Ruralpini  

 ?

Inforegioni/L'assedio dei cinghiali

 

Home

Mi presento

Attualità

Alpeggi

Ruralismo

Osterie

Foto

Lin k

 

Condividi l'articolo su Facebook

 

Attualità

Eventi

Commenti

Forum

Index inforegioni

Archivio inforegioni

 

Articoli correlati

 

(12.01.10) Cansiglio (Tv). Orsi magna cervi? Una boutade che non piace agli agricoli  leggi tutto

 

 

(20.07.09) Negli Usa la Wilderness Society è alleata dei cacciatori

leggi tutto

 

(15.07.09) La riforma della 157/92 è occasione per ripensare la fauna selvatica come risorsa per integrare il reddito agricolo e sostenere lo spazio rurale leggi tutto

 

(27.04.09)  Valfurva (SO): Contestazioni degli abitanti per i cervi vai a vedere

 

(15.04.09)  Valseriana (BG) Anche i caprioli contribuiscono all'assedio degli scampoli di ruralità periurbana 

vai a vedere

 

(03.04.09) Valle intelvi (Co)

Basta riunioni e promesse. I danni di cervi e cinghiali sono insostenibili

 vai a vedere

 

(21.01.09) Il Parco del Gran Paradiso risponde al WWF. Ancora polemiche sul "mancato" foraggiamento dei selvatici

 vai a vedere

 

(30.12.08) Cervi dello Stelvio: demagogia in consiglio regionale

vai a vedere

 

(05.08.08) Cervo irrompe nei negozi a Bolzano  vai a vedere

 

(11.10.10) A Casnigo (BG) all'incontro organizzato dalla Comunità Montana il 7 ottobre è emersa tutta l'esasperazione dei contadini di montagna per la presenza dei cinghiali. Un problema che la politica ha sottovalutato e che ora è diventato di difficile soluzione

 

L'assedio dei cinghiali in Lombardia (e non solo)

 

di Michele Corti

 

Il problema cinghiali è sfuggito di mano alla politica che lo ha sottovalutato e derubricato a fatto marginale da lasciare ai tecnici della gestione faunistica quando invece è un problema sociale che implica scelte e soluzione di conflitti tra gli interessi in gioco

 

E' necessario che la politica assuma consapevolezza che da quando (vent'anni fa) è stata approvata la legge sulla 'protezione della fauna selvatica' il panorama faunistico è radicalmente mutato. E' necessario rivedere l'impianto di norme che prevedevano  il 'controllo' di 'fauna selvatica e rinselvatichita' come un fatto eccezionale e che lo condizionavano a una serie di 'garanzie' per il selvatico (per la buona pace di un'astratta coscienza ambiental-animalista lontana anni luce dai problemi del mondo rurale).

E' anche necessario rivedere tutte quelle limitazioni all'esercizio dell'attività venatoria (periodi e giornate di caccia, rigida 'specializzazione') che rispondevano all'ansia di dimostrare che il mondo venatorio, con la legge 157 del '92, si sottoponeva ad una rigida regolamentazione.

Il tutto per spuntare le armi di un ambientalismo ideologico, largamente condito di animalismo, che - caso unico forse nel mondo - arrivava anche con le sue componenti maggioritarie a chiedere l'abrogazione della caccia.

Sintomatico del clima di vent'anni fa è il titolo stesso della legge 157:  "Norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio" dove l'esigenza della 'protezione' della fauna è anteposta a quella della disciplina dell'esercizio della caccia (nella legge lombarda l'ispirazione 'ecologica' è ancor più sottolineata e la caccia ancor più messa in ombra:  "Norme per la protezione della fauna selvatica e per la tutela dell’equilibrio ambientale e disciplina dell’attività venatoria").

 

Lo scenario è radicalmente cambiato

 

Il cambiamento in atto nell'ultimo mezzo secolo è di quelli epocali: simile ai grandi passaggi che hanno segnato la trasformazione del territorio nel passaggio dall'età antica all'alto medioevo e in quello successivo tra il tardo medioevo e l'era moderna. Ma non c'è nessun sordo peggiore di quello che non vuol sentire e i verdi, per chiari motivi di interesse, non hanno alcuna intenzione di riconoscere i nuovi scenari rinunciando alle rendite di posizione garantite dalla demonizzazione della caccia e dall'evocazione di una fauna sull'orlo della sparizione per colpa di un prelievo dissennato.

