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Danni da cinghiale nel comasco
 

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(11.10.10) L'assedio dei cinghiali

Tutta la fascia prealpina lombarda è sotto assedio da parte dei cinghiali. La provincia di Como ha deciso l'abbattimento di 1500 capi. Si raggiungerà l'obiettivo? Intanto altre provincie non si muovono ancora con altrettanta decisione. Il cinghiale è un vero e proprio animale nocivo e non può essere gestito mediante la normale pratica venatoria. Lo dicono la gravità dei  danni ai prati, ai pascoli, ai vigneti, ai campi di mais, alle recinzioni, gli incidenti stradali, il rischio di diffusione di malattie, i pericoli per l'incolumità delle persone (un ferito a Sondrio e uno a Como questa estate).  

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(12.01.10) Cansiglio (Tv). Una boutade che non piace agli agricoli

Sul Cansiglio come in tante parti delle Alpi le aziende agricole che 'resistono in quota', specie quelle che praticano forme estensive ed ecologiche di coltivazione ed allevamento, subiscono danni ingenti per l'eccessiva presenza dei cervi. Di fronte alle lamentele delle aziende agricole del Cansiglio Zaia appoggia un piano di abbattimenti ma il presidente della provincia di Treviso ha una idea geniale 'introduciamo gli orsi mangia-cervi'  leggi tutto

 

(20.07.09) Negli Usa la Wilderness Society è alleata dei cacciatori

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(15.07.09) La riforma della 157/92 è occasione per ripensare la fauna selvatica come risorsa per integrare il reddito agricolo e sostenere lo spazio rurale

Nell'ambito della discussione sulla riforma della  caccia ) le associazioni venatorie FIDC, ANLC, ENALCACCIA, ANUU, CONFAVI) nella loro 'posizione congiunta' del 9 luglio sul testo unificato delle proposte di modifica alla legge 157/92 hanno  riconosciuto che la fauna selvatica è una risorsa che deve servire a integrare il reddito agricolo. Un buon punto di partenza che speriamo si traduca in norme chiare e innovative. Invece gli ambientalistii si attardano su posizioni retrograde e demagogiche parlando di 'barbarie' a fronte di adeguamenti della legge che tengono conto dell'evoluzione della realtà agrosilvopastorale. Posizioni miopi perché i cacciatori sono i primi a volere un'agricoltura sostenibile e una realtà rurale vitale. leggi tutto

 

 

 

(29.12.11) La delibera della provincia di Asti di ottobre è stata molto pubblicizzata dalla Coldiretti e dalla stampa venatoria ma in Lombardia alcune provincie erano già arrivate alla stessa soluzione

 

Cinghiali: basta gruppi di lavoro, tavoli

 e  ipotesi di coordinamento

Ai contadini il diritto di autodifesa

 

di Michele Corti

 

L'unica soluzione economica, ecologica ed efficace ai problemi di una fauna che è sempre più nociva all'agricoltura è nell'affidare ai condadini l'autodifesa. Non solo con le armi da fuoco (per le quali è obbligatoria la licenza di caccia) ma anche con le trappole

 

Campi di mais, vigneti, noccioleti, prati, pascoli in tutta Italia sono sempre più devastati e i risarcimenti si sono moltiplicati. La rabbia monta. Ogni anno di più.

Lo scorso autunno la provincia di Asti  ha emanato un provvedimento che - nei limiti del quadro legislativo vigente - è fortemente innovativa e che dovrebbe essere imitato da altre amministrazioni anche al fine di far pressione sulle Regioni, il Parlamento e il governo centrale per rivedere tutta la materia faunistica e sottrarla aoi condizionamenti delle lobby ambientaliste che lucrano da trent'anni sui meriti di un protezionismo peloso a danno dei contadini e dei pastori.  Che cosa ha stabilito la provincia di Asti? Che tutti i proprietari o conduttori di fondi agricoli in possesso di regolare licenza di caccia possono cacciare liberamente il cinghiale sui loro fondi senza alcun limite di calendari o altro.

