Ruralpini   Materiali/Imbroglio ecologico (II)

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(07.11.2013) l'Imbroglio ecologico (ambientalismo, sinistra, trasformazioni sociali nell'era del capitalismo neoliberista)

Oggi l' ambientalismo è la proiezione della Green economy capitalista e i movimenti devono imboccare con coraggio nuove strade, oltre la sinistra e la destra e oltre l'ambientalismo per una nuova autonomia dei soggetti e delle comunità popolari. L'imbroglio ecologico è finito perché il ruolo dell'ambientalismo istituzionale è palesemente di controllo sociale. Prima parte di un ampio contributo che ripercorre la storia dei rapporti tra ambientalismo, sinistra, capitalismo e movimenti sociali dai primordi del movimento ambientalista ad oggi. 

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(08.01.13)Per una gestione comunitaria delle risorse e dei problemi ambientali
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(02.12.2012) Continuavano a chiamarli  NIMBY

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(14.03.12) Modernizzazione ecologica: legittimazione dei rischi e della tecnocrazia

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(16.11.13) La nascita dell'ambientalismo come movimento sociale negli anni '80. I condizionamenti del travaso dell' "eccesso di militanza" dalla "sinistra rivoluzionaria" e dell'egemonia culturale del PCI. La divaricazione tra localismo e ambientalismo quale occasione mancata

 

L'imbroglio ecologico


ambientalismo, sinistra, trasformazioni sociali


di Michele Corti


(Seconda parte)

 

L'egemonia culturale della sinistra condiziona ancora oggi la società italiana e gli stessi movimenti. A partire da quelli su temi ambientali. È una posizione, quella della sinsitra, che sfrutta l'ambiguità di una mai avvenuta abiura socialdemocratica e il richiamo a una storia ormai sepolta di opposizione politica e sociale per giocare nel presente un ruolo chiave di stabilizzazione e controllo sociali e presentarsi come amministratrice del capitalismo neoliberista. Ogni movimento sociale che aspiri a sviluppare una resistenza efficace al nuovo volto aggressivo del capitalismo deve fare i conti con i pesanti condizionamenti ideologici della sinistra impediscono l'espressione dell'autonomia sociale dei soggetti popolari. Mai come ora è stato necessario andare oltre la sinistra (e la destra, sua pallida controfigura). Oggi comincia anche ad essere possibile.

Per tutta una fase dello sviluppo capitalistico la sinistra (e, in parte, il movimento cattolico) hanno contrastato lo strapotere capitalistico costruendo, oltre alle già richiamate identità collettive, istituzioni economiche popolari, forme di solidarismo e mutualismo concrete che hanno risposto efficacemente anche ai bisogni materiali, all'esigenza di resistenza sociale.

L'identificazione della sinistra con le istituzioni e i meccanismi della democrazia rappresentativa (sui quali ha costruito la fortuna delle sue classi dirigenti) l'aveva portata da lungo tempo a sostenere quello "stato sociale" che ha rappresentato una condizione di benessere materiale per ampi strati popolari ma che ha anche spazzato via quelle istituzioni di "economia sociale" che il movimento operaio aveva costruito. Introdotto tra le due guerre (sia dal regime fascista che da quelli "liberali") lo stato sociale ha comportato anche - come contropartita - la "normalizzazione" del movimento cooperativo omologato ad una variante di impresa societaria (ovvero alla forma privilegiata in cui il sistema capitalistico organizza l'attività economica). L'evoluzione delle coop da istituzioni popolari a multinazionali è emblematica di uno sviluppo che ha visto l'annullamento di precedenti forme di economia solidale (17) in favore dell'affermazione di quel binomio duopolistico (stato e mercato) su cui si reggeva la modernità e che la sinistra ha contribuito a rafforzare. Entrambi questi poteri si affermano storicamente quanto più la società è "nuda", quanto più tra l'individuo e lo stato (e il mercato) non si frappogono istituzioni che al loro interno fanno prevalere logiche diverse da quelle della tecno burocrazia e del valore di scambio. Che oggi appaiono necessarie, per contrastare un capitalismo sregolato che punta ad un nuovo salto di qualità per un controllo pervasivo non solo della sfera sociale, ma si ogni risorsa e forma vivente. E a supportare queste nuove istituzioni popolari di resistenza sociale necessarie risorse di autonomia ideologica che mettano in discussione i fondamenti della modernità e del potere della borghesia (entro le quali la sinistra e l'ambientalismo sono completamente inscritti).

Non servono certo nuove forme di identità surrogate come quelle che fanno riferimento al nazionalismo nelle sue diverse declinazioni anche se è fortemente significativo che per una non brevissima stagione politica un partito demagogico dai confusi e ambigui riferimenti ideologici abbia catalizzato in Veneto e Lombardia un voto operaio "orfano" di una sinistra percepita come "radical chic". In effetti, nella convergenza con gli sviluppi del tardo capitalismo, nella tensione ormai esasperata a "liberare" l'individuo da ogni vincolo di appartenenza, solidarietà organica, senso della comunione transgenerazionale, la sinistra ha ritrovato in modo "naturale" quella tensione che portava Marx ad esaltare il ruolo del capitalismo quale disgregatore di tutti i "residui precapitalistici" salvo condannare gli eccessi dell'accumulazione originaria.