Il numero dei cacciatori è crollato. Nel 1990 i cacciatori  in Italia erano 1,5 milioni, oggi sono 700mila. Più che dimezzati. Alcune amministrazioni provinciali iniziano a preoccuparsi per l'eccessiva rarefazione della categoria che rischia di divenire una specie in via di estinzione. Una estinzione di cui solo gli iresponsabili  possono rallegrarsi. Già oggi, infatti, i costi del controllo della fauna selvatica o inselvatichita risulterebbero esorbitanti se non vi fossero gli 'ausiliari': cacciatori che collaborano con le amministrazioni provinciali per abbattere capi di specie quali la nutria, il piccione, lo stesso cinghiale responsabili di danni gravissimi (basti pensare a quelli provocati dai piccioni in termini di deterioramento del patrimonio monumentale, diffusione di malattie, danno alle semine, a quelli provocati dalle nutrie agli argini dei canali, dai cinghiali ai campi di mais, alle vigne, ai pascoli, ai prati).

Il territorio silvo-pastorale e l'incolto si sono estesi  e , con la rarefazione delle attività e delle presenze antropiche, le specie di selvaggina stanziale - a partire da quelle di ungulati - hanno conosciuto un forte aumento numerico e un grande ampliamento dei loro areali. Di conseguenza sono aumentati i danni agricoli e forestali. Non solo: da qualche anno si registra un vero e proprio assedio da parte della fauna ungulata che spinge la sua presenza sino all'interno degli abitati. Nelle aree montane e collinari ai danni all'agricoltura e alle foreste si sommano quelli subiti dagli automobilisti e dai residenti a carico di recinzioni, orti, giardini, piccole coltivazioni per autoproduzione. Si segnalano sempre più frequentemente anche casi di aggressioni e ferimenti (questa estate due diversi casi di ferimenti in bosco da parte di cinghiali in provincia di Sondrio e di Bergamo).

 

 

 

Un 'patto scellerato'

 

Nell'opporsi ad una nuova legge sulla caccia i verdi minacciando ancora referendum abrogativi. Essi  mirano solo a quel tipo di consenso suscitato dalle reazioni emotive di un pubblico cittadino senza conoscenza reale dei problemi, un consenso  che poi provvedono a capitalizzare in termini di influenza, potere e vantaggi economici. Per loro, non per 'l'ambiente'.

Una demagogia che riesce a condizionare la politica. Essa -  in cambio della rinuncia ad azioni di disturbo incisive su materie di ben altro impatto ecologico rispetto alla caccia -  ha 'appaltato' ai verdi, agli esperti e operatori di ispirazione ambientalista importanti 'feudi' e 'chiavi' per il controllo della gestione del territorio: un estesissimo sistema di aree protette (25% del territorio lombardo) che dispone di grandi risorse economiche ed è in grado di procurare posti fissi, consulenze, incarichi ad uno stuolo di professionisti, esperti, ricercatori, comunicatori di area ambientalista. Una massa d'urto notevole in termini di influenza ideologica e politica.

Vi è poi il sistema dei "Centri di educazione ambientale" la cui azione, finalizzata alla diffusione di visioni 'conservazioniste', si affianca a quella dei media.  Un tassello importante della strategia dell'ecopotere è poi rappresentata dall'ex INFS (Istituto nazionale fauna selvatica) ora inglobato nell'ISPRA (Istituto superiore per la protezione e la ricerca sull'ambiente). L'affermazione di una visione centralista giacobina e tecnocratica ha consentito di vincolare ai pareri dell'INFS ogni aspetto minuto della gestione faunistica legando le mani alle regioni e alle provincie che vedono le loro competenze condizionate da un organo apparentemente 'tecnico' e 'neutrale' - di certo autoreferenziale - espressione di visioni come minimo 'settorialiste' quando non apertamente ambientaliste. Un fatto che pesa come un macigno quando si tratta di affrontare questioni di impatto sociale rilevante come la gestione de cinghiale.

