’asinello era attrezzato sul basto di due càsse dol rüt (cassette per il letame) ben fissate in groppa a bilanciere; un semplice congegno consentiva di aprire velocemente lo sportello di ciascuna càssa e ol rüt, tutto d’un tratto, sarebbe caduto a terra. Non tutti avevano la possibilità di mantenere un asinello, che durante l’inverno veniva utilizzato anche per il trasporto di carichi di legna nelle fasi dell’esbosco. I più, ovviamente, si avvalevano dol dèrel, oppure anche de la barèla dol rüt (la barella del letame), costituita da un robusto assito poggiante su due stànghe per l’impugnazione da parte di altrettanti uomini o donne: ü dal denàcc e chèl’ótro fò pùsa (uno da vanti e l'altro di dietro). Le carriole subentrarono diffusamente più tardi, nella seconda metà del secolo scorso, prima con le ruote in legno e in ferro, poi in gomma, anche se il loro uso nella concimazione quassù è stato abbastanza limitato.
Sinora abbiamo affrontato solo una delle tre fasi connesse alla concimazione, quella cioè attinente a “portà - o bàt - fò ol rüt”, ossia al trasporto del letame dalla concimaia al prato, che alla fine si presenta così ricoperto da tanti mucchietti di letame, sparsi qua e là e tra loro pressoché equidistanti, sino a coprire tutta la superficie coltivabile del terreno. La seconda fase consiste invece nello “spànd fò ol rüt” (spandere e disfare i cumuli di letame): ciascun mucchio, partendo da quelli più in alto, sempre avvalendosi del ràscc, viene distribuito in modo uniforme sul terreno; ras-ciàde de gràsa volano qua e là, lanciate con forza dal contadino con la forca: cadendo si frantumano sulla superficie a prato stabile, che assume così una colorazione a macchia di leopardo - verde e marrone scuro - e infonde all’intorno l’inconfondibile profumo del concime naturale, tipico delle stalle di montagna. Un odore persino gradevole. È il profumo della fatica dell’uomo e della natura che si trasforma e rigenera in continuazione. Quello prodotto nelle stalle della pianura, oppure anche quassù, a margine degli allevamenti intensivi, trasmette sensazioni olfattive diverse, soprattutto è difficile da respirare, per la presenza di liquami e sostanze chimiche. Al termine di questa seconda operazione, il lavoro non è ancora ultimato: occorre, infine, “rögà sö ol rüt” (spezzettare il letame), ossia, sempre col ràscc, ripassare tutto il prato ricoperto di letame per sfragoià fò bé e meòcc (sbriciolare bene i residui più grossi) di letame, riducendoli in particelle più piccole - per favorire la loro decomposizione - e distribuendolo in modo uniforme su tutto il terreno. Ci si rende facilmente conto di quanto sia impegnativo questo lavoro, che un tempo poteva durare anche diverse settimane, quando doveva essere fatto a forza di braccia e di spalle!

La meccanizzazione agricola, che quassù si è sviluppata soprattutto negli anni Ottanta del secolo scorso, ha cambiato la modalità del lavoro, ma non il suo significato, quale elemento conservativo del contesto e generativo di nuove opportunità di vita. Al ràscc si è sostituito, nella fase di carico dol rüt, il braccio meccanico azionato da un sistema idraulico connesso al cardano del trattore; al dèrel è subentrato il moderno trattore con cassone spargi-letame, che nel prato semplifica e accorpa entrambe le azioni de bàt fò e rügà ol rut (di trasporto e sminuzzamento) . Il potente mezzo meccanico frammenta le particelle di letame e le distribuisce in modo uniforme. Il trattore, però, in montagna non arriva dappertutto: ciascun ambiente ha i suoi caratteri che lo rendono unico, con piani variamente inclinati e versanti anche assai scoscesi, vallette e pendii non sempre facilmente accessibili, dove occorre ancora fare uso della rànza e del ràscc, dol dèrel e della carèta.

 



Quest’anno Francesco è in ritardo con lo spargimento del letame. I lavori sono sempre molti e incalzano ogni giorno, da mane a sera. Dall’allevamento delle vacche grigio-alpine alla stalla dei vitelli, dall’ovile delle pecore massesi a quello delle nostre bergamasche, provengono richiami per diversi adempimenti. Poi c’è la caseificazione presso la cooperativa e gli imprevisti, che ogni giorno non mancano, fanno sì che quassù non si sappia cosa sia la monotonia. Ogni giorno è un’avventura diversa. Infine, l’acquisto del “ragno”, con braccio meccanico, per il carico del letame, a causa delle modifiche dovute effettuare per renderlo idoneo al trattore, ha ulteriormente ritardato il lavoro. Siamo ormai a metà del mese di marzo e il primo tepore primaverile - venerdì 15 marzo il termometro segnava 22 gradi alle ore 14 a San Simù - ha anticipato i nuovi colori nei prati: tenere erbette spuntano timide e guardinghe dalla terra ancora affrancata all’inverno, che con le sue improvvise scorrerie le potrebbe travolgere, coprire con la neve, che permane tuttora sulla cima del Resegone e sul monte di Valcava. Il lavoro in montagna è sempre un po’ così, incerto, che va costruito giorno dopo giorno, difficilmente programmabile, in balia di una natura per tratti matrigna, comunque accolta e amata così com’è. Anche la natura dei montanari si è conformata, nei secoli, a questa dimensione di precarietà, nell’accettazione delle situazioni nel loro divenire e nei repentini cambiamenti. La fortuna della gente di montagna? Il possedere tanta grinta per affrontare le difficoltà con protagonismo, rialzarsi e ripartire ogni volta che si inciampa; la predisposizione al lavoro e al sacrificio; la forza, il coraggio e l’orgoglio di affermare la propria esistenza.



Note

(1) Gli allevatori-casari transumanti che svernavano nella pianura lombarda.
(2) Marrani. I bergamini (vedi nota precedente) definivano così, in modo spregiativo, i piccoli contadini-allevatori stanziali.
(3)
Località con stalle-fienili isolati, singoli o a piccoli gruppi.
(3) I fusti non ancora decomposti di essenze perenni ad altro portamento, tipicamente ombrellifere.




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