Ma gli "eccessi" attuali di distruzione degli ecosistemi e gli "eccessi" distruttivi delle guerre imperialiste del XX secolo (e del nuovo) sono forse solo gli spiacevoli accidenti di un sistema altrimenti meritevole di avere "liberato", quale mai nessuno precedentemente nella storia dell'umanità, quelle "enormi forze produttive e scientifiche" che hanno affascinato Marx e continuano ad affascinare la sinistra (magari nelle versioni della green economy?).

La chiusura di quegli spazi di autonomia che erano rappresentati dall'azione collettiva, dalla presenza di istituzioni e identità popolari non è stata "scambiata" solo con lo "stato sociale" e una forte presenza negli apparati istituzionali ma, soprattutto, con la conquista di una salda egemonia culturale, che si è tradotta nel mantenimento e nel rafforzamento di strati intellettuali e burocratici urbani (largamente parassitari) e nella corrispettiva ulteriore perdita di autonomia di espressione sociale, culturale, identitaria degli strati popolari.


"Buonismo sociale" e disgregazione delle comunità popolari


In barba alla demagogia e al "buonismo sociale" correnti l'aggregazone sociale che si è avvantaggiata e ha perpetuato l'egemonia culturale della sinistra ha affermato i propri interessi (ma anche i propri simboli e i propri valori) in contrasto con gli strati più deboli della società trovando un equilibrio con gli interessi del capitalismo globale e dei suoi terminali "coloniali" su uno sfondo di declino, globalizzazione e ipermodernizzazione subalterne.
Le politiche in materia di gestione dei flussi migratori e di "accoglienza" rappresentano un buon esempio di convergenza tra sinistra e interessi capitalistici, in nome di un progressismo filantropico che mescola un ben poco convincente "internazionalismo" (riesumato per l'occasione) con l'ideologia cosmopolita della globalizzazione. Al di là di ogni considerazione ideologica è difficile sostenere che i costi e i benefici di massicci flussi immigratori non si distribuiscano in modo ineguale tra chi sta in alto e chi sta in basso nella piramide sociale. 

La crisi ha fatto emergere in modo drammatico quel ruolo di marxiano "esercito industriale di riserva" che in precedenza era oscurato da determinanti di natura economica e sociologica. Per molte posizioni lavorative non qualificate la disoccupazione di lavoratori italiani è innegabilmente legata alla diretta concorrenza per i pochi nuovi posti disponibili di manodopera straniera disposta ad accettare impieghi che riportano indietro i livelli salariali e le condizioni di lavoro di decenni.  Al di là del mercato è anche evidente che nuove forme di segmentazione alla base della società e l'ulteriore frammentazione di sistemi di valori, linguaggi, culture che si somma alle fratture e agli incapsulamenti di genere e generazionali della modernità consumistica e avvantaggino i poteri costituiti rendendo sempre più difficili forme di resistenza e aggregazione sociale. Un effetto che va ben al di là del ruolo di strumento delle classi dominanti del marxiano lumpenproletariat (18) anche se potrebbe essere interpretata in questa chiave la quasi ossessiva attenzione della sinistra per le aree della "marginalità" sociale, ovvero per un "buonismo" nei confronti di gruppi e comportamenti che mettono in discussione la sicurezza di chi non può permettersi i servizi di cui dispongono i ceti dominanti, che spingono i ceti popolari a rinchiudersi ancora di più in un individualismo sospettoso, diffidente, corrodendo fiducia, solidarietà (vera), disposizione ad aprirsi al prossimo e ad agire socialmente. Si aggiunga che come i "nuovi arrivati" accettano condizioni di lavoro che ne abbassano gli standard lo stessa vale per le nocività ambientali e il deterioramento ecologico determinato dalle nuove aggressive politiche di sfruttamento del territorio (stoccaggi, trivellazioni, impianti di energie "rinnovabili").

L'aggressione territoriale presuppone una resistenza sul piano dell'identificazione con il territorio, mobilitando senso di appartenza. Qualcosa possibile se c'è una storia conosciuta e condivisa, se ci sono comuni "valori territoriali". Che hanno poco o nulla a che fare con ancestrali eredità etniche ma che - d'altra parte - presuppongono un complesso lavoro collettivo di riappropriazione e di costruzione di identità che può e deve coinvolgere anche i "nuovi arrivati" consapevoli del fatto che oggi "alienati dal territorio" possono anche essere gli "autoctoni". Negare questi aspetti, non essere consapevoli del significato sociale di questi processi, affidarsi alle politiche di "integrazione" su basi astratte e ideologiche gestite dal potere significa rendere più difficile una riaggregazione comunitaria e popolare come condizione di lotte e resistenza efficaci. E significa anche fomentare chiusure, derive xenofobe, nuove forme di conflitto alla base sociale che stabilizzano il potere.