 

Le colpe dei cacciatori

 

Se i cacciatori sono spesso sulla difensiva (vedi la questione del divieto di caccia nelle aree protette, vedi la questione della caccia in deroga) una parte della responsabilità è dovuta anche alla presenza di una cultura venatoria arretrata e priva di visione strategica, al particolarismo che oppone tra loro i cacciatori dediti alle varie forme di caccia (acuito dalla 'specializzazione' spinta imposta dall' esigenze di 'compromesso' con le istanze ambientaliste di cui sopra). Ma la colpa principale dei cacciatori è stata quella di non contribuire alla creazione di quel fronte rurale che, in altri paesi, ha efficacemente contrastato l'ecologismo di matrice urbana. La vicenda della diffusione e della gestione venatoria del cinghiale in Lombardia (e non solo in Lombardia) è, da questo punto di vista, embematica. Tanto più che in tema di cinghiale i cacciatori hanno pericolosamente fatto propria la teoria ambientalsta del 'non esistono più animali nocivi'. E' una favola come quella del lupo 'buono' che mangia i bambini solo nelle fiabe, dell'orso 'vegetariano' ecc.

 

"... ci dissociamo del tutto dal concetto di animali nocivi (volpe, lupo ecc.) perché ogni animale ha il suo posto e il ruolo che gli compete; perciò ogni animale deve avere una stagone appropriata di caccia ed una di rispetto, cioè ogni animale deve essere opportunamente gestito" (F.Ponti, Caccia a palla alla grossa selvaggina europea. II. La selvaggina, Editoriale Olimpia, Firenze, 1991).

 

Ma questa litania può valere per tutte le specie e per tutti gli agroecosistemi? C'è da dubitarne. Allora vediamo qual'è la realtà del cinghiale e come esso è "riapparso" in regioni dove era estinto da secoli.

 

Il ritorno di un antico flagello

 

In Lombardia il cinghiale si è estinto nel '700. In coincidenza con una fase di "rivoluzone agricola" che, a quei tempi, poneva la Lombardia all'avanguardia nel mondo. 

Il ritorno ha una data precisa e non è per nulla 'naturale'. E' nel novembre 1975 che, con la fuga di sette capi da un allevamento di Besate (MI), si è sviluppata la popolazione del Parco del Ticino. Cacciatori e conservazionisti hanno entrambi favorito la crescita e la diffusione della popolazione che si è presto estesa al di fuori del Parco raggiungendo in pochi anni la zona montana della Provincia di Varese. In altre zone della regione, sia attraverso fughe o deliberate immissioni di cinghiali d'allevamento o di scrofe domestiche o 'porcastre' si sono creati altri nuclei, tanto che la caccia al cinghiale era già una realtà prima della entrata in vigore della legge regionale vigente ( del 1993).

Da allora la proliferazione della specie è risultata inarrestabile, favorita dal sempre più grave abbandono della montagna e dalla moltiplicazione delle squadre di cacciatori 'appassionati' che, almeno in anni passati, hanno fatto di tutto per incrementare lo stock del suide (mantenendo ridotto il prelievo, risparmiando le femmine, immettendo illegalmente capi selvatici, domestici o ibridi, di 'rinforzo. Il cinghiale, inutile nasconderlo, procura una grande soddisfazione ai cacciatori legata al carattere di 'grande selvaggina' della specie, alla difficoltà insita nell'organizzazione delle battute o della caccia da appostamento, alla difficoltà stessa del tiro (in battuta), al grande impegno nell'addestramento e nell'impiego dei cani. L'organizzazione delle battute con grandi squadre organizzate gerarchicamente, e con una rigida divisione dei compiti, assomiglia molto a un 'gioco alla guerra' (un  elemento che solletica i cacciatori che amano la dimensione 'corale' e 'movimentata' della caccia a diventare cinghialisti).

 

Si è scherzato col fuoco

 

Negli anni passati i prelievi sono stati bassi, troppo bassi, e la specie si è diffusa sino a diventare difficilmente controllabile (e ancor più difficilmente eradicabile). Oltre alle colpe dei cacciatori vi sono anche quelle di una legislazione finalizzata più a proteggere il selvatico che a controllare il 'nocivo' (rimosso anche come categoria semantica in nome del buonismo animal-ambientalista).

