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Politica

Michele Corti, 11 luglio, 2022

La rivolta olandese: deve pagare il contadino le conseguenze di un sistema che gli è stato imposto?

Ha sorpreso molti la violenza delle proteste contadine al piano del governo che intende "tagliare" animali e aziende per limitare l'impatto delle emissioni azotate degli allevamenti sull aree protette. Per prima cosa viene da chiedersi come mai un governo si muova solo ora, quando la UE gli impone di rispettare  le "aree Natura" 2000 dopo che per anni l'Olanda era stata messa sotto accusa sia per il mancato rispetto delle norme sull'azoto che sul fosforo. I danni di bilancio fortemente eccedentario di azoto e fosforo dell'agrozootecnia olandese sono noti da decenni. Ma le regole che dovevano limitarlo, basate su correzioni tecnologiche del sistema, non sono state sufficienti. Nel frattempo l'Olanda ha continuato ad aumentare l'export di carne e latticini: l'assurdità di un piccolo paese con una grande urbanizzazione e con terreni molto fragili (molti sono sabbiosi, limosi, con falda superficiale) che è al primo posto in Europa per esportazione di carne.  Sono state le "regole europee" , scritte sin da quando vi era il MEC e l'Olanda dettava legge, che hanno favorito la superproduzione dei Paesi Bassi che è ottenuta con grandi input di mangimi (le materie prime arrivano a Rotterdam a costi ridotti rispetto al resto di Europa) e di fertilizzanti (350 kg di N/ha, primato europeo), aggiunti a un'abbondante produzione di liquame anche per concimare i prati. Ipocrita l'Europa, ipocrita il governo olandese.  I contadini sono stati indirizzati dal mercato, dalle loro organizzazioni, dalla ricerca applicata e consulenza tecnica. Ora pagano solo loro con una "sforbiciata" che punta a ridurre animali e allevamenti, con pesanti nuovi adempimenti per "modernizzare" le stalle. E, giustamente, si ribellano. Il sospetto è che il "giro di vite" alla zootecnia arrivi quando la grande finanza sta puntando sul finto latte e la finta carne.


L'Olanda è il primo esportatore di carne in Europa (60% del valore della produzione è legato all'export di carne bovina, suina ed avicola) 8,8 miliardi di € . Il comparto lattiero vale 7,8 miliardi di esportazioni (2/3 del prodotto è esportato). Un sistema efficiente basato sulla forza commerciale del paese, sui suoi porti, su una rete di trasporti che è la più densa d'Europa e collega l'Olanda ai paesi vicini (Belgio e Germania principalmente) che inonda con i suoi prodotti zootecnici. Aggiungasi i primati nella genetica animale, nella produzione di attrezzature zootecniche, la presenza dei migliori centri di ricerca in campo agrario d'Europa. Le leggi dell'economia (in barba alle sacrosate considerazioni amientali), e non pochi "aiutini" da parte dell'Europa (che ha messo in piedi un sistema di regole modellato sull'agroindustria olandese, un paese dove funzionano solo tre gigantesche latterie cooperative), hanno determinato l'ipertrofia della zootecnia olandese. Tra i paesi della UE, l'Olanda è quella con la maggiore densità zootecnica (3,5 UBA/ha con ua media europea di 0,8). Quando gli aninal-amientalisti annuncianno triofanti che l'Olanda vuole tagliare il 30% della zootecnia si guardano bene dal segnalare che il caso olandes. Sino a trent'anni fa, in ogni caso, tutto andava (apparentemente) bene, delle conseguenze ambientali non ci si preoccupava. Ai tempi della fissazione delle quote latte l'Olanda si aggiudicò una quota superiore a quello che produceva. Alla rimozione delle quote latte, la zootecnia olandese ha conosciuto un ulteriore balzo di produzione e nel 2006 è riuscita ad ottenere una deroga alla Direttiva Nitrati per continuare a superare i limiti di 180 kg di N/ha sui terreni non vulnerabili (derogato a 250 kg). La produzione di latte olandese è di 13 t /ha (quasi il doppio di quella tedesca). Nel 2016 la UE aveva bocciato il piano olandese di riduzione del fosforo che prevedeva un sistema di "permessi di emissione".

