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(02.01.13) Ripensare la relazione tra la natura e la società

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(02.12.2012) Continuavano a chiamarlo  NIMBY

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(14.03.12) Modernizzazione ecologica: legittimazione dei rischi e della tecnocrazia

Dietro l'ecobusiness degli Ogm, delle "rinnovabili" insostenibili c'è la teoria e il programma politico della modernizzazione ecologica. L'estremo tentativo dell'industrialismo e del potere tecnoscientifico di evitare di fare i conti con i limiti dello sviluppo e con la crisi della modernità. Con forti pericoli per la democrazia e per l'ambiente stesso sottoposti al controllo di una governance autoritaria e tecnocratica alla cui legittimazione concorre in modo subalterno anche il mainstream del movimento ambientalista istituzionalizzato. Che diventa controparte dei movimenti locali per la salute, contro la tossicità ambientale, per la difesa del cibo e dell'agricoltura  leggi tutto

 







 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

(31.10.13) Le proteste contro le opere inutili, lo spreco di territorio, la gestione affaristica dei rifiuti, una politica energetica che non riduce le combustioni e penalizza il ricliclo si stanno saldando in un nuovo movimento


No biomasse

per un'ecologia sociale


di Michele Corti


ll movimento contro le biomasse all'interno del nuovo panorama dei movimenti per la difesa della salute e del territorio ha molti connotati del nuovo movimento per l'ecologia sociale. Supera divisioni ideologiche e unisce trasversalmente gruppi sociali e territori. Sposta al di fuori dei tradizionali ambiti urbani la scena dei movimenti e costringe l'ambientalismo istituzionalizzato a smascherare il suo ruolo a supporto del sistema.

La valutazione delle implicazioni ambientali delle scelte socioeconomiche ha assunto un ruolo sempre più importante, sempre più condizionante nei confronti dei decisori politici ma anche dell'opinione pubblica, indotta ad esprimere il proprio consenso nei confronti di politiche, tecnologie, prodotti “ecologicamente corretti”. Con il rischio che le patenti green diventino nuovi strumenti di manipolazione e di inganno.
 I gruppi industriali e finanziari hanno appreso precocemente ad utilizzare il "green washing”, concesso da un ambientalismo compiacente, per legittimare scelte in grado di rafforzare il proprio potere. Ne è discesa anche una teorizzazione sofisticata che indica nel paradigma della “modernizzazione ecologica” le possibilità di ristrutturazione del sistema tecnoindustriale coniugando tutela ambientale e profitto.
Tutto ciò non serve solo la smorzare la carica di critica sociale ma spinge anche all'adozione di soluzioni per evitare la “catastrofe climatica” che a spesso non consentono reali vantaggi ambientali ma rilanciano settori industriali bolsi, aprono nuovi lucrosi mercati sostenendo il tasso di profitto e creando nuovi equilibri economici a svantaggio di gruppi con meno potere. 
Inutile sottolineare come altre emergenze ambientali - altrattanto gravi rispetto al cambiamento climatico - non siano contrastate con altrettanta determinazione. L'estensione delle "acque morte" a causa dell'inquinamento trasportato agli estuari di grandi fiumi, la perdita sempre più rapida di specie animali e vegetali, l'inquinamento sempre più pervasivo degli esseri viventi e delle catene alimentari con composti tossici persistenti ad azione tossica e di interferenti endocrini, la perdita di fertilità dei suoli sono emergenze altrettanto gravi del riscaldamento globale ma il loro contrasto metterebbe in discussione i fondamenti del sistema industriale e consumista. Meglio concentrarsi sui bilanci di CO2, spesso dei veri e propri giochi di prestigio e imbrogli "scientifici" ma tali da consentire di benedire come "ecologiche" soluzioni che sono pesantemente impattanti sulle matrici ambientali e sugli esseri viventi. Bilanci che il sistema ha imparato a mercificare disinvoltamente (vedi il traffico dei "crediti di carbonio" che copre la distruzione di habitat ricchi di diversità in ambienti tropicali - ricchi ma fragili - con "compensazioni" ridicole rappresentate da neoboschi di zone temperate poveri di biodiversità). Il modello dei "crediti di carbonio" è perfetto per il business verde: incassi dove distruggi, incassi dove "compensi". 
Crediti per la perdita della salute, la perdita della biodiversità , la perdita della fertilità della terra non sono previsti.
La logica dei "bilanci dei gas serra" si spinge anbche ad aggravare l'inquinamento. Nella Pianura padana la priorità dovrebbe essere quella di ridurre le combustioni, le emissioni di particolato, ossidi di azoto e di zolfo, composti organici volatili. Invece con la scusa di presunti "risparmi" di CO2 i cittadini pagano in bolletta gli incentivi per l'energia elettrica prodotta in modo inefficiente e inquinante con le biomasse, pagano con la loro salute (e con i tiket sanitari), pagano con le tasse le multe che la UE impone all'Italia per la violazione delle norme anti smog. Se c'è un'ecologia antisociale è proprio questa che isola strumentalmente un problema dal contesto locale e dall'insieme del danno complessivo che il sistema tecnoindustriale causa agli ecosistemi del pianeta e avvelena e impoverisce gli strati sociali deboli con la green economy.