Ora le cose stanno cambiando (dopo il montare delle proteste degli agricoltori e del mondo rurale) ma, fino a qualche anno fa, la gestione della caccia al cinghiale seguiva norme che hanno validità per specie da tutelare o comunque da gestire.

Ma il cinghiale attuale è un 'normale' selvatico coevoluto con l'ambiente? Anche a prescindere dall'impatto con le attività agricole non si può dimenticare che il cinghiale attuale è ben diverso da quello autoctono ormai scomparso. Frutto dell'importazione di capi dall'Est Europa e dell'incrocio con la varietà domestica di suino il cinghiale attuale è un animale molto più prolifico, molto più grande e molto più aggressivo della specie che esisteva allo stato selvatico. Basti pensare che il cinghiale di oggi è più prolifico delle razze autoctone di suini domestici di ceppo europeo (Cinta senese, Mora Romagnola, Casertana ecc.) dal momento che la sua prolificità è il risultato dell'incrocio con i  suini domestici attualmente più diffusi (le razze 'bianche' internazionali) derivati dall'incrocio - praticato in Inghilterra dalla fine del '700 - tra suino domestico europeo e suino domestico cinese). E' bene ricordare che il suino domestico e il cinghiale sono due entità zoologiche che, almeno sino a tempi molto recenti, erano unanimemente considerate afferenti alla stessa specie (Sus scrofa). Anche se oggi si tende da parte di alcuni a considerare il Sus domesticus una specie a sè ciò non toglie che vi sia completa interfertilità tra le forme domestiche e selvatiche

rattare il cinghiale come un selvatico 'normale' ha comportato applicare norme di caccia inadeguate a partire da una stagione venatoria aperta da giugno ad agosto che non consentiva neppure di abbattere i non molti capi disponibili. Non si considerava 'sportivo' cacciare in autunno-inverno, con i boschi decidui spogli e la neve. Il risultato dello spostamento della stagione e, in alcuni casi, anche del suo prolungamento si è tradotto in un forte aumento dei capi abbattuti in tutta la Lombardia: dai 1.110 del 1999 ai 3.300 del 2009. Oggi la maggior parte delle province, in testa Como con 1.500 abbattimenti nel 2009., vedono il prelievo effettivo avvicinarsi al numero di capi previsto. Ma fino a pochissimio anni fa le cose non stavano così e gli abbattimenti non arrivavano alla metà del prelievo programmato.

Solo ora, con la diffusione in zona Alpi, considerata da tutti catastrofica ma facilmente prevedibile e forse prevenibile, si cominciano a capire i gravi errori commessi.

Solo due anni fa l'INFS 'tagliava' il numero di capi stabilito dalle provincie sulla base, peraltro, di censimenti di difficile attuazione che tendono a sottostimare la presenza del suide. Per tutti gli altri aspetti: stagione e durata di caccia, pluralità di forma di caccia, giornate di caccia, controllo extra-venatorio, le provincie hanno dovuto negoziare con il gendarme della fauna (l'lNFS). Peccato che con ci sia un Istituto Superiore per la Protezione dell'Agricoltura che possa dire la sua! E che le organizzazioni professionali agricolesi ricordino di certi problemi solo ogni tanto, dimenticando che l'azione di lobbying efficace si fa 365 giorni all'anno (come insegnano i verdi!).

 

Serve un drastico ridimensionamento

 

E' bene chiarire che l'auspicabile allargamento della caccia al cinghiale deve essere visto solo come strumentale al ridimensionamento drastico della specie e al suo futuro mantenimento su livelli molto più bassi rispetto a quelli odierni. Non deve implicare l'aumento delle squadre e degli 'appassionati' che, ovviamente, non vorranno poi privarsi delle loro prede.

Il controllo dei cinghiali si può ottenere concedendo più opportunità (giornate, stagione, forme di caccia) ai cinghialisti ma, soprattutto, utilizzando altri cacciatori 'non specializzati' e gli agricoltori muniti di licenza di caccia. In casi particolari può essere necessario anche l'impiego della Polizia provinciale e del Corpo Forestale dello Stato.  Tale impiego, però, comporta costi notevoli e distoglie questo personale da altri compiti istituzionali.