La crisi attuale non rappresenta certo un fulmine a ciel sereno. E' bene infatti ricordare che l’Olanda aveva già intrapreso una riduzione delle emissioni di NH3 ponendosi come obiettivo, per il 2005 il taglio del 70% rispetto ai livelli del 1980. Il grosso della riduzione, come vedremo oltre, è avvenuto grazie all'interramento dei liquami (viola nell'istogramma sopra). Il contributo delle emissioni totali di ammoniaca legato allo spandimento è sceso dal 65% al 40%. Molto più limitata la riduzione delle perdite dai ricoveri (blu in basso nell'istogramma) che oggi contano al 50% che sono il principale bersaglio delle misure contestate. Nel 2019, una sentenza del Consiglio di Stato aveva sostenuto che la strategia del governo olandese per la riduzione dell'azoto in eccesso che consentiva delle misure di "compensazione" (l'allevatore olandese poteva adeguare solo una parte dei ricoveri esistenti e compensare la mancata riduzione dell'ammoniaca applicando le BAT  - le migliori tecniche disponibili - ad altri fabbricati), violava le direttive dell'Ue sulla protezione degli habitat vulnerabili. 

Un po' strana questa crociata contro le mucche in nome delle aree Natura 2000

Quello che lascia perplessi è che, a fronte di un problema che è fortemente discusso da decenni, non si sia operato in tempo per consentire un adeguamento non traumatico alla necessità di contenimento delle emissioni e non si vogliano percorrere strade alternative (che pure esistono come vedremo oltre). Le emissioni azotate danneggiano in ogni caso anche le aree "non protette" (attraverso i danni delle piogge acide ai materiali e la formazione del PM2,5). La correlazione tra incidenza di Covid19  grado di ospedalizzazione e cattiva qualità dell'aria è stata messa in evidenza da uno studio olandese, vedi: M.A Cole,  C. Ozgen, E. , Air Pollution Exposure and Covid-19 in Dutch Municipalities, in "Environ Resour Econ (Dordr)" (2020) 76, n. 4, pp 581-610. Sono peraltro ben note le correlazioni tra polveri sottili e vari tipi di patologie e, ciò che conta, la diminuzione della durata della vita in salute nelle aree più inquinate dell'Olanda e della pianura padana ( -2 anni di vita sana). Nel 2017 la UE ha ratificato la convenzione di Goteborg (che risale nella versione originale al 1999). La convenzione mira a contrastare sul piano degli effetti a distanza le emissioni inquinanti in atmosfera imponendo massimi di emissione per ciascun stato. Sulla qualità dell'aria la UE aveva già adottato le direttive 2008/50/CE e 2004/107/CE. Di fronte all'insieme delle normative che dovrebbero favorire il miglioramento della qualità dell'aria non si può non rilevare come esse risultino largamente disattese, e non solo in Olanda  (l'Italia, nonostante le salate multe comminate per violazione delle direttive consente l'autorizzazione di nuove fonti inquinanti anche nel bacino padano che è, con l'Olanda, l'area più inquinata d'Europa). Appare quindi singolare che la crisi olandese sia precipitata in modo drammatico solo a fronte dell'esigenza di proteggere dall'eutrofizzazione e dall'acidificazione del terreno le aree natura 2000.

L'ammoniaca è indubbiamente legata alla presenza massiccia di insediamenti zootecnici

Come si può osservare dalla figura sotto, la distribuzione della concentrazione di ammoniaca nell'aria (e le conseguenti deposizioni a terra) sono tutt'altro che uniformemente distribuite. Non solo in Olanda si concentra un patrimonio zootecnico considerevole ma esso si distribuisce male. Gli impatti sono legati alla concentrazione degli allevamenti perché per la maggior parte localizzati e quelli delle aziende di un territorio si cumulano. Tante piccole aziende distriuite darebbero impatti limitati.
Il problema non riguarda solo l'Olanda basti pensare che il 46% del latte italiano si produce in Lombardia.

Sopra: concentrazione di ammoniaca nell'aria. La maggior parte delle emissioni ricade in un raggio di qualche centinaio di m, ma vi sono anche delle componenti di trasporto a lunga distanza (con ricadute a centinaia di km).


Nella figura sopra la distribuzione delle deposizioni di azoto al suolo. Una mole di azoto equivale a 28 g, quindi 1000 m = 28 kg. 3500 m = quasi 100 kg di azoto, una concimazione che consente una buona produzione di frumento tenero. Grave è anche la situazione per il fosforo che, come è noto, provoca eutrofizzazione.


La zootecnia olandese contribuisce per il 41% alle emissioni di ammoniaca. Il piano di riduzione prevede tagli massimi del 95% nelle aree con maggiori emissioni. Una cura da cavallo. Per garantire che le emissioni agricole vengano ridotte di almeno 10.000 tonnellate entro il 2030, il governo olandese ha stabilito norme più rigorose per quanto riguarda l'uso di fertilizzanti ("Besluit gebruik meststoffen") e stabulazione ("Besluit emissiearme huisvesting"). Si pensa che gli agricoltori senza prospettive di ricambio aziendale o con impossibilità di espansione, di fronte al costo del rifacimento o adeguamento dei fabbricati gettino la spugna. Se non lo faranno entreranno in azione misure coercitive. E si prospetta un conflitto sociale acuto.