 

A Bergamo e a Como sostengono di esserci arrivati prima

 

La Coldiretti a novembre chieda per bocca del direttore regionale Castellani che sia consentito agli agricoltori di sparare (articolo del Corrierone del giorno 6: "Licenza di uccidere i cinghiali. Coldiretti chiede di sparare a vista sugli «Unni dei campi»") ma nelle provincie dove il problema è più sentito (Como e Bergamo) il provvedimento è già stato assunto da tempo (almeno dalla primavera). A Bergamo l'autorizzazione ai proprietari di fondi muniti di licenza alla caccia sui propri terreni - previa semplice comunicazione - è stata inserita nelle modifiche del regolamento provinciale con delibea del 13 giugno 2011. L'agricoltore è altresì autorizzato a trattenere la carcassa a parziale risarcimento dei danni subiti. Analoghe disposizioni a Como.  

È importante sottolineare che le autorizzazioni non riguardano solo gli agricoltori-cacciatori muniti di licenza ma TUTTI i contadini che possono utilizzare i trappolaggi (compresi quelli fai da te).

 

 

Il diritto all'autodifesa è alla base della libertà

 

È il sacrosanto principo stabilito dal diritto naturale dell'autodifesa della propria proprietà e dei frutti del proprio lavoro. Un diritto che - come tutti quelli naturali - lo stato moderno non riconosce perché spetta ad esso e ad esso solo il monopolio della lex ("la legge sono io, è legge quella che stabilisco io" dice lo stato). Ed anche quello della violenza. Lo stesso diritto alla difesa della propria vita è sottoposto a mille limitazioni e condizioni (come sa bene che chi per difendere sé stesso, la propria proprietà e i propri cari fa fuoco contro i banditi che entrano in casa sua). Che il principio di autodifesa attiva venga riconosciuto anche ai contadini che, da parecchi anni a questa parte,  hanno dovuto assistere impotenti alla devastazione delle proprie coltivazioni da parte della fauna nociva è un gran bel passo avanti.

 

Si comincia a capire che, rispetto a quarant'anni fa, è iniziata un'altra era

 

Se le istituzioni seguissero l'esempio della provincia di Asti si potrebbe affermare che da parte loro si inizia ad affermare la consapevolezza che:

  • la moltiplicazione della fauna come conseguenza dell'abbandono delle colline e delle montagne è divenuto un problema sociale ed economico prioritario;
  • la sopravvivenza delle attività agrosivopastorali non è compatibile con una cultura "protezionista" che risale a quarant'anni fa quando le specie che oggi stanno creando seri problemi erano sull'orlo dell'estinzione e comunque presenti un areali circoscritti;
  • la cultura del risarcimento danni è la figlia di uno stato spendaccione e di una mentalità fuorviante da "tanto ce lo possiamo permettere" che non esiste più;
  • la cultura del risarcimento danni  rappresenta una forma di mitigazione di situazioni eccezionali, frutto di squilibri temporanei nell'equilibrio faunistico-ambientale e non può essere applicata per compensare le conseguenze di nuovi assetti territoriali;
  • i problemi della fauna dei decenni a venire dovranno essere affrontati in un'ottica completamente diversa perché se la fauna stessa continuerà a rappresentare un problema (e non una risorsa) la popolazione sempre meno numerosa e sempre più anziana delle aree collinari e montane è destinata alla sparizione.

I danni (non per tutti) della cultura ambiental-animalista post-sessantottina

 

La cultura ambiental-animalista si è diffusa a partire dagli anni '70 quando la società industriale era ancora al suo apice e i problemi dell'inquinamento, cementificazione , impoverimento degli habitat iniziavano a divenire manifesti. Si iniziava a parlare di pesticidi e di "primavere silenziose" ma si preferiva addossare la colpa della "distruzione della natura" all'esercito delle doppiette.  Questo esercito si era gonfiato negli anni '60 e '70. La caccia da fenomeno popolare finalizzato ad integrare le provviste di cibo, esercitato per lo più in modo "informale" (leggi bracconaggio generalizzato nel mondo rurale con ogni mezzo) o da sport delle élites (le licenze di caccia erano poco più di 300.000 prima dell'ultima guerra) era diventato un "divertimento di massa".  