Egemonia culturale

La possibilità di sostenere il capitalismo neoliberista in nome dei valori di sinistra senza che nessuno possa - con qualche possibilità di ottenere attenzione - farne rilevare la contraddizione, è il frutto di una salda egemonia culturale.  Il tema dell' "egemonia" della sinistra è un fenomeno che riguarda solo (o principalmente)  l'Italia. Altrove non vi è mai stata alcuna pretesa di "diversità" e la sinistra si è concepita all'interno di un unico sistema di "democrazia liberale" proclamandosi onestamente "socialdemocratica". In Italia ciò non è avvenuto e probabilmente non avverrà mai. Si vuole essere "liberali" ma senza pagare il dazio di un bagno di autocritica e di una rottura con il passato che sono gli amari calici della "socialdemocratizzazone".  Il mainstream della sinistra italiana continua a rifiutare di concepirsi quale espressione della borghesia e del capitalismo neoliberista anche se quella che si proclama "sinistra di classe" è ridotta al ruolo di fenomeno parareligioso, di "Testimoni di Geova" della politica, al culto dei simboli. In realtà un'onesta analisi storica di prospettiva secolare non fatica a concludere che quell'autonomia dalla sinistra borghese, per la quale Marx e i suoi nipotini si sono dannati l'anima, non è mai stata mai conseguita realmente e che una "sinistra di classe" non è mai esistita.  Quella che si proclamava tale non è mai andata storicamente oltre la funzione di fare - con troppo zelo - il mestiere della borghesia, o per rimuovere i "residui feudali" (più spesso immaginari) o per portare a termine "rivoluzioni borghesi incompiute" o di supplire ad una borghesia troppo debole per iniziare le sue rivoluzioni e sostituirsi ad essa tout court.

Il tutto nel contesto di una tensione quasi religiosa verso quel progresso lineare della storia che non poteva che passare per per lo sviluppo del capitalismo (di stato o "privato"), per l'industrialismo, per l'applicazione della scienza alle forze produttive. Quello che poteva deviare da questa traiettoria andava esorcizzato. In nome della "coerenza rivoluzionaria" andavano respinte e combattute - tranne che in qualche occasione di convenienza tattica - le alleanze con strati sociali "arretrati", quali i contadini, la piccola borghesia produttiva. Essi rappresentavano il passato, la "reazione".

“Gli ordini medi, il piccolo industriale, il piccolo commerciante, l'artigiano, il contadino, combattono tutti la borghesia, per premunire dalla scomparsa la propria esistenza come ordini medi. Quindi non sono rivoluzionari ma conservatori. Anzi sono reazionari” (19).

La possibilità di imboccare modelli di sviluppo diversi da quello che implicava il passaggio obbligato per lo stadio dell'industrializzazione (meglio se "pesante"), valorizzando i sistemi di piccola produzione locali era categoricamente esclusa.

In nome di un suo messianico futuro superamento del capitalismo la sinistra marxista ha indebolito le forze che si opponevano alla penetrazione del capitalismo mondiale, un "servizio" di cui è difficile non sottolineare l'utilità per il capitalismo stesso perché l'alfabetizzazione politica di sinistra, nella sua opera di destabilizzazione delle culture e delle identità popolari, ha avuto valore duraturo e ha reso quasi ovunque più difficile la mobilitazione di risorse delle culture sociali precapitalistiche a favore dei movimenti che si oppongono al capitalismo globale e la saldatura, realisticamente possibile in alcune contingenze, tra un "prima" e un "dopo".

Nel frattempo la sinistra ha promosso, attraverso lo stato sociale, la dilatazione della spesa pubblica, la proliferazione della burocrazia, la crescita di una piccola borghesia di massa con attitudini molto più conservatrici di quelle degli strati sociali legati alla "piccola produzione". Un processo con indubbi vantaggi in termini di stabilizzazione e di controllo sociali per il sistema capitalistico.

Tanto per cominciare il nuovo conformismo, il moralismo (sia pure "alla rovescia" sotto forma di trasgressione coatta), il nuovo conservatorismo, il nuovo egoismo sociale non erano gravati dal peso e dal senso di colpa di essere tali, ma potevano sublimarsi in quella certificazione di progressismo, sensibilità sociale, anticonformismo che era generosamente concessa - in forza di un monopolio culturale autoreferenzale - dai mandarini dell'intellighentsia di sinistra. 

