Ruralpini  resistenza rurale

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cultura ruralpina in valle Imagna


Ol casèl dol lacc
luoghi e manufatti dell'acqua




Insieme alle cantine (caneve, silter, involt ecc.) e alle nevere /giazere (i pozzi per la conservazione della neve o ghiaccio), i casei del lacc rappresentano le "macchine del clima" della civiltà contadina, della civiltà casearia montana. Capace di realizzare ambienti ideali per la conservazione del latte e dei prodotti caseari prima dell'era dell'era dell'industria e dell'energia fossile. Soluzioni architettoniche semplici ma ingegnose, sapiente scelta dei luoghi e dei materiali. Erano ambienti di dimensioni minime, ma anche per questo efficienti nel perseguire le finalità della loro costruzione. Il casell del lacc è rinvenibile presso il villaggio come presso il maggengo e l'alpeggio. Particolarmente suggestivi sono i casei del lacc degli alpeggi a villaggio (tipici della Valchiavenna) che, nelle loro minuscole dimensioni, a gruppi (ogni famiglia ne aveva uno), con le copertura in piöde ricoperta dalla cotica erbosa, appaiono come un villaggio in miniatura a fianco del villaggio di baite, il villaggio dei folletti.  Di più ampie dimensioni e maggiormente strutturati, in quanto utilizzati per un più lungo periodo all'anno, i caselli della prealpina valle Imagna che vengono qui illustrati da Antonio Carminati.   


di Antonio Carminati


(17.08.19)  Una ricchezza incredibile di manufatti, di grandi e piccole dimensioni, per certi versi anche scontati (almeno per quanti vivono la quotidianità della vasta montagna prealpina), caratterizzano il paesaggio rurale delle Orobie e richiamano all’attenzione innumerevoli attività umane: essi hanno modellato il volto dei luoghi, rendendoli inclini alle produzioni agrarie, ai piccoli allevamenti, alla residenza stabile dei gruppi familiari organizzati nelle rispettive contrade. Ci troviamo di fronte a un paesaggio articolato, che nei secoli scorsi ha subito un’intensa trasformazione e rielaborazione da parte dell’uomo, il quale, soprattutto con l’utilizzo di pochi strumenti manuali, l’impiego quasi esclusivo di materiale locale e sempre tanta intraprendenza, ha saputo esprimere idee concrete connesse a progetti di vita e di sviluppo. L’ambiente stesso, declinato nei versanti delle dorsali interne delle valli, sulle estese praterie montane, lungo le aree fluviali di fondovalle, si presenta davanti ai nostri occhi come un unico grande manufatto, una straordinaria opera di creazione, frutto dell’ingegno e della ferrea volontà delle popolazioni che lo hanno vissuto e plasmato nei tempi passati e continuano oggi a ripensarlo. Un’infinità di opere, disposte alle varie quote, lo caratterizzano: balze terrazzate, mulattiere, ponticelli stradali, cunette e tombotti per lo scolo delle acque, concimaie, tribuline, stalle e fienili, tettoie e ricoveri per animali, fontane,… ma anche roccoli, selve castanili, prati e pascoli, campi e boschi,… tutto foggiato dall’uomo mediante l’uso continuato nel tempo dello spazio disponibile, tanto ricercato e amato, come l’acqua del torrente che scava profonde gole a pareti verticali, o la goccia costante che perfora la pietra. Un grande affresco di umanità. Nulla di incidentale o casuale.