Le "rinnovabili" come modello di convergenza tra ambientalismo e gruppi industriali e finanziari

Su questo terreno si è realizzata la convergenza tra il movimento ambientalista istituzionalizzato (Legambiente in primo luogo ma anche WWF e Green Peace) e gli apparati finanziari, scientifici e industriali all'insegna della greed economy. 
 Un terreno specifico, che ha consentito ampie convergenze di interessi, è senz'altro quello delle cosiddette “energie rinnovabili”. Presentate come una stringente necessità, ai fini del raggiungimento dei target previsti dal protocollo di Kyoto per la riduzione delle emissioni di gas climalteranti, le “rinnovabili” sono diventate un vero far west per la speculazione finanziaria (dai vecchi gruppi del capitalismo relazionale, ormai allontanatosi dalla dimensione manifatturiera, alle coop, a giocatori di borsa e magliari improvvisati di ogni estrazione) facendo dell'Italia un terreno di conquista dell'industria estera (tedesca ma anche cinese) senza una precisa strategia che sincronizzasse l'erogazione di incentivi per la produzione si energia rinnovabile (o presunta tale) e dinamiche di ricerca e sviluppo con il risultato di compromettere anche quei settori tecnologicamente avanzati (nel campo dello sfruttamento dlel'energia solare) . 
 Grazie ad incentivi enormemente superiori alla media europea e a procedure autorizzative super semplificate e velocizzate degli impianti (si tratta di opere che - se approvate - vengono spregiudicatamente classificate “di pubblica utilità, urgenti e indifferibili”). Il risultato è uno scandaloso squilibrio tra super-profitti privati e costi sociali, scaricati sulle comunità locali e sull'insieme degli utenti elettrici a fronte di risparmi scarsi, se non nulli, di energia fossile e di emissioni. Ciò mentre sul fronte del risparmio e dell'efficienza energetica si fa molto poco per il solo fatto che si dovrebbero incentivare famiglie, piccole imprese, operatori diffusi.