Il problema a monte è il bilancio dell'azoto

Focalizzarsi solo sulle emissioni di ammoniaca (dalle stalle, dalle vasche dei liquami, in fase di spandimento) è riduttivo. Il problema è il bilancio dell'azoto, ovvero quanto entra nel sistema (azienda, insieme territoriale di aziende) e quanto esce. In un sistema in equilibrio le emissioni inquinanti sono minime. Solo l'isteria pseudoambientalista può far credere che l'agricoltura animale sia inquinante in sé (ovviamente agli interessi della finanza, al WEF, torna comodo così). Oltre all'ammoniaca che si perde nell'aria vi sono altre "uscite" di azoto che causano impatti ambientali: i nitrati, innanzitutto, che inquinano le falde e rendono l'acqua non potabile, l'ossido di diazoto, potente gas serra. In realtà il bilancio non si ferma ai cancelli dell'azienda. L'azoto esportato come carne e latticini che fine fa? E' consumato dalle persone. Ma dal momento che oggi consumiamo molto di più di quello che ci serve per il nostro mantenimento, eliminiamo una grande quantità di azoto con le nostre deiezioni. E' azoto (vale anche per il fosforo) che non sparisce ma viene immesso nell'ambiente. Se consumassimo quello che ci serve avremmo un bilancio azotato pari a zero. Un tempo il ciclo era chiuso: feci e urine umane erano raccolte e riutilizzate come fertilizzante. Oggi i depuratori sprecano (utilizzando, oltretutto, energia)  l'azoto degli scarichi civili immettendolo in atmosfera; poi le industrie dei fertilizzanti, con un enorme consumo di energia, devono riprenderlo dall'atmosfera per sintetizzare l'ammoniaca. Il tutto in chiave economica crea ricchezza, contribuisce al PIL, in chiave di economia ambientale rappresenta uno spreco folle di energia.



Da cosa è rotto l'equilibrio rispetto al passato, quando non c'era alcun eccesso di azoto? Dall'acquisto di fertilizzanti azotati e di mangimi e nuclei proteici dall'esterno dell'azienda per "spingere" la produzione, per alimentare molti più animali rispetto a quelli che il fondo consentirebbe di mantenere. Dalla circolarità si è passati a un sistema "aperto". Ma al grande flusso in entrata e in uscita sono associate grandi perdite.  Dal punto di vista economico, quando l'energia fossile costava poco, il sistema spinto era, a suo modo, efficiente. Che importava se un sacco di azoto finiva in atmosfera come NH3 e N2O e altrettanto come NO3 nelle falde acquifere? Costava poco, in termini monetari, reintegrare con i concimi chimici, i mangimi proteici, i nuclei, la soia tutte le perdite di un sistema colabrodo.  Si riusciva a produrre molto più latte per unità di superficie e per unità di lavoro; tutti incitavano l'allevatore a farlo. Così la produzione è aumentata e il prezzo del latte è crollato. Di conseguenza le stalle si sono dovute ingrandire, le vacche hanno dovuto produrre più latte per ottenere lo stesso reddito di prima.  L'industria ha potuto disporre di materie prime a prezzo vile in modo che tutta la catena a valle si è potuta spartire valore aggiunto. Anche il consumatore ha guadagnato, ma solo in apparenza, perché soddisfatti i consumi alimentari a basso costo, l'industria gli ha offerto prodotti "firmati", novità tecnologiche e gadget vari, sempre nuovi e più o meno utili che, alla loro apparizione, vengono fatti pagare salati consentendo alti profitti. Alla fine anche al consumatore restano tante cose inutili e di rapida obsolescenza e le tasche vuote. Tutta quella proteina animale a basso costo si traduceva anche in danni alla salute dei consumatori e spese mediche a carico degli stessi e dello stato. Un bilancio catastrofico ma non registrato da nessuna parte.
Dal punto di vista dell'economia della materia (che alla lunga poi va incidere anche sull'economia del PIL) le cose sono ben diverse. Il latte, in Olanda, si produceva nel 1950 con un'efficienza dell'uso dell'azoto del 46% (da confrontare con il 100% dell'efficienza del sistema precedente all'introduzione dei concimi chimici, dove gli input erano pari a zero e quindi il poco che si produceva era con un'efficienza del 100%). Va tenuto conto che un sistema pre-industriale può comunque esportare i suoi prodotti fuori dell'azienda perché vi sono comunque degli input naturali gratuiti dall'esterno (oltre al riciclo dell'azoto apportato con il letame e i residui colturali): la fissazione dell'azoto atmosferico da parte di organismi azotofissatori (simbiontici o meno), l'azoto deposto dall'atmosfera (per effetto dei temporali, anche se - una volta - erano pochi kg/anno/ha). Negli anni  '80 la situazione era arrivata a un punto di massima gravità: l'uso allegro dei concentrati, dei concimi chimici, lo spandimento in superficie dei reflui zootecnici aveva determinato un surplus di azoto per ettaro pazzesco.