Il bacino dell'Alta Valle Imagna visto dal casello di Ricudì (Sant'Omobono Terme)
Attratti dalle opere più imponenti, come le contrade di pietra che si configurano, ancora oggi, quali vere e proprie roccaforti, o come gli antichi complessi monumentali delle famiglie della borghesia nascente dei secoli scorsi, oppure, ancora, le case-torri ben riconoscibili negli insediamenti rurali, le quali richiamano la millenaria storia di conquista e difesa del territorio,… spesso perdiamo di vista un’infinità di altri manufatti, tutt’altro che secondari, che costituiscono tanti punti di tessitura di un complesso e articolato sistema di vita rurale, costruiti sul grande telaio della vita quotidiana delle famiglie, grazie ai quali l’uomo ha potuto trovare risposte adeguate alle istanze concrete di sopravvivenza.
Ol casèl dol làcc (il casello del latte) è uno dei tanti beni diffusi che, il più delle volte, passano inosservati, mentre in realtà costituiscono straordinari esempi di come l’uomo abbia saputo inserirsi consapevolmente nel proprio contesto di vita, sfruttando tutte le opportunità e le risorse presenti in natura. Si tratta di un’infrastruttura poco appariscente, anzi il più delle volte tende a nascondersi nel contesto, soprattutto attualmente, a causa dell’avanzare indisturbato di rovi e sterpaglie che in molti casi l’avvolgono e mascherano completamente, rendendola quasi invisibile: di norma si presenta incassata contro terra da tre lati, mentre solo il timpano della facciata principale, dotata di porticina con feritoia, pare una sorta di passaggio segreto verso i misteri del sottosuolo. Di più: abbiamo persino l’impressione di trovarci di fronte a una particolare casupola misteriosa dai contorni indefiniti, nascosti, col terreno circostante che lambisce il tetto in piöde, a volte lo sormonta persino in gronda. La narrativa popolare lo ha posto al centro dell’ambientazione di storie e leggende raccontate dal Tata (l’anziano capostipite della famiglia), popolate da folletti e spiriti, vissute da lupi e volpi, che hanno caratterizzato la nostra infanzia.

Contrada Roncaglia (Corna Imagna) Ol casèl dol Tomaso. Disegno di Cinzia Invernizzi
L’acqua, quassù, è sempre stata considerata un bene prezioso: ogni piccolo affioramento di sorgente veniva individuato e protetto, difeso e valorizzato, poichè essenziale alla vita delle persone e degli animali custoditi nei piccoli allevamenti domestici. Ciascuna contrada disponeva della propria principale fonte di approvvigionamento idrico, con fontana e lavatoio pubblici, il cui uso era ordinato dalle regole della vicinia; così pure la bonifica di aree a vocazione agraria, distanti dagli insediamenti abitati, veniva effettuata in prossimità di sorgenti d’acqua, gran parte delle quali, soprattutto in montagna, avevano una funzione consortile, ossia ne potevano beneficiare una pluralità di individui, nella loro qualità di proprietari o conduttori dei terreni circostanti. In molti casi, sopra una sorgente, la famiglia proprietaria del terreno, oppure la comunità stessa delle famiglie della contrada, realizzavano specifiche infrastrutture di servizio per attrezzare e rendere funzionale la fruizione dell’importante servizio di approvvigionamento idrico, mediante la costruzione di fontane, lavatoi, punti di prelievo riservati per l’uso alimentare, anche semplici àlbe de lègn (grosso tronco scavato per uso di fontana) per l’abbeveraggio del bestiame, vere e proprie pozze sulle praterie montane, oppure anche solo piccoli ma preziosi puciaghì (piccola pozza) in alpeggio. Gran parte di queste infrastrutture tradizionali, come è avvenuto per ol casèl dol làcc, sono state abbandonate, cadute in desuetudine, ma l’attenta osservazione del contesto consente di ricostruire questa particolare dimensione geografica. Alcuni anni or sono, nel mio villaggio, si era tentato di portare alla luce l’antica fontana di Cà de Marc, ma, anzichè ripristinare l’antico manufatto, si è preferito rinterrarlo, per costruire una moderna e nuova fontana, in altro luogo, senza una sorgente, ma con acqua a riciclo e chiaramente non potabile. Una società delle finzioni. In questo caso non sono stati i rovi o le sterpaglie a nascondere l’antica fontana con casello, bensì la nostra supponenza.