Gli anni '70 promettevano un riscatto sociale e l'accesso illusorio delle masse a tutti i privilegi che sino ad allora erano stati appannaggio dei "sciuri". Così le licenze di caccia superarono i due milioni e il 5% della popolazione italiana (lattanti e novantenni compresi) era composta da "seguaci di Diana". Oggi i cacciatori sono meno dell' 1% della popolazione (mezzo milione) ma la retorica degli animal-ambientalisti non è mutata. Come sarebbe possibile? Da decenni lucrano rendite di posizione politiche (ed economiche) additando al ludibrio quella specie umana abominevole che è il cacciatore. E le masse urbane incolte (in senso pasoliniano), abbruttite dalla TV e da overdosi di melassa "naturalistica" propinata in ogni salsa, continuano ad abboccare. Nel frattempo le varie sigle ambiental-animaliste (non merita certo la qualifica "ecologista" chi fa leva sulle immagini dei cuccioli strappalacrime e, in ogni caso, fa leva sull'emoticità della difesa del singolo individuo) hanno intascato milionate dalle industrie più inquinanti - petrolchimiche incluse - come sponsorizzazioni per campagne e per "oasi". "Sparare" contro i cacciatori rende bene, distogliere dall'industria le responsabilità degli ecocidi ancora di più.

 

 

Troppe limitazioni al "controllo" della fauna

 

Nel clima di "caccia alle streghe" contro i cacciatori le leggi sulla caccia hanno dovuto registrare una serie crescente di limitazioni all'esercizio venatorio ma anche al controllo della fauna che - chiamiamola come vogliamo - è nociva per l'agricoltura. Il solo parlare di "controllo" rappresenta quasi un sacrilegio. "Uccidere dei poveri animali che non hanno fatto niente di male?". Per i cittadini che il cibo lo prendono dal micro-onde ed è tanto se sanno cosa c'è dentro (di solito no) distruggere campi, prati, vigne, fruttiferi non è niente. Tanto il cibo "si raccolglie" all'ipermercato o al catering.  "Siete venali, la vita di un animale selvatico non ha prezzo". Intanto loro magnano e stanno al calduccio.

Per rassicurare un opinione pubbica cotta a puntino dall'abile propaganda animal-ambientalista che ha pervaso scientificamente i media si sono introdotte tante e tali limitazioni che il "controllo" della fauna selvatica anche di fronte a danni enormi è difficile, costoso, indaginosso, lento, complicato. Inogni caso servono ad ogni più sospinto le autorizzazioni dei supremi organi tecnici (Ispra, ex INFS). Anche nel caso conclamato dei cinghiali le cose non sono facili. I numeri, i mezzi di cattura diversi dal "prelievo venatorio" sono scrupolosamente vagliati dall'Ispra (un ente in cui gli animal-ambientalisti hanno più che lo zampino).  Va riconosciuto che, a seguito dell'insofferenza sempre più forte del mondo agricolo, la stessa Ispra ha modificato certe posizioni ed oggi arriva a raccomandare persino l'uso delle trappole.

In ogni caso le "liberalizzazioni" sono parziali e tardive e condizionate dal vischioso quadro normativo.  Il discorso si ripete con i corvi, le volpi, i piccioni, le nutrie. E ci sarebbero anche i lupi ...

Le provincie hanno messo in atto misure di diversa efficacia: estensione del calendario di caccia, formazione di squadre di "selettori" con cacciatori non inseriti nelle squadre della caccia specializzata al suide, piani di "eradicazione" con l'uso di guardie della provincia , uso di trappole e, di recente, anche l'autorizzazione all'autodifesa degli agricoltori.

Le catture sono in aumento, ma i cinghiali anche e con un inverno mite come quello in corso non si intravedono prospettive rosee.

Ecco perché la decisione della provincia di Asti e delle altre che si sono mosse nello stesso solco che concede ai contadini di sparare al cinghiale ed anche di macellarselo e (previo invio di campioni all'Asl per le verifiche patologiche come l'esame trichinoscopico) di mangiarselo in compagnia di amici e famigliari ("è concesso l'autoconsumo") appare un atto importante, coraggioso e benaugurante.