Ovviamente il controllo delle popolazioni di cinghiale deve essere effettuato con pari efficacia anche nella zone dove la caccia è vietata. Pena vanificare le azioni intraprese. Sono state proprio le 'aree protette' a fungere da 'aree di irradiazione' nella prima fase storica di ricolonizzazoine del territorio da parte del cinghiale. Ancora oggi le maggiori difficoltà ad esercitare il controllo del cinghiale nelle 'aree protette' ne limita l'efficacia. Ancora nel 2009, a fronte di 3.299 capi prelevati attraverso l'attività venatoria, erano solo 255 quelli abbattuti con mezzi di controllo extravenatori (ex art. 41 della legge regionale sulla caccia) nelle 4 provincie (BG, CO, VA e SO) dove questo viene attuato. Troppo poco!

L'impiego sistematico di cacciatori dediti ad altre forme di caccia e l'applicazione di un controllo efficace anche nelle aree protette sono elementi imprescindibili per la soluzione del 'problema cinghiale' (insieme all'uso di mezzi quali trappole e ad una 'lotta' estesa a tutto l'anno e a tutte le classi di età).

La legge in vigore con molte limitazioni prevede comunque già (art. 41 della L.R. 26 del '93)  che:

 

"Le Province, per la migliore gestione del patrimonio zootecnico, per la tutela del suolo, per motivi sanitari, per la selezione biologica, per la tutela del patrimonio storico-artistico, per la tutela delle produzioni zoo-agro-forestali ed ittiche, provvedono al controllo delle specie di fauna selvatica o inselvatichita anche nelle zone vietate alla caccia".

 

Prevede anche l'impiego di 'operatori autorizzati' ovvero 'selettori'. Ma questi devono frequentare appositi corsi (che le provincie si devono preoccupare di organizzare) e sono ancora troppo pochi. La lettura del comma 3. del suddetto art. 41 da poi l'idea delle tante limitazioni  e clausole cui il controllo deve sottostare. Non commentiamo poi, almeno nel caso del cinghiale, la pantomima dei 'metodi ecologici' e dell'onnipresente parere vincolante dell'INFS.

 

" Il controllo, esercitato selettivamente, viene praticato, di norma, mediante l’utilizzo di metodi ecologici, su parere dell’Istituto nazionale per la fauna selvatica; qualora l’Istituto verifichi l’inefficacia dei predetti metodi, le Province predispongono piani di abbattimento. Tali piani devono essere attuati dalle guardie venatorie dipendenti dalle Province stesse che potranno altresì avvalersi dei proprietari o conduttori dei fondi sui quali si attuano i piani medesimi, purché muniti di licenza per l’esercizio venatorio, nonché delle guardie forestali, degli agenti venatori volontari provinciali e delle guardie comunali munite di licenza per l’esercizio venatorio e delle guardie dipendenti dalle aziende faunistico-venatorie nonché degli operatori espressamente autorizzati dalle province, selezionati attraverso specifici corsi di preparazione alla gestione faunistica".

 

Responsabilizzare i cacciatori

 

Il problema cinghiali deve essere assunto dal mondo venatorio nel suo insieme perché acuisce i conflitti con gli agricoltori e i residenti nelle aree rurali. Un conflitto pericoloso dal punto di vista strategico. Da parte del mondo agricolo e rurale non si deve d'altra parte cedere a posizioni anticaccia generalizzate. I cacciatori servono e serviranno sempre di più. La presenza di consistenti popolazioni di specie di fauna selvatica rende indispensabile il loro ruolo. Solo i verdi possono credere di fare a meno dei cacciatori reintroducendo ovunque lupi, orsi, linci (che preferiscono poi predare gli animali domestici)

Una volta stabilito che  la presenza di alcune specie in determinate zone comporta danni insostenibili si deve procedere di comune accordo alla loro riduzione o eradicazione.

