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(12.02.11) Multifunzionalità agricola: qualche commento alla 'casa'

L'agricoltura è sempre stata multifunzionale e ha sempre garantito un equilibrio tra funzioni. Ci si è accorti che qualcosa non andava quando l'esasperazione dell'aspetto produttivo-economico a danno delle altre funzioni (ecologiche, culturali e sociali) ha messo in evidenza il rischio di un collasso della 'casa'. Ma anche l'esasperazione dell'attenzione all'ecologia - se va a scapito delle altre funzioni - causa la morte dell'agricoltura e, in qualche altro tempo-spazio problemi ecologici ancora peggiori. Sarà la saggezza contadina a salvarci dalla follie industrialiste ed 'ecologiste' 

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(18.02.11) Con questo commento inizio ad affrontare un tema cruciale per l'agricoltura e la ruralità alpina: il valore delle risorse culturali ad esse associate. Sono graditi interventi

 

AgriCultura: le funzioni culturali dell'agricoltura (1)

Il cibo è un 'bene culturale'?

 

Nel dibattito italiano - a differenza di altri paesi - stenta a farsi largo l'assunzione dell'importanza degli aspetti culturali e socio-antropologici dell'attività agricola. Eppure la dimensione culturale rappresenta una risorsa chiave per i sistemi territoriali agricoli delle aree montane e 'svantaggiate'

 

di Michele Corti

L’agricoltura è al tempo stesso un potente fattore di distruzione di beni culturali materiali ed immateriali (saperi, paesaggi, manufatti, varietà di piante coltivate e razze di animali) ma anche un elemento della loro conservazione dinamica quali risorse chiave per lo sviluppo locale autosostenibile. La società industriale ha  risposto a questo dilemma separando forzosamente  il fatto produttivo-economico da quello culturale attivando forme di conservazione ‘museale’ dei valori culturali della società rurale (di qui le 'fattorie didattiche', le zoo-fattorie, i musei più o meno 'viventi'). Considerando un 'presepio' tutto quello che non si allineava alla mentalità tecnologica, che non si conformava a norme e valori dettati dall'industria e dalla tecnoscienza.

Un po' come si è fatto con quello che viene definito 'l'ambiente naturale', considerato artificiosamente separato dalla società,  creando i 'santuari della wilderness' (i Parchi) per collocare sotto una campana di vetro l'immaginaria 'natura incontaminata'.

É però ormai chiaro a tutti che c'è un'agricoltura industriale, appendice dei sistema globale di produzione di alimenti,  che mette in crisi gli ecosistemi (a livello locale e globale) e distrugge valori sociali e culturali. C'è, al contrario, un'agricoltura 'marginalizzata' in quanto non in grado di conformarsi ai paradigmi della 'imprenditorialità' delle 'economie di scala', della specializzazione internazionale che è ancora in grado di operare utilizzando in modo sostenibile (e rinnovandole) le risorse naturali e sociali. Conservare sotto la campana di vetro pezzi avulsi di 'natura' e di 'cultura' mentre si continua ad operare la distruzione degli ecosistemi, dei saperi tradizionali, delle identità locali non serve a nulla. Peggio è una dannosa illusione, un alibi.

Il difficile riconoscimento dei fatti agricoli e alimentari quali 'fatti culturali'

Il settore agricolo è stato a lungo dominato da una cultura produttivista che ha dato ampio spazio alla tecnologia (supposta socialmente 'neutrale') e che si è tenuta distante dalla considerazione degli aspetti socioculturali (considerati importanti solo nel caso di sistemi 'arretrati'). Non è da molto che si riconosce che  il comportamento dei 'moderni'  attori economici (gli imprenditori agricoli) è tutt'oggi influenzato più da elementi antropologici  che da considerazioni di 'razionalità economica'. Non è da molto che ai sistemi agricoli è applicato il concetto delle reti 'socio-tecniche', che si parla di 'stili di produzione' come elementi di una determinata cultura. Concepita come fatto esclusivamente 'tecnico' la realtà della produzioe agricola a cercato di negare la dimensione culturale. D'altra parte il settore 'culturale' ha operato in modo speculare restringendo la dimensione culturale dei fatti agricoli a 'cultura popolare', 'folklore'. Roba morta e sepolta con la 'civiltà contadina'. Nostalgici e modernisti hanno operato di conserva.

La tutela dei beni etnoantropologici si è concentrata, almeno in passato, su beni materiali (attrezzi, edifici) e beni immateriali  ‘fossilizzati’ indipendenti da un processo attuale di riproduzione. Nell’ambito delle testimonianze della ‘cultura popolare’ o delle 'classi subalterne' sono state privilegiate quelle in grado di corrispondere maggiormente al gusto estetico delle élites urbane e in grado di veicolare forme di espressività ‘artistica’. Di qui l’interesse prevalente per l’etnomusicologia e l’artigianato. I fatti culturali legati alla produzione e al consumo di alimenti, così centrali per la definizione di ogni gruppo sociale, sono stati riduttivamente rubricati a lungo nell’ambito della ‘cultura materiale’.  Un 'capitolo' come tanti della vita del passato. Vedremo nelle prossime puntate come le cose siano cambiate o stiano cambiando.