Contrada Roncaglia (Corna Imagna) Ol casèl dol Tomaso. La sorgente e le vasche interne
A pianta quadrata o rettangolare di esigue dimensioni - due metri di larghezza per tre di lunghezza, poco più o poco meno, in relazione alla conformazione del terreno – con altezza di circa due metri, completamente costruito in muratura con pietrame collocato a secco, ol casèl dol làcc veniva sempre costruito sopra l’acqua corrente, quindi a ridosso di una sorgiva, che sgorga da una fessura nella parte interna più profonda e buia del caratteristico e semplice manufatto. Nelle costruzioni più antiche, l’acqua scorre libera sul pavimento ressölàt (in pietra spezzata), oppure incanalata entro un modesto alveo scoperto, che fuoriesce dal casèl,da sotto la porta o attraverso una fessura nel muro, e continua a scorrere nel canaletto a valle. Nel secolo scorso molti casèi dol làcc sono stati provvisti di piccole vasche interne, poco profonde (non oltre cinquanta centimetri), poggianti sul pavimento e costruite a ridosso dei muri interni, ripartite in diversi scomparti, entro le quali è stato convogliato lo scorrimento dell’acqua di sorgiva, la quale, giunta all’esterno, confluisce in una fontana, di norma accorpata al casello medesimo, utilizzata solitamente per l’abbeveraggio del bestiame, o come piccolo lavatoio, dove la Regiùra (amministratrice della famiglia) si recava anche per resentà i pàgn (risciacquare i panni), in mancanza di una valletta nelle vicinanze. L’acqua raccolta nella prima vasca interna, quella subito a ridosso della sorgente, veniva utilizzata per il consumo umano e gli usi alimentari. A Ricüdì il nonno Jósepf aveva posato di sua iniziativa una conduttura per far giungere l’acqua del casello sino alla propria abitazione, distante circa duecento metri: anche quando, durante il periodo invernale, la sua famiglia si trasferiva con gli armenti a valle, nella contrada Caprödài, la nonna continuava a rifornirsi dell’acqua dol sò casèl (del suo casello), diventata ormai bevanda abituale, di cui non ne poteva/voleva fare a meno.

Il casello del latte di Recudì (Sant'Omobono Terme)
Le vasche consentivano il deposito, in ambiente tenuto fresco dall’acqua corrente e dal microclima costante all’interno di una struttura quasi completamente interrata, dei secchi di latte, ricoperti da semplici patì, dove avveniva la conservazione del prezioso alimento di origine animale per alcuni giorni. La ventilazione e il ricambio dell’aria erano assicurate dalla corrente determinata a un’apertura sul fondo del piccolo edificio, che fungeva da “camino”. Prima, in mancanza delle vasche, i secchi venivano appesi agli appositi rampì (uncini) pendenti dalla volta a sìlter (a botte con pietre spezzate) del casèl, mentre sulla modesta mensolina, poggiante ai due punteruoli di legno sporgenti e fissati alla muratura perimetrale, stavano riposte la spanaröla (utensile per togliere la panna dalla superficie del latte nel secchio), ü lumì (un lumicino di candela), la cassa de l’aqua (il mestolo per prelevare l’acqua) e pochi altri oggetti di uso quotidiano.

Il casello del latte di Recudì (Sant'Omobono Terme). Interno con vasche e volta a sìlter
La funzione del casèl dol làcc è paragonabile all’uso del moderno frigorifero e, soprattutto tempo fa, era connessa all’attività zoo-casearia delle piccole aziende agricole della montagna orobica. Non serviva alla stagionatura degli stracchini o degli altri formaggi, per la quale c’era ol fundì, una sorta di piccola caneva aggregata all’abitazione, bensì quale ambiente refrigerato, dalla temperatura costante sia in estate che d’inverno, idoneo per la conservazione di taluni prodotti ad uso alimentare, il latte innanzitutto, dal quale ha preso il nome. Il Tata, terminata la mungitura mattutina o pomeridiana, quando non provvedeva subito alla cagliata nella stalla, trasportava il latte nella bulgia (apposito contenitore ermetico per il trasporto del latte), dotata di robusti spallacci, sino al casèl, dove lo avrebbe versato nei secchi, o nelle apposite ramine, per la sua conservazione e la successiva lavorazione. Il giorno appresso, egli avrebbe asportato con la spanaröla la crosta lattea che si era nel frattempo formata sulla superficie dei secchi: la panna ottenuta veniva così versata nel suo contenitore, anch’esso riposto nel casèl, che di giorno in giorno si riempiva, sino a quando, raggiunta la quantità prevista, bisognava fare il burro.