Le presenza 'sostenibili' devono invece divenire oggetto di una valorizzazione economica che superi l'ipocrita definizione della caccia quale 'attività senza scopo di lucro' e consenta la convergenza di interessi tra parte agricola e venatoria. Come abbiamo già avuto modo di osservare in altre occasioni alla base di questa convergenza non può non esserci un diverso inquadramento giuridico dell'attività venatoria e il superamento dello status della selvaggina quale 'proprietà indisponibile dell stato'. La selvaggina non si alimenta di aria, ma di risorse prodotte nell'ambito del territorio agro-silvo-pastorale. Superate le anacronistiche divisioni tra gestione agro-silvo-pastorale e gestione faunistico-venatoria si deve concepire la fauna prelevabile quale un prodotto provvedendo, però, a ricompensare i soggetti che hanno contribuito a formare questo prodotto. Quando il 'danno' alle attività agro-silvo-pastorali si limita ad una diminuzione di produttività e non ha un carattere eccezionale può essere considerato una forma di produzione (altro è la distruzione di piante agrarie legnose o forestali, la devastazione sistematica  di colture in atto, dei prati e pascoli 'arati' dal cinghiale).

Queste scelte richiedono una 'rivoluzione copernicana' nell'esercizio venatorio e possono essere introdotte solo con una radicale riforma della caccia.

Già oggi, però, è necessario fare qualcosa per rispondere all'emergenza cinghiale, sia pure nell'ambito della legislazione vigente o di sue modifiche a livello regionale che non ne stravolgano l'impianto.

Il punto cruciale è quello del rimborso dei danni arrecati dai cinghiali.

 

 

Danni non riconosciuti e danni pagati da pantalone

 

Il cinghiale ha causato in Lombardia danni per 1 milione di € negli ultini 5 anni. La cifra di per sè dice ben poco rispetto al danno sociale e ambientale inferti. Va precisato che le modalità di risarcimento dei danni alle coltivazioni, basati sulla perdita di produzione, fanno si che la maggior parte dei rimborsi si concentri in pianura. Nel 2009, su 200mila € di danni da cinghiale risarciti in Lombardia, più della metà erano concentrati in provincia di Mantova mentre a Como, dove il flagello dei cinghiali è presente in massima misura, sono andati solo 26mila € (presumibilmente concentrati nell'area di pianura). A Como il cinghiale è responsabile del 90% dei danni da fauna selvatica, a Bergamo dell'80%. I danni dei piccoli appezzamenti a prato dal punto di vista economico incidono pochissimo. Ma le conseguenze per i contadini sono gravi. C'è una mancata produzione, ma - ciò che più conta - vi sono danni per inquinamento del foraggio con il terriccio (con effetti negativi sulla salute e la produttività del bestiame) e vi è poi il lavoro di ripristino della cotica e di livellamento del terreno da eseguire. Tali interventi sono tanto più difficili laddove non possono essere utilizzate le macchine (per ragioni di pendenza o di accessibilità dei fondi).

Va anche considerato che il ritorno alla produttività anteriore al danno è graduale e sono a volte necessari diversi anni per tornare alle condizioni di prima. Il danno è tanto più rilevante quanto più ci si sposta sui pascoli estivi, dove il valore della produzione è ancora più basso, ma il danno ambientale è notevole. La continuità della cotica è interrotta e le piogge battenti, favorite dalla pendenza - che provoca l'aumento della velocità dell'acqua di ruscellamento - determinano fenomeni di erosione allargando le aree con terreno nudo privo di protezione e creando le premesse per smottamenti del terreno. Il danno è acuito dall'altitudine in relazione alla breve stagione di crescita dell'erba e quindi alle minore facilità di ripristino spontaneo.

Nella fascia prealpina vi è un esteso sistema di alpeggi che è esposto a questo pericolo. Così come la presenza del cinghiale è stata esclusa dalle fasce a vigneto dell'area pedemontana risulterebbe necessario preservare gli alpeggi e intervenire risolutamente eliminando i branchi che si spingono sino alle quote dei pascoli estivi.

Negli ATC (ambiti territoriali di caccia) prealpini la presunta 'vocazionalità' del cinghiale si scontra non solo con la presenza degli alpeggi ma anche con altre situazioni che, pur  non configurano un sistema di coltivazioni specializzate ed economicamente rilevante, stanno segnando tentativi di 'rinascita rurale' di rilevanza prevalentemente sociale (anziani e giovani che trovano motivi di interesse comune, che svolgono un ersercizio fisico salutare, che collaborano tra loro). Fatti che i tecnocrati della gestione faunistica non sono certo disposti a considerare.