 

Guardiamo al futuro

 

L'adozione da parte delle altre provincie di un provvedimento come quello di Asti avrebbe conseguenze positive anche sul piano della discussione della nuova legge sulla caccia. La proposta Orsi era migliorativa ma non abbastanza innovativa. Serve una rivoluzione culturale.

Da problema a risorsa: questo deve essere il principo che deve informare la nuova legislazione sulla fauna che preveda che, al di là della caccia-sport, deve esserci un prelievo venatorio a scopi di autodifesa e a scopi di esercizio di attività economica. Si deve prevedere che chi esercita queste attività non debba essere necessariamente munito di una licenza di caccia. In particolare il contadino che esercita la caccia come autodifesa per quale motivo dovrebbe sottoporsi ad un esame che implica la conoscenza di astrusi principi di ecologia e il riconocimento di decine di uccelli e uccelletti? Piuttosto si chieda una prova pratico-teorica anche seria circa la conoscenza e l'uso delle armi da fuoco e di quella parte della legislazione faunistica che regola il prelievo nell'ambito del proprio fondo. Non si chiede il Far West ma non si vede perché, ammesso il principio dell'autodifesa del proprio fondo da una fauna sempre più invadente, si debba obbligatoriamente essere cacciatori per poter imbracciare uno schioppo. Qui si entra su un terreno minato perché il diritto a detenere e usare le armi rappresenta una questione politicamente e socialmente sensibile. Lo stato italiano, centralista e oligarchico è nato nel sangue della repressione della guerra dei contadini delle "Due Sicilie" e ha sempre utilizzato un metro molto restrittivo nel concedere ai sudditi la detenzione di un semplice coltello (c'è chi si ricorda ancora in ambito rurale dei coltelli tranciati dai cc perchè con lama di lunghezza eccedente le "cinque dita"). Figuriamoci gli schioppi. La caccia e la relativa detenzione e uso legale di armi da fuoco sono stati un appannaggio di élites ancora fino alla metà del secolo scorso perpetuando quella che era la distinzione di ancient régime tra nobili (uomini pienamente liberi) e plebei. Quest'ultimi senza diritto di portare armi. Non è un caso che la diffusione "popolare" delle armi sia propria di paesi che hanno da secoli abolito la nobiltà (Svizzera) o di paesi sorti dalla ribellione dei coloni contro la madre-patria europea (USA). Concretamente c'è il Testo Unico di Pubblica Sicurezza in materia di armi che ha recentemente inasprito le previsioni del testo originario del 1931 (il che è tutto dire!).  Per fortuna anche i "villici" come i servi della gleba hanno oggi 2011 (quasi 12) il diritto ad usare le trappole. Mezzi di cattura che la cultura venatoria aristocratica e le sue rappresentazioni ideologiche hanno sempre giudicato "vili" e adatti a persone ignobili e spregevoli. Il mondo non è poi molto cambiato!

 

Non solo caccia-sport ma anche caccia-attività economica

 

E poi perché restare inchiodati al principio dell'autoconsumo? Vale per chi ha un minifondo e subisce danni in proporzione ma se il fondo è più grande ed è bersaglio ripetuto di più cinghialoni e il contadino ha la fortuna di spararli tutti cosa fa? Li congela per gli anni a venire? Organizza pantagruelici banchetti per tutto il paese? Insomma è evidente che il limitare all'autoconsumo crea una disparità tra i "beneficiari" del provvedimento. Ovviamente non se ne esce con le scappatoie ma per la via maestra: riconoscere che la fauna che danneggia il fondo può essere abbattuta ed utilizzata economicamente a risarcimento del danno subito. Danno che poi - e questo è il punto vero della questione - non è più di natura eccezionale ma rappresenta ormai una forma cronica di semi-allevamento a spese dei frutti dei fondi. E allora tanto vale fare in modo che questo "risarcimento" sia riconosciuto senza ipocrisie come un reddito. Considerato che nessuno crede che i cinghiali spariranno e che, anzi, anzi preparati ad una invasione di ogni tipo di ungulati.

 

 

 

           

 

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