L'uso della zangola in una stampa del 1817
La Regiùra preparava ol penàcc, versandovi dapprima ona padèla (una pentola) di acqua calda, lasciandola poi riposare almeno per una decina di minuti, tanto quanto basta perché il legno si rigonfiasse, ostruendo anche le piccole e quasi invisibili fessure tra le varie assicelle. Quindi, rovesciata l’acqua, nel robusto cilindro di legno vi versava la panna e, dopo aver bene fissato ad incastro il coperchio superiore, incominciava a menà ol penàcc (far funzionare la zangola), dapprima lentamente, per non maltrattare il prezioso alimento e scaldarlo gradualmente, alzando e subito dopo premendo verso il basso il robusto manico di legno, sul fondo del quale è fissata una rondèla (rondella di legno) con alcun grossi fori, dai quali passa la panna, costantemente sbattuta e pressata. Bisognava lavorare assiduamente a forza di braccia, per sollevare il manico e subito pigiarlo sul fondo del penàcc, schiacciando la panna rinchiusa, mentre un’altra ragazza della casa teneva ferma a terra la zangola. La mamma aveva l’abitudine di versare nel penàcc, assieme alla panna, dopo alcuni minuti di lavoro, un bicchiere di acqua calda, che avrebbe favorito la formazione del burro, mentre verso la fine, quando cioè il sollevamento del mànech dol penàcc (manico della zangola) incominciava a diventare duro, vi versava un bicchiere di acqua fredda, che favoriva ulteriormente la coagulazione. A questo punto si trattava di togliere il burro dalla zangola: la tipica emulsione gialla andava strizzata tra le mani, come per impastarla, eliminando così tutto il siero residuo. Così il burro era pronto per essere pressato dentro il piccolo stampo di legno, sul fondo del quale vi era intagliata una bella stella alpina, come una dichiarazione di montanità dei panetti ottenuti, anch’essi conservati nel casèl, sino alla vendita al commerciante ambulante di passaggio o la consegna alla bütìga (bottega). In compenso avrebbe ottenuto una sensibile riduzione del conto, sempre a debito, söl lebrèt de la spésa (sul libretto della spesa), oppure recuperato quattro soldi per acquistare alcuni metri di stoffa venduta a bràs (misurata a braccio), con cui confezionare camisì e braghì per i sò tosài (camicette e calzoncini per i suoi bambini).

Prida e piöda di Antonio Carminati e Piero Invernizzi, edito dal Centro Studi Valle Imagna.
Prima edizione 2012. Seconda edizione 2015
Al giorno d’oggi, i moderni strumenti di refrigerazione e conservazione di prodotti ad uso alimentare hanno mandato definitivamente in pensione (oggi si dice “rottamare”) l’antico casèl dol làcc, ma la sua singolare architettura, l’originale inserimento ambientale, la lezione di civiltà e di economia rurale di cui è ancora lucido messaggero, ne fanno tuttora uno degli esempi più significativi del patrimonio storico e umano della montagna. E a quanti oggi intendono riconoscerne il valore, recuperandone volto e funzioni, come ha fatto il Comune di Fuipiano per il casèl dol làcc situato lungo la strada che conduce ai Tre Faggi, o come pensa di fare Francesco per il casèl de Ricüdì, sia concesso di conservare la memoria, di non dimenticare i sacrifici dei padri e di valorizzarne la preziosa eredità.

POST SCRIPTUM
Rimando quanti interessati ad approfondire il tema dei luoghi e dei manufatti dell’acqua alla lettura del volume Prida e piöda di Antonio Carminati e Piero Invernizzi, edito dal Centro Studi Valle Imagna. Prima edizione 2012. Seconda edizione 2015.


Serie di cultura ruralpina (in valle Imagna)

a cura di Antonio Carminati


I sègn de béen. Tra magia bianca e pratica teraputica popolare
(17.08.19) I "segnatori" erano guaritori popolari che operavano (operano) su patologie di diverso tipo: slogature, ustioni, contusioni, sciatica, verruche, herpes zoster ecc. Erano in genere specializzati e diagnosticavano e curavano un solo tipo di male senza chiedere compenso. Traspettevano il loro "potere" a qualcuno (famigliare o no) che ritenevano idoneo.  Vi erano anche "segnatori" per gli animali domestici. Segni rituali e preghiere erano a volte accompagnati dall'uso di rimedi fitoterapici o tratti dal mondo animale (il latte, il grasso), di cui oggi è provata l'efficacia farmacologica. 

Ol sègn di èrem. "Segnare" i vermi come pratica di guarigione popolare
(13.08.19)  I guaritori popolari operavano (operano) con varie modalità.  I gesti, i "segni", praticati sul malato (o su degli oggetti), sono tra quelli più caratteristiche. Una delle applicazioni più importanti dei "segni" era relativa alle verminosi, specie quelle che colpivano i bambini.