Tagliare aziende, imporre costosi adeguamenti tecnologici o ... fare alla contadina?


Nel 1991 è entrato in vigore in Olanda un divieto di spargimento superficiale del letame, rendendo obbligatorio l'inserimento del letame nel terreno direttamente o subito dopo l'applicazione. Questa misura non è stata priva di effetti dal momento che, tra il 1980 e il 1995Negli stessi anni è diventato obbligatorio coprire con teli o altro le vasche di stoccaggio del liquame. Dal 2013 le aziende devono limitare le emissioni di ammoniaca dai ricoveri per gli animali significa che i fabbricati devono rispettare i limiti di emissioni prescritti dalla RAV  (Regeling Ammoniak en Veehouderij, the Ammonia and Husbandry Regulation). Il dibattito sulle misure per ridurre le emissioni azotate (e di fosforo) delle aziende zootecniche ha prodotto in Olanda una profonda riflessione sui sistemi produttivi che ha portato il sociologo rurale Jan Dowe Van der Ploeg a studiare i differenti stili produttivi delle aziende zootecniche da latte olandesi e le loro prestazioni economiche e ambientali. Le aziende che non hanno seguito il paradigma della modernizzazione (subalterna) adottando le attrezzature e i metodi più aggiornati (e costosi) messi a disposizione dalle industrie, incarnano lo stile di produzione "economico". Sono le aziende che utilizzano macchine usate, sono rimaste legate a una importante quota di reimpieghi aziendali e a fattori di produzione tradizionali come le razze bovine autoctone. Uno studio, riferito al 1998, che confrontava un'azienda "economica" con 80 aziende convenzionali diede i seguenti risultati:


La tabella sopra riportata è tratta da: J.D Van Der Ploeg (2000) Revitalizing Agriculture: Farming Economically as Starting Ground for Rural Development in "Sociologia ruralis", 40, n. 4, pp. 497-511

Notiamo innanzitutto che non basta definire il grado di intensificazione produttiva in base al parametro animali/superficie (Uba/ha). Da questo riguardo le aziende erano uguali.  Quello che differenziava l'azienda Hoeksma  era l'allevamento della frisona originale, quella che era ben conosciuta anche nella pianura padana (dove qualche soggetto era ancora presente nelle stalle 30-40 anni fa). Era la "Olandese" o "Pezzata nera", una vacca molto più "raccolta" rispetto alla Holstein, bassotta, larga, a "duplice attitudine". Eppure, in un'azienda famigliare essa può dare un reddito maggiore di una vacca Holstein . Oggi non pochi sono disposti ad accettarlo ma vent'anni fa questa conclusione era un'eresia.

La minor produttività in termini di produzione lattea nell'azienda Hoesksma era compensata da alcune entrate addizionali che nelle aziende convenzionali sono molto basse. La minor specializzazione della Frisona originale rispetto alla Holstein si traduce in una migliore qualità del latte (titoli di grasso e proteine), fertilità e in una migliore conformazione (e resa al macello) con il risultato che la produzione della carne è maggiore e anche il suo prezzo. Nell’azienda c’era anche tempo per dedicarsi a dei lavori artigianali ed essa partecipa a diversi programmi agroambientali. Ciò che fa la differenza sono anche le minori spese, non solo per i mangimi ma anche per il veterinario e per i farmaci. Nell'azienda della famiglia Hoesksma, come si nota nella Tabella, le spese veterinarie erano contenute a quasi della metà. Essa, inoltre, acquistava meno concimi chimici, mangimi e foraggi e faceva molto meno ricorso al lavoro salariato. L'azienda manteneva il carattere contadino e famigliare intraprendente e conservatore al tempo stesso (l'essenza della saggezza contadina), capace anche di mantenere l'estetica tradizionale e gradevole delle aziende contadine (un valore che si considera poco ma che influenza la produzione di esternalità, basti pensare al contributo al paesaggio e all'attrattività turistica di molte stalle del fondovalle valtellinese - capannoni prefabbricati in cemento armato uguali