Al di là di visioni più o meno superate contribuisce in ogni caso alla difficoltà di inserire appieno titolo i sistemi di produzione agroalimentare 'viventi' nelle categorie dei ‘beni culturali’ il loro carattere a cavallo tra materiale e immateriale, trapermanente e volatile, tra sociale e naturale. La complessità della loro dimensione fatta di saperi, relazioni, oggetti, 'pezzi di natura'.  Alcuni di questi beni culturalisono chiaramente bioculturali (varietà di piante coltivate, razze di animali) e hanno un senso solo nel contesto di utilizzo dinamico (una collezione di ‘germoplasma’ di un laboratorio non consente di conservare che una minima parte della valenza culturale di una varietà o di una razza animale). Una preparazione alimentare è memorizzata in una ricetta ma il valore di ancoraggio territoriale (la ‘profondità storica’ e il grado di differenza culturale e biologica) è legato all’uso di risorse naturali biodiverse, di saperi situati, di insiemi di relazioni specifiche (situate) tra uomo e uomo, tra uomo e animali, tra uomo e risorse naturali. Ma sono tali relazioni che caratterizzano le materie prime utilizzate e, sulla base di loro peculiarità, anche le praparazioni derivate. Un sistema complesso e poco ‘stabilizzabile’.

L'Unesco e la cucina 'bene dell'umanità'

Per discutere della tematica del valore culturale dell'agricoltura ho creduto opportuno inziare dal cibo. Un terreno già 'lavorato'. Nessuno pensa che il nutrirsi non sia un fatto culturale (basta pensare ai tabù e alle preferenze alimentari che marcano le diverse culture umane). Tutti sono pronti a riconoscere che il modo di preparare e consumare il cibo comprende riti, linguaggi, convenzioni che riflettono la cultura di un popolo ed anche quelli di sotto gruppi sociali. Oggi poi che si discute dell'opportunità del dilagare di negozi di fast food o kebab nei centri storici, di 'democrazia della borsa della spesa', che le nuove forme di mutalità e di economia sociale si definiscono in larga misura sul tema del consumo alimentare, non è mai stata così forte la consapevolezza che acquistare e consumare il cibo (cosa, come, dove, con chi, quando) è un fatto culturale e politico. Ma la politica agricola e quella dei 'beni culturali' fino a che punto riflettono questa consapevolezza?

Il prodotto alimentare è stato sinora escluso in quanto tale dalla definizione di ‘bene culturale’ in quanto privo di un requisito di ‘antichità’ o difficilmente inquadrabile in un concetto di bene materiale (o anche immateriale). Il Codice dei beni culturali e del paesaggio del 2004 limita la definizione di beneculturale alle ‘cose’ con antichità superiore ai cinquant’anni. Di fatto perciò alle cose 'morte'.

 Va però ricordato che inserendo il ‘paesaggio’ quale bene culturale risultante dell’interazione storica tra l’ambito sociale e la natura ma ‘vivente’ ha di fatto compreso le pratiche agricole produttrici del paesaggio nel novero dei beni culturali.

L’Unesco sottolinea, invece, il carattere vivente dei beni culturali immateriali che sono definiti nell’ambito di un contesto comunitario e si trasmettono di generazione in generazione.

"Il patrimonio culturale storico-identitario non si riduce ai monumenti e alle collezioni di oggetti. Comprende anche le tradizioni ovvero le espressioni viventi ereditate dalle generazioni passate e trasmesse a quelle successive in forma di tradizione orale, le rappresentazioni artistiche, le pratiche sociali, le celebrazioni festive, i sistemi di pratiche e di saperi concernenti la natura e il cosmo o i saperi e le capacità tecniche dell'artigianato tradizionale   per  produrre tradizionale artigianato. Per quanto immateriali questi beni rappresentano una parte importante del nostro patrimonio culturale storico-identitario. . Si tratta di patrimonio culturale immateriale, una forma vivente di patrimonio che viene continuamente ricreato e che si evolve in nel mentre adattiamo le  nostre pratiche e le nostre tradizioni al nostro ambiente. Esso fornisce un senso di identità e di appartenenza in rapporto con la nostra specifica cultura"(Unesco, Intangible heritage/Patrimonio culturale storico-identitario  immateriale, FAQ) traduzione mia

A questa concezione ‘vivente’del bene culturale immateriale corrisponde un concetto di salvaguardia dinamica, in opposizione alla ‘conservazione’

Salvaguardare significa garantire la vitalità del patrimonio culturale storio-identitario immateriale, il che comporta assicurarne in modo continuativo la riproduzione e la trasmissione. La salvaguardia del patrimonio storico-identitario immateriale si riferisce alla trasmissione di conoscenze, capacità tecniche, significati. Ciò mette l'accento sul processo di trasferimento o di comunicazione intergenerazionale del patrimonio stesso piuttosto che sui prodotti delle sue manifestazioni concrete quali danze, canti, strumenti musicali o oggetti d'artigianato". (Unesco, Intangible heritage/Patrimonio culturale storico-identitario  immateriale, FAQ) traduzione mia).

Gli atti agricoli sono parte del sistema culturale

In coerenza con gli assunti circa la natura dei beni culturali inseriti nella lista Unesco del patrimonio culturale immateriale sono state inserite la Cucina Messicana, Francese e la Dieta mediterranea (Marocco, Spagna, Italia, Grecia). Una acquisizione iportante ma il riconoscimento di 'sistemi alimentari culturali' così ampi come si concilia con la reale valorizzazione di quei sistemi realmente ancorati in un territorio, in una comunità, in una storia locale che soffrono per la concorrenza di prodotti agroalimentari industriali che continuano spudoratamente a 'vendersi' con le immagini  bucoliche, con i pastori barbuti o le pastorelle in 'costume', le mucche al pascolo.

Su questi temi concreti tornerò nelle prossime 'puntate'. Resta i fatto che se la ‘cucina’ è un insieme di riti alimentari ma anche di assemblaggi di materie prime essa è fortemente definita dal prodotto agricolo.   Stabilito il nesso tra cucina e 'atti agricoli' la strada del riconoscimento del sistemi locali agroalimentari dotati di valenza storico-identitaria quali beni culturali è comunque aperta.

(1) continua


 

                   

 

 

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