Quando i bimbi morivano in estate
(05.08.19) Ancora alla fine dell'Ottocento la mortalità infantile in Italia, nel primo anno di vita, era pari al 20%, senza grandi differenze tra la regioni.  Era causata in prevalenza da gastroenteriti, ma anche da affezioni respiratorie e setticemia.  I più piccini i patìa tant per ol prìm cold, soffrivano molto per le prime calure, tanto più che  - in tarda primavera - tutti soffrivano per la fine delle scorte alimentari accumulate per l'inverno

Vita e morte nella dimensione rurale
(03.08.19) Oggi la morte è stata rimossa dalla dimensione sociale, senza per questo allontanarne l'angosciosaincombenza. Anzi. 
L'individualizzazione esasperata la rende inaccettabile in quanto fine di tutto, nell'orizzonte materialista e narcisista della società attuale, limitato all'io, al presente, al piacere,all'efficienza. Nella dimensione rurale, vita e morte si confrontavano tutti i giorni. I cari defunti continuavano, in varie forme, a fare parte della famiglia, della comunità, attraverso varie forme di ricordo e di rito


Quel prato al centro del mondo
(15.07.19) Luglio è il mese della riconquista degli spazi rurali, che al termine della fienagione ritornano ad essere fruibili, con gioia soprattutto per bambini e ragazzi, che finalmente possono correre un po’ dovunque e dare spazio alla fantasia. Il prato era anche una palestra di vita, un prezioso ambito per avviare i fanciulli ai doveri e agli impegni degli adulti.


Giugno: tra intenso lavoro campestre e rito
(16.06.19) Nel mese di giugno, non possono essere dimenticati almeno tre eventi ricorrenti e particolari, assai sentiti e vissuti nel calendario rituale dei contadini: due di essi celebravano i poteri magici della notte, solitamente frequentata dagli spiriti che si volevano propiziare. Queste notti, che cadono nel periodo del solstizio


Il fienile come granaio (in montagna)
(08.06.19) Nella civiltà agropastorale alpina il fieno assume unaforte centralità. Dalla sua raccolta dipende la possibilità di mantenere più o meno animali durante l'inverno, animali da vendere oda utilizzare per il latte, animali produttori del prezioso letame. Dal fieno quindi dipendeva la ricchezza (o la minor povertà, per meglio dire) della famiglia contadina

Tempo di preparazione all'alpeggio
(18.05.19) A Corna Imagna, come in tante realtà delle prealpi, l'alpeggio è praticato spostandosi su maggenghi siti a diverse quote, sino a raggiungere i 1.000 m. Si reata, però, sempre a  moderata distanza dal villaggio. Così il contadino saliva  e scendeva ogni dai pascoli e la sua attività principale continuava ad essere la fienagione. Per le bestie, ma anche per gli uomini, era comunque un periodo atteso.

Maggio: natura fiorita e culto popolare 
(10.05.19) Quando la fede popolare umanizzava e santificava la natura in fiore, i campi, il territorio. Nel mese di maggio, oltre al culto mariano, erano importanti le preghiere e i riti di benedizione delle case, dei campi, dei raccolti ancora incerti. Lo spazio abitato, che andava ben oltre quello "urbanizzato", era presidiato da contrade e cascine e marcato da numerose presenze del sacro, prime tra tutte le  santelle per le quali transitavano le processioni delle rogazioni a marcare lo spazio simbolico della comunità da difendere dal disordine e dalla negatività leggi tutto

Quando la vacca deve partorire. Quand che la aca la gh'à de fà
(05.05.29) Per la famiglia contadina tradizionale, ma anche per il piccolo allevatore di montagna di oggi, l'attesa del parto della vacca è piena di trepidazione. Si spera che nasca una femmina ma si temono le complicazioni del parto. Ancor oggi tutto quello che ruota intorno alla riproduzione bovina nelle piccole stalle è oggetto di pratiche di solidarietà orizzontale che tengono insieme la comunità degli allevatori locali.

Hanno ucciso la montagna (la fine della grande famiglia del nonno) 

(15.04.19) Nel racconto autobiografico di Antonio Carminati la "grande trasformazione" degli anni '60. L'entrata nella modernità, vista per di più come limitativa e negativa, attaverso l'esperienza di un bambino che vive il passaggio dalla vita patriarcale di contrada a quella della famiglia nucleare e dell'appartamento "stile città", una distanza di un km o poco più in linea d'aria che segna il passaggio traumatico tra due mondi.