Il tema dell'egemonia culturale della sinistra oggi assume i connotati del mito fondante (specie in un contesto in cui – come abbiamo visto - il simbolo e il mito assumono un ruolo surrogatorio di una “diversità” che non esiste più)(20). Ma esso rappresenta anche una chiave interpretativa dalla quale non si può prescindere per capire il "caso italiano". Questa "diversità" spiega anche - come vedremo meglio in seguito - l'evoluzione e il carattere del movimento ambientalista che, a differenza di altri paesi, si è sempre organicamente collocato dentro la sinistra.


 

La svolta degli anni '80, il contesto della nascita del movimento ambientalista in Italia

 

Pur con le irrisolte contraddizioni ideologiche e pur nell'ambiguo ruolo di punta di diamante del capitalismo (con la sua esaltazione acritica delle "forze produttive" dell'eraà della modernità e della borghesia e la lotta contro le "sopravvivenze precapitalistiche"), la sinistra ha rappresentato una tradizione politica forte che ha saputo esprimere sino agli anni '70 una sua effettiva, sia pur parziale diversità, e una capacità di suscitare senso di identità per larghi strati popolari.

Ma tutto cambia con la fine degli anni '70. La data simbolica può essere identificata nel 14 gennaio 1976. Un luogo comune, dice che Repubblica non è un giornale di sinistra: ma che è la sinistra (botteghe principali e succursali) ad essere un club di Repubblica (ovvero di quel settore, un tempo definito - o autodefinitosi - "avanzato" del capitalismo italiano). È in questo contesto che si afferma in Italia, finalmente al di fuori di circoli accademici od elitari ambientalisti ante litteram, ma in ritardo rispetto ad altre realtà, il movimento ambientalista.

Negli anni '80 le trasformazioni accumulatisi nei decenni precedenti portarono ad un forte mutamento sociale e culturale. Basti pensare agli effetti delle riforme scolastiche dei decenni successivi con la "nuova scuola media" e la diffusione della televisione (abbiamo già visto come li valutava P.P. Pasolini).

Di certo scuola media unificata obbligatoria e RAI ebbero la funzione di delegittimare i meccanismi di trasmissione orale di culture "subalterne", di svalorizzare ricchi patrimoni di saperi che rappresentavano strumenti di comprensione della realtà, conoscenze, non filtrate dal controllo dei sistemi di conoscenza formali e degli apparati del potere. Oggi si può finalmente affermare queste cose senza paura di essere bollati come "nostalgici reazionari". Quanto abbia pesato negativamente sulla capacità di resistenza sociale la distruzione dei saperi "incorporati", "impliciti", "localizzati" diventa evidente oggi a fronte della difficoltà ad articolare reazioni alle aggressioni ai territori e alle risorse locali accompagnate da un vero e proprio programma di mistificazione "scientifica" finalizzato ad occultarne e minimizzarne gli impatti. 

Pasolini troverebbe piena conferma delle sue analisi: le poche nozioni della scuola hanno la funzione di consentire, attraverso il richiamo ad alcuni concetti e parole chiave di conferire una parvenza di credibilità "scientifica" alla più spudorata propaganda. Un meccanismo che non funzionerebbe di fronte a recettori "vergini" o, ancor più, forti di una loro cultura, di un sistema cognitivo autosufficiente (come nel caso dei popoli indigeni e delle culture ancestrali vive).

Negli anni '80 non si dispiegarono solo gli effetti della rivoluzione scolastica e televisiva ma anche della rivoluzione dei costumi e della mentalità degli anni '60-'70. Ne sortì una svolta profonda che incise ancor più profondamente sulla sfera del privato nel venir meno conclamato di ideologie, valori che in qualche modo facevano argine all'individualismo e alla piena legittimazione di un'autoaffermazione egotica sciolta da ogni vincolo. Se la rivoluzione degli anni '60-'70 era stata condotta prendendo a prestito vecchie ideologie che esaltavano la dimensione dell'impegno collettivo ora, dopo la fine degli anni '70, la stagione del terrorismo e del "riflusso nel privato", quelle ideologie parevano diventate ferri vecchi e insieme all'acqua sporca veniva buttato anche il bambino. Nel frattempo l'individualismo, l'auto affermazione narcisistica, la cupidigia consumistica, l'edonismo, il desiderio di trasgressione e di libertinaggio non trovavano più inibizione nella morale tradizionale (cattolica o rivoluzionaria che fosse).

L'impegno sociale nelle forme precedenti pareva ormai improponibile, parlare di "classe operaia", "lotta di classe", "padroni" evocava una tetra, polverosa, opprimente archeologia politica. In effetti le "città operaie" stavano sparendo, le fabbriche si delocalizzavano e le aree lasciate libere venivano occupate dai centri commerciali, veri templi ove officiare i riti compulsivi del consumismo. Nascevano nuove figure sociali difficilmente inquadrabili nelle categorie tradizionali del lavoro salariato. Finiva la società della grande fabbrica, del fordismo, del salario.

Non si può anche non dimenticare che, negli anni '80, il sistema del welfare era però già messo in discussione dagli economisti e dai politici neoliberisti mentre le generazioni che pervenivano alla maturità, a differenza di quelle precedenti, consideravano ormai come dati acquisiti gli istituti "sicurezza sociale" che erano stati varati sin dal ventennio fascista e che avevano potuto essere finanziati ed ampliati negli anni seguenti al "miracolo economico".

I redditi crescenti e l'ampiamento del sistema di welfare rendevano meno urgente il poter contare sulla famiglia o sulla solidarietà di chi condivideva le stesse condizioni di lavoro.

Il "solidarismo", il "mutualismo", già in larga misura messi in soffitta dallo stato sociale (con i suoi risvolti fiscali e burocratici) venivano resi obsoleti dal benessere individuale e dal welfare. Un clima di ubriacatura che consentiva di seguire modelli da yuppie (con le "spalle coperte" di un sistema di welfare e di crescita del debito che verrà fatto scontare amaramente alle generazioni successive).

Forse, però, si sono enfatizzati troppo gli aspetti negativi dei processi di individualizzazione, (gli aspetti narcisistci ed edonistici in primis) degli anni '80. In realtà il nuovo individualismo ha anche risvolti positivi: linteresse per il corpo, la salute, il cibo, lo stesso consumo alcuni filoni che il '68 politico aveva solo sfiorato. Negli anni '80 cade l'impegno politico tradizionale ma si politicizzano questi ambiti e sulla base del consumerismo politico si formano nuove aggregazioni che contestano in termini non più ideologici, ma pur sempre politici, il consumismo lasciando spazio all'azione individuale che prima era affogata in un impegno e in un'adesione totalizzanti e creando le premesse per lo sviluppo dei DES Distretti di economia solidale e di forme di volontariato individuale (21). L'impegno collettivo si trasformava e nella crisi della vecchia militanza c'era spazio per una diversa partecipazione che privilegiava piccoli gruppi e i movimenti che consentivano una maggiore spontaneità (22).

Si tratta di temi che oggi riemergono in forma più consapevole – non più limitati alla componente giovanile e a strati elitari - in chiave di nuovi movimenti, di azione collettiva che dalla dimensione urbana e di strati sociali privilegiati per censo e/o risorse culturali, si sta allargando ad una ritrovata dimensione popolare, risultato di un nuovo disincanto, della diffusione di un maggior distacco verso i valori dominanti che è uno dei grandi portati positivi della crisi.

 

 

Il "riflusso nel privato" era oggeto di una condanna "pelosa" da parte dei moralisti della sinistra (che fingevano di non vedere l'emergere di nuovi movimenti sociali). A vituperare gli anni del disimpegno sociale vi erano coloro che avevano ottenuto salde rendite di posizione grazie alla contrapposizione tra egli schieramenti ideologici (che solo oggi mostra finalmente segni di scricchiolio). Molto di quell'impegno, però era massificato. Le sezioni di partito erano frequentate e i comizi raccoglievano folle oceaniche ma gran parte di questa partecipazione era passiva, fideistica, liturgica, un riflesso condizionato dell'appartenenza.

Ottenere il consenso, orientare le moltitudini era relativamente semplice in un epoca in cui ciò che era "marchiato" con un determinato colore politico era automaticamente considerato "bene" (o "male") per larghe masse che si identificavano negli schieramenti di allora. Molta gente ha votato per decenni (dal '48 in avanti) per gli stessi partiti, fino a che sono scomparsi.

Dopo gli anni '80 è diventato più difficile influenzare politicamente le masse. La crisi delle ideologie era verticale, sia per le trasformazioni della società, della struttura produttiva, della composizione sociale, sia per una sorta di crisi di rigetto per l'ubriacatura degli anni '70 e il suo strascico di sangue (le decine di omicidi politici del terrorismo rosso e nero). Il "muro" è caduto prima del 1989. Era il "muro" che divideva le coscienze quello più impenetrabile, quello che in ogni aspetto della vita sociale, etico, culturale, politico, artistico le orientava in base alle indicazioni che venivano date da autorevoli personaggi dei diversi schieramenti ideologici. Non era possibile, come avviene normalmente oggi, che si registrasse consenso e aggregazione su determinate tematiche e non su una weltangshaung. Che sui temi etici si convergesse con il partito A e su quelli sociali con B. Oggi è normale. E questo sviluppo apre le premesse al superamento di quelle forme di rappresentanza brontosauriche che sono i partiti e alla stessa ratio della democrazia delegata (una cambiale in bianco).




Il "muro", in ogni caso,  si sgretolò rapidamente anche perché, nel mentre perdurava la contrapposizione egemonica per la colonizzazione delle masse, il PCI e la DC avevano da tempo avviato la pratica - per nulla segreta - del consociativismo più spudorato (che tanto ha contribuito alla crescita del debito e della corruzion) mentre gli operai della FIAT avevano buoni motivi di credere che Luciano Lama e il PCI se la intendessero direttamente con gli Agnelli alle loro spalle.


Nuove strategie di consenso

Per mantenere l'immensa influenza conquistata in così tanti ambiti della realtà sociale (l'egemonia sopra discussa) la sinistra si rendeva conto perfettamente che la presa ideologica sulla società doveva essere affidata a nuove strategie e che erano anche necessarie nuove forme di "organizzazione di massa" adeguate ad un epoca in cui i consumi e il "tempo libero" caratterizzavano la vita, l'identità, gli orientamenti delle persone più che il lavoro. Così l'ecologia, che era stata disprezzata come "passatempo di ricche dame" (con riferimento a precisi personaggi altolocati del WWF), diventava, quasi di colpo, una risorsa preziosa. Si trattava di operare per sfruttarne l'appeal ecologico (in parte non trascurabile legato al suo presentarsi almeno inizialmente e apparentemente come trasversale alle vecchie ideologie), per imbottigliare il nuovo vino nei vecchi otri.

Bisognava, in ogni caso, per non perdere l'influenza sulla masse, fornire risposte a bisogni e inquietudini individuali ma anche influenzare la traiettoria dei movimenti collettivi che si muovevano nel caleindoscopio ecologista e che inizialmente si erano mossi su binari al di fuori del controllo del partito (il WWF era inizialmente di ispirazione "moderata" mentre i primi gruppi ecologisti “politici” erano ispirati alla "nuova sinistra"). Era necessario prendere le redini o quanto meno controllare sia i movimenti più politicizzati (antinucleare) che quelli spontanei contro le discariche, o altre specifiche aggressioni al territorio portate da insediamenti industriali, opere pubbliche.

La presenza, allora abbondante, di un "eccesso di militanza" sia per il disgregarsi di movimenti organizzati che sotto forma di diffusa insoddisfazione e incertezza (23) ma anche, più prosaicamente nella forma di personale politico alla ricerca di mezzi per sbarcare il lunario. La ancor ampia diffusione di culture politiche "rivoluzionarie" nella fraseologia, ma sempre più inclini a rifluire nell'alveo della "bottega principale", rappresentarono ottime opportunità per il PCI per prendere due piccioni con una fava: aggiogare il nascende ambientalismo al carro della sinistra e accrescere il controllo su quanto restava alla sua sinistra. Queste condizioni favorevoli, legate all'esaurisrsi dell'onda lunga del '68, non potevano durare per sempre. Bisognava approfittarne. E così fu.



Un'occasione molto favorevole era costituita dal riflusso dei "movimenti" alla fine degli stessi anni '70. In quegli anni si esaurì (l'ultima fiammata fu il "movimento del '77") l'onda lunga del '68. Accompagnata dal tragico epilogo degli anni di piombo e della sconfitta del terrorismo rosso (tra il '76 e il '77 i componenti della banda Baader-Meinhof vennero "suicidati" in carcere, nel '78 l'omicidio Moro segnò l'apice ma anche inizio della fine delle BR in Italia). In Germania Rudi Dutschke, Joschka Fischer,  Cohn-Bendit leader sessantottini,diedero vita o confluirono nel movimento dei "Verdi", lo stesso avvenne in Italia dove i vari "reduci" dei gruppi extraparlamentari (Lotta continua, Potere operaio, Movimento Studentesco, Avanguardia operaia): Alexander Langer, Marco Boato, Luigi Manconi, Edo Ronchi, Franco Calamida, Emilio Molinari, Mario Capanna ecc. ecc.

Il "riflusso nel privato" (o in quelle che i realtà erano nuove dimensioni dell'azione collettiva) incalzava e il "movimentismo" avrebbe potuto prendere nuove direzioni. Si agitavano infatti nuovi fermenti che la sinistra aveva per una lunga fase storica esorcizzati ma che ora riemergevano con vigore.

Con l'indebolirsi delle contrapposizioni ideologiche riguadagnava terreno quello che veniva spregiativamente e sommariamante definito "localismo". Le identità collettive o recuperavano riferimenti che la modernità aveva cercato di cancellare come indicava il risorgere in quegli anni di una lunga serie conflitti regionalisti e etnonazionali (24)

Il "localismo", che la sinistra declinava ostinatamente sempre e solo in termini negativi, percependo come una minaccia per le sue impostazioni centralizzatici e stataliste, emergeva sorprendentemente anche in contesti in cui le rivendicazioni “classiche” etnonazionali o etnolinguistiche erano assenti. In Germania le spinte "localiste", così come altre che si coagulavano in un forte movimento oppositivo, vennero tenute insieme nel movimento Verde che, nonostante gli apporti della sinistra, è stato capace di costruire un'identità e una cultura parzialmente distinte dalla sinistra stessa. In altri paesi i movimenti anticentralisti erano (e sono) apertamente sostenuti dalla sinistra (Catalonia)

L'emergere del "localismo" alla fine degli anni '80, grazie all'egemonia delle cultura di sinistra venne abilmente indirizzato sui binari morti dell'inconcludente esperienza leghista impedendo che potesse evolvere in modo positivo e collegarsi con altri movimenti.

Il "cordone sanitario" steso per impedire il "contagio" grazie alla presa sul "ceto medio intellettuale di massa" ha impedito l'apporto al movimento localista di risorse indispensabili al costagularsi di una credibile "classe politica". Gli estemporanei apporti intellettuali non hanno potuto modificare la realtà di una fragilissima direzione politica, del tutto inadeguata per spessore culturale e morale che, nel vuoto di elaborazione, l'ha indotta ad applicare il calco della formula anacronistica del partito “pesante”.

Caratterizzata da un esasperato tatticismo, zavorrata da un'organizzazione pesante e poco efficiente, priva di coerenza strategica e del tutto di analisi sociale (in un'epoca in cui la politica "pura" conta e spiega sempre di meno), la Lega è caduta senza difficoltà nelle trappole della demagogia e delle derive xenofobe garantendo così un suo incapsulamento ed evitando qualsiasi saldatura con il movimento che stava timidamente crescendo, connotandosi in senso sociale ed ecologico, sui temi della salvaguardia del territorio, della lotta alla nocività ambientale, alla cementificazione.



Mantenere i movimenti sul terreno della salvaguardia del territorio nell'alveo dell'ambientalismo istituzionalizzato egemonizzato dalla sinistra da una parte e il "localismo" nel ghetto del "populismo di destra" ha rappresentato un ottimo risultato per un sistema di potere che si rende perfettamente conto che, con la scomparsa delle precedenti fratture sociali ed ideologiche, l'elemento di ricomposizione locale, i processi di ri-localizzazione e di ricomposizione comunitaria, di coalizione sociale contro le nuove forme di struttamento, rappresentano un elemento rivoluzionario o quantomeno di innesco di processi di resistenza sociale.

Al disinteresse del movimento “autonomista” (in realtà altalenante tra blando federalismo e verboso indipendentismo) per i temi ecologici è corrisposto il disinteresse del movimento ambientalista italiano per le istanze localiste (25). A dimostrazione dell'allergia per tutto quanto sa di movimenti dal basso a base territoriale l'ambientalismo istituzionalizzato, condizionato da una cultura statalista mediata dall'influenza della sinistra, non ha minimamente preso in considerazione gli interessantissimi spunti del bioregionalismo, sviluppatisi negli Usa sin dagli anni '70 (26).

Una Rete bioregionale (27) in realtà esiste anche in Italia, per quanto solo solo da una decina di anni, ma essa si pone al di fuori delle correnti principali e rifacendosi semmai al filone dell'ecologia profonda (che in Italia non ha molto seguito). Il bioregionalismo ha comunque attirato l'interesse di personalità fuori dagli schemi ideologici tradizionali come Giannozzo Pucci, l'editore fiorentino che ha pubblicato per primo le opere di Edward Goldsmith, Vandana Shiva, Wendel Berry, Masanobu Fukuoka e altri "mostri sacri" dell'ecologismo e dell'agricoltura naturale. Pucci ha partecipato con entusiasmo all'inizio del movimento "Verde" (è stato anche eletto consigliere comunale a Firenze). Un altro personaggio influenzato dal bioregionalismo è Eduardo Zarelli, fondatore delle Edizioni Arianna (28). Zarelli da anni indica la necessità di una "ecologia sociale" sulla scorta del lavoro del pioniere di questa corrente, l'anarco-municipalista-libertario americano Murray Bookchin (29).

Il bioregionalismo in questo senso rappresenta un elemento di congiunzione tra ecologia sociale ed ecologia profonda. L'apparente contraddizione tra i due termini in realtà non esiste dal momento che l'ecologia sociale (e il bioregionalismo) non intrerpretano lo sviluppo umano e sociale indissolubilmente legato alla crescita della sfera materiale (come nella prospettiva del capitalismo e della sinistra) ma in termini di ricchezza di relazioni interumane e di armonia tra l'uomo e le altre componenti della comunità terrestre, anteponendo alla felicità del piacere e del possesso quella della virtù, di senso di partecipazione e di devozione al bene comune. Tutte cose che fanno inorridire la sinistra e gridare all'oscurantismo spiritualista reazionario, alle tenebre tribali di una dimensione pre-moderna.