L'ambientalismo

L'ideologia ambientalista impegnata a supporto della “modernizzazione ecologica” continua a riciclare il proto-conservazionismo ottocentesco, l'ideologia nord-americana della wilderness, perseguendo la tutela di singoli siti (“santuari” della natura) e di singole specie “carismatiche”.
Ne discendono politiche che incidono negativamente sulle comunità rurali di ogni continente e che favoriscono lo spopolamento e la concentrazione nelle aree urbanizzate, che minano economie autosufficienti e realmente sostenibili in nome di una ideologia antiumanista che arriva spesso a una vera idolatria per la “natura selvaggia”.  Un'ideologia dove  il carattere egoistico, autoritario, tecnocratico delle “politiche della natura” rimane però celato e chi contesta che viene stigmatizzato come “oscurantista” e “antiscientifico”. In questo ambientalismo la matrice sociale ed ideologica è sempre quella del privilegio sociale (basti ricordare il ruolo di spicco nel WWF dei principi Bernardo d'Olanda e Filippo d'Inghilterra e di personaggi legati all''establishment e desiderosi di mantenere attraverso i "Parchi" una forma di controllo sui paesi ex-coloniali). Ma essa è ora ben mimetizzata anche perché, con l'obiettivo di coprire ogni ambito dell'ambientalismo Legambiente ha in qualche modo fatto concorrenza al WWF sullo terreno stesso del "conservazionismo", della gestione delle "oasi" e delle "riserve" e la partecipazione del WWF al movimento antinucleare ha in qualche modo "sgodanata" come "democratica e progressista" un'associazione nata tra l'èlite dell'alta borghesia e dell'aristocrazia e che i primi "ecologisti politici" degli anni '70 bollavano come "di destra".
  In realtà la matrice antidemocratica dell'ambientalismo è sempre presente. Il trucco per svolgere il suo ruolo di supporto al sistema sociale dominante senza apertamente mostrare il carattere antipopolare consiste nell'aver inventato e poi istituzionalizzato un ruolo di “rappresentanza dell'ambiente”, ovvero di un concetto astratto e al di fuori della sfera sociale. Ma siccome l'azione dell'ambientalismo si svolge sul piano sociale alla fine è impossibile che possa agire al di fuori degli interessi di una parte o dell'altra della società.
In ogni caso l'ambiente è un soggetto che non esiste e che comunque è del tutto muto, incapace di contraddire i suoi “rappresentanti”. Agire in nome dell'ambiente è come agire in nome della "giustizia sociale". Dal momento che cosa è buono o cattivo per la "giustizia sociale" o l'"ambiente" lo decidono gli autonominati rappresentanti (che diventano autoreferenziali) diventa ovvia la contraddizione tra questi movimnti e la democrazia. In realtà l'ambientalismo è autentico erede del giacobinismo (che interpretava "la volontà della nazione"). Basti osservare l'atteggiamento di sospetto per tutto ciò che è lasciato alla decisione delle comunità locali, la palese predilezione dell'ambientalismo per i meccanismi deliberativi affidati alle valutazioni dell'expertise scientifico, l'empatia con le amministrazioni e gli organi centrali dello stato e degli organismi sovranazionali.
 L'ambientalismo “di regime” rappresenta un alibi per il sistema tecnoindustriale (che raggiunge il vertice dell'ipocrisia quando grandi gruppi industriali sponsorizzano le “oasi” del WWF”), un fattore di stabilizzazione sociale fornendo legittimazione al potere economico, un grimaldello ideologico utile a giustificare l'attacco alle comunità locali, alle comunità rurali tradizionali e - in generale – a ridimensionare e relativizzare il valore etico della persona umana e a ridurre i bisogni umani a variabile dipendente. E' anche un potente fattore di controllo sociale dal momento che solo le azioni o le proteste riconosciute "a valenza ambientale" dall'ambientalismo istituzionale hanno una legittimità, un imprimatur che evita loro lo stigma di Nimby. 

Il movimento dal basso

A fronte di questo ambientalismo si registra l'emergenza nei paesi ricchi, in quelli emergenti e in quelli poveri di movimenti ecologici grass roots, legati alla difesa delle sementi locali, contro il land grabbing, il dominio delle multinazionali, le monocolture insostenibili (specie quelle energetiche), la creazione di circuiti "alternativi" di produzione e distribuzione dei prodotti alimentari. 
 Si tratta di un'ecologia democratica (in senso etimologico) e sociale che emerge anche nei movimenti locali contro la nocività ambientale, la gestione affaristica dei rifiuti che alimenta cicli di combustione e di allargamento della produzione dei rifiuti stessi, la realizzazione di grandi opere a forte impatto (infrastrutture di trasporto com la Tav, centrali energetiche) ma anche contro l'uso massivo di pesticidi in comprensori di agricoltura specializzata e intensiva (melo, vite). Un'ecologia sociale che si riallaccia - ma solo per certi versi - all'ecologia politica degli anni '80 nata sull'onda del movimento antnuclearista e delle lotte in fabbrica contro la nocività (imposte al sindacato, spesso attardato alla monetizzazione in busta paga della salute, dalla base operaia). Nella grande svolta degli anni '80 con la perdita di centralità della fabbrica e l'avvento della tarda modernità i condizionamenti ideologici dell'ecologia politica ne misero a nudo la debolezza tanto che i protagonisti di quella stagione si ritrovarono dopo pochi anni inseriti nei consigli di amministrazione di grandi società responsabili di sfruttamento e di inquinamento.
 I nuovi movimenti dell'ecologia sociale sviluppano la loro critica radicale al modello di sviluppo dominante al di fuori di schemi ideologici, attraverso la loro azione. Si tratta di movimenti che solo la malafede può definire “egoistici” (NIMBY) dal momento che l'opposizione si accompagna a motivazioni che riguardano scelte complessive delle politiche di gestione dei rifiuti e dell'energia che rimandano a modelli di consumo improntati alla sobrietà, alla riduzione dell'usa e getta, degli inutili imballaggi, degli inutili trasporti (acqua minerale lombarda in centro Italia e viceversa). 
Che contestano la scelta della combustione dei rifiuti (con il recupero lucroso di energia elettrica incentivata). Che pongono il problema dei costi umani di una crescita fine a sé stessa sostenuta dall'ideologia liberista.
 Questi movimenti – spesso contrastati proprio dell'ambientalismo istituzionale - pongono il problema ambientale in modo concreto e a partire dalle comunità locali, della qualità dell'aria respirata, dell'acqua, del cibo, della ricostituzione di relazioni socioeconomiche locali virtuose quali premessa di una realtà locale vitale in grado di ridurre dipendenza economica e imposizione di impatti ambientali. Il rapporto tra tutela dell'ambiente, democrazia (partecipazione) e autonomia è quindi ribaltato rispetto al giacobinismo, al dirigismo,  al tecnocratismo verde.