Architettura identitaria. I tetti in piöde, bandiere di identità valdimagnina

(06.04.19) In valle Imagna  L'arte delle coperture, della posa delle piöde ha raggiunto particolare perfezione tanto da assumere i connotati di un emblema identitario. Non sono poche, però, le difficoltà nel conservare e far rivivere questo patrimonio di valori culturali (saperi, abilità) ed estetici. Un tema per un utile dibattito con il coinvolgimento delle comunità locali e non solo degli addetti ai lavori.

Pecà fò mars  Il rito della definitiva cacciata della cattiva stagione
(31.03.19) Dopo il carnevale, ancora una volta, per cacciare la brutta stagione, soprattutto la sua pazza coda di marzo, occorre produrre altro rumore, diffondere suoni anche strani nell’aria, insomma fare chiasso e… tanto baccano.  La funzione è sempre stata duplice: da un lato allontanare gli spiriti del male, dall’altro richiamare ad alta voce la bella stagione, facilitando così il risveglio della natura

Omaggio ai boscaioli emigranti (eroi del bosco, martiri del lavoro)
(25.03.19) Una vita di sacrifici durissimi, di frugalità, di duro lavoro quella dei boscaioli bergamaschi che emigravano abbandonando le loro valli e le loro famiglia a marzo per recarsi in Svizzera e in Francia. Doveroso ricordarla.

La gestione del letame nell'economia agropastorale montana

(20.03.19) Lo spargimento del letame nei prati e campi di montagna, utilizzatonaturale. Almeno così era nel passato.  quale fertilizzante, è forse una delle attività maggiormente faticose, ma anche più importanti, sul piano della conclusione di un ciclo.

La stalla e gli altri manufatti dell’edilizia tradizionale

(03.03.19) Una stalla, un prato, un pascolo, una vacca, quando sono in grado di accogliere relazioni generative con la popolazione locale, e quindi di esprimere i caratteri di una visione, rappresentano dei valori, più che dei beni o delle merci. Francesco, Ugo e tanti molti agiscono come tante api operaie, ossia contribuiscono in modo determinante a sostenere l’ossatura e il futuro del “sistema montagna” delle Orobie, presidiando il territorio e difendendo l’insieme delle sue caratteristiche naturali e antropiche.

La distillazione della grappa (una tradizione di libertà)
(23.02.19) Oggi molti possono permettersi di acquistare la grappa (e il mercato ne offre per tutti i gusti) ma distillare in casa frutta o vinacce gratifica con quel senso di indipendenza, di libertà e, diciamo pure, di sfida. La sfida a uno stato che per non perdere le accise sostiene di vietare la distillazione casalinga per "tutelare la salute", disconoscendo un sapere contadino secolare (l'alambicco si diffonde dal Cinquecento).

La caccia alla volpe (e al lupo) nella realtà contadina
(15.02.19) Nel periodo più freddo e nevoso dell’anno, quando cioè gli uomini avevano tempo a disposizione, öna ölta (una volta) i cacciatori più sfegatati, ma anche i contadini meno provetti all’uso dell’archibugio, i vàa a vulp (andavano [a caccia] di volpi).


L'economia delle uova nella società contadina
(05.02.19) Loaröi e loaröle(venditori e venditrici di uova) erano protagonisti di una economia integrativa per il sostentamento del gruppo familiare, sia sotto il profilo alimentare, che per quanto concerne l’introito di qualche pur modesta somma di denaro...


In morte di un complesso rurale di pregio
(22.01.19)
La triste parabola di una contrada a oltre 900 m di quota in valle Imagna. Un tempo abitata tutto l'anno, poi alpeggio, oggi consiste solo di prati e di fabbricati in rovina. Quelli ristrutturati trasformati a "uso vacanza". 



La méssa dol rüt
(08.01.19) La méssa dol rüt  (la concimaia) era l'elemento chiave di un paesaggio ordinato che nutriva animali e persone senza inquinare e sprecare risorse


Il Natale dei contadini. Un rito che non scompare: la macellazione del maiale (cupaciù)
(23.12.18) Riti che rivivono, pieni di significato. Ancora oggi la macellazione del suino è occasione per aiutarsi tra giovani allevatori.  Quella che sembrava una pratica da amarcord da vecchie foto in bianco e nero possiamo documentarla come un fatto attuale e in ripresa. La sequenza della macellazione con qualche immagine di insaccatura. 



contatti:redazione@ruralpini.it

 

 

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