Qua è là, anche in relazione con la crisi economica (che spinge ad una rivalutazione dell'autoproduzione), si riprende a coltivare la patata, si ripiantano piccoli vigneti e frutteti, si recuparano con grandi sacrifici i castagneti da frutto. Piccole attività di coltivazione a 'macchia di leopardo' che la presenza dei cinghiali mette a repentaglio. Tra i costi del cinghiale non vi è solo il danno alle coltivazioni in atto o la sottrazione dei frutti ma anche la spesa e le fatiche imposte dagli interventi minuti di 'protezione' delle coltivazioni stesse (utilizzo di sostanze repellenti, recinzioni elettriche, reti). Sono costi che in gran parte (tolti alcuni casi eclatanti) vengono sostenuti dai privati. Paradossalmente poi i primi a lamentarsi delle recinzioni poste a difesa dai cinghiali sono gli stessi cacciatori (dediti alla 'normale' selvaggina stanziale) che vedono limitata la possibilità di azione per i loro cani.

Oltre alla intensificazione delle attività di controllo ex art. 41 (e in attesa di una riforma della legge nazionale) la Regione potrebbe intervenire nel modificare quegli aspetti che la legge nazionale demanda alla legislazione regionale. La 157 stabilisce che i contributi per i danni prodotti dalla selvaggina siano erogati dagli organi di gestione (Ambiti territoriali di caccia). La legge regionale ha però fissato nella modesta quota del 10% il contributo degli ATC (il 90% degli indennizzi è coperto dal bilancio regionale). Una ripartizione più equa (almeno 50% a carico dei cacciatori) potrebbe rappresentare un mezzo efficace nell'indurre le squadre dei cinghialisti ad intervenire con sollecitudine (ed efficacia) laddove i contadini segnalino la presenza di branchi di cinghiali e l'insorgenza di danni.

 

Conclusioni

 

Il contenimento della presenza dei cinghiali deve essere attuato attraverso l'impiego dei cacciatori attualmente dediti a questa forma di caccia, aumentando le giornate di caccia, estendendo la stagione ma, soprattutto, intervendendo rapidamente dove i contadini sollecitano l'abbattimento di cinghiali autori di danni. on aumentando il numerto di cinghialisti.

 

Per ottenere una forte diminuzione delle popolazioni presenti è però necessario allargare l'impiego degli operatori autorizzati al controllo extra-venatorio (contadini con licenza di caccia e cacciatori dediti ad altre specializzazioni).

 

Il controllo extra-venatorio deve diventare più incisivo nelle aree protette dove, in assenza di interventi efficaci, si ricrea uno stock di cinghiali pronto poi a reirradiarsi sul resto del territorio.

 

In considerazione della rilevanza sociale del fenomeno non possono essere le sole provincie ad agire in ordine sparso. E' necessario un coordinamento (venuto meno) della Regione accompagnato anche da modifiche normative di competenza della medesima. Attualmente la diversità di approccio tra provincie limitrofe  non può che compromettere l'efficacia di un programma di ridimensionamento di questa presenza faunistica cresciuta in modo incontrollato.

 

La difficoltà di gestione del cinghiale mette in generale in evidenza l'anacronismo di una legislazione e di una visione dell'attività venatoria e della 'protezione della fauna' che non tiene conto delle trasformazioni del territorio e dell'aumento massiccio di alcuni tipi di fauna. La risoluzione del problema cinghiale (come di altri problemi di 'convivenza' tra fauna selvatica ed attività antropiche) presuppone il superamento dalla concezione della caccia quale attività 'sportiva' a favore di una concezione più adeguata ai tempi che vede nell'attività venatoria una funzione sociale importante sia dal punto di vista del controllo della fauna che da quello di una gestione economica di un patrimonio cheè parte integrante delle risorse del territorio agro-silvo-pastorale.

 

 

 

 

 

 

                   

 

pagine visitate dal 21.11.08

Contatore sito counter customizable
View My Stats
commenti, informazioni? segnalazioni scrivi

Registra il tuo sito nei motori di ricerca

 Creazione/Webmaster Michele Corti