(2 - continua)

 

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Note

17. J.L. Laville (1998) L'economia solidale. Bollati Boringhieri, Torino.

18. Marx ha trattato il tema del lumpenproletariat nel "18 brumaio" K. Marx (1991) Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, Editori Riuniti, Roma

19. K. Marx (19754) Il Manifesto del partito comunista, p 114 Einaudi, Torino 1974.

20. Il mito dell'egemonia, però, ha rappresentato (e rappresenta) l'ossessione della sinistra doc, un vero mito fondante. Ne è un esempioun peraltro bell'articolo del Manifesto del 18 luglio (InsertoL'Italia che va, p. 1 Un nuovo immaginario per il dopo-crisi). A conclusione del pezzo è riportata un'analisi del tutto condivisibilecirca il nuovo ruolo dei piccoli centri, dei "borghi addormentati". C'è da rallegrarsi che proprio il Manifesto,simbolo di una sinistra particolarmente urbanocentrica ed intellettualistica, si accorga che l'era dell'idiotismo ruralemarxiano è finita. Come non essere d'accordo poi quando si sostiene che: "... mostrare che il tracollo culturale dei partiti nonesaurisce non trascina con sé la dimensione dell'agire politico costituisce oggi una pedagogia preziosa, antidoto indispensabile alladelusione, al disimpegno, alla disperazione di milioni di persone." Poi, però, arriva un richiamo stonato e appiccicato al "patriottismo di sinistra" che non può fare a meno del mito dell'egemoniacome "cifra" della sinistra italiana che, pur diraggiungere il potere ha messo tra parentesi il marxismo ("la sovrastruttura ideologica è determinata dalla sottostante struttura economica e dai rapporti di produzione"). Dopo un'altro spunto un po' vago ma ancora condivisibile spunta ancora fuori la mitica "egemonia": "... attraverso la ricognizione su tanti casi dispersi si alimentano nuova cultura della possibilità di cui abbiamo bisogno, si può indicare, per frammenti, l'alternativa possibile, il mondo che vogliamo nel suofarsi immateriale quotidiano. È una delle strade per mostrare di quali nuove parole singoli narrazioni, e fatto l'immaginario dellasinistra. Un immaginario che oggi, di fronte allo scacco del capitale, può pretendere di diventare egemonico". Come si vede un ulteriore "salto di qualità". Dall'egemonia acquisita attraverso l'influenza sulla sovrastruttura (apparati culturali, educativi, mediatici, produzione artistica) ora è l'immaginario che diventa egemonico. Dall'idealismo gramsciano al surrealismo. Pensare che sia "l'immaginario della sinistra"ampiamente e consensualmente saccheggiato dal postmodernismo capitalista a costituire un'alternativa allo "smacco del capitale" è francamente ridicolo.

21. S. Tosi (2006) Dai consumi alla politica in: Consumi e partecipazione politica. Tra azione invividuale e mobilitazione collettiva, Franco Angeli, Milano, 15-53.

22. m“L’individualismo spinge, infatti, i giovani a preferire forme di impegno politico in cui possano conservare il controllo e l’autonomia della propria azione e, di conseguenza, a tenersi alla larga dalle gerarchie e dalle logiche burocratiche tipiche degli apparati di partito. Le preferenze giovanili vanno verso una modalità di impegno nei movimenti oppure legate al mondo dell’associazionismo civico. Agli occhi dei giovani, che sono poi la parte più consistente della loro membership, i movimenti permettono una maggiore spontaneità ed una più significativa autonomia nel coinvolgimento politico”. (E. Caniglia - Impegno politico giovanile: verso una definizione concettuale, Il Dubbio, rivista di critica sociale, Anno III, Numero 1, 2002

(http://spazioinwind.libero.it/ildubbio/numero1_02/caniglia.html

23. Pizzorno, A. (1978): Political exchange and collective identity in industrial conflict. En C. Crouch y A. Pizzorno (eds.): The resurgence of class conflict in Western Europe, vol 2. Macmilan: Londra.

24. A.D. Smith, Il revival etnico, Bologna , Il Mulino, 1984

25. M. Corti. Autonomismo come esigenza ecologica Estratto da: Forum padano‐alpino (Bollettino dellʹAss. culturale padano‐alpina) n 4 Ottobre 1998, pp.7‐9. http://www.ruralpini.it/file/Ruralismo/Materiali%20ruralisti/Bioregionalismo.pdf

26. http://retebioregionale.ilcannocchiale.it/http://retebioregionale.ilcannocchiale.it/

27. F. Kirkpatrik Sale, Le regioni della natura, Elèuthera, Milano, 1991.

28. Arianna ha pubblicato nel 1998 una raccolta di scritti di ispirazione bioregionalista di autori italiani (AA.VV. Verso casa. Una prospettiva bioregionalista, Arianna, Colecchio di Reno (BO), 1998. Da segnalare anche l'interesse della Macro Edizioni di Cesena (nella quele Arianna è oggi confluita) per il tema che nel 1994 ha pubblicato una raccolta bioregionalista (AA.VV. Macroregione. Nuova dimensione per l'umanità).

29. M. Bookchin (1986) L'ecologia della libertà. Emergenza e dissoluzione della gerarchia, Elèuthera, Milano; M. Bookchin (1989) Per una società ecologica, Eleuthera, Milano

 

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