Un movimento che non dice solo no
 
A smentire le comode interpretazione di una “esclusiva dimensione oppositiva” vale la pena ricordare come queste esperienze (anche in Italia) si fanno protagoniste, a proprie spese, di un monitoraggio ambientale capillare che supplisce le colpevoli carenze del sistema di controllo ambientale degli enti istituzionali e la sempre più palese crisi dei sistemi di conoscenza “esperti” e scientifici (vedasi caso Taranto dove solo dopo le analisi eseguite autonomamente e l'accumulo di dati da parte delle associazioni le istituzioni preposte hanno riconosciuto la gravità della situazione). 
Le conoscenze “popolari” legate alla capacità di percezione delle relazioni ambientali che si instaurano in un territorio a seguito di interventi dall'esterno hanno poi dimostrato di essere in grado di individuare i rischi più precocemente delle strutture scientifiche. In un mondo in rapida trasformazione, fortemente interconnesso e sempre più complesso la scienza nata con la modernità ha oggi bisogno di troppo tempo per accumulare evidenze empiriche dei nessi tra cause ed effetti. 
Questa dimensione conoscitiva può dialogare costruttivamente con la scienza solo che quest'ultima scenda da un piedistallo sul quale non ha ragione si stare. Il tutto nel quadro di un più estesa applicazione del principio di precauzione e di una gestione partecipata, democratica e comunitaria dei controlli ambientali, della valutazione dei rischi e nella elaborazione delle soluzioni ai problemi ambientali.
Il rafforzamanento di queste esperienze di ecologia sociale è condizionato alla loro capacità di reagire alla crisi ecologica a quella economica a quella di caduta verticale della capacità della politica di rappresentare il bene comune e delle istituzioni di mediare tra gli interessi sociali. Una reazione che per essere efficace deve fornire risposte su tutti e tre i piani: ecologico, economico-produttivo, politico-istituzionale.
Nella Grecia ridotta alla miseria è con l'economia informale e con la crescita di reti di solidarietà e di assistenza al di fuori delle istituzioni, sottratte ai diktat delle politiche europee che la società trova opportunità di sopravvivenza. Ma è anche sottraendo le istituzioni di base (i comuni) alla dipendenza gerarchica e accenduandone il ruolo di istituzioni comunitarie permeabili alle istanze dal basso di partecipazione attiva rispetto a quello burocratico-amministrativo, di propaggine dello stato (quello svuotato di sovranità e il super stato europeo). 
Risolvere in ambito locale problemi di produzione e distruzione dell'energia, del cibo, di gestione del rifiuto nell'ottica di valorizzazione delle risorse endogene e del capitale umano staccandosi dalle mega reti e dai sistemi planetari significa creare occupazione e ridurre dipendenza e impatti ambientali. Lo stesso nel campo dei servizi sociali, educativi, culturali dove l'autogestione e la flessibilità di una gestione comunitaria consentono di scongelare risorse umane e materiali fuori dalla rigidità degli schemi burocratici. Senza incrementare il PIL ma migliorando il grado di benessere reale.


Il servizio di commenti cui ci affidavamo è cessato improvvisamente. Ci scusiamo con i lettori per l'inconveniente che non dipende da noi. Presto avvieremo un nuovo sistema.



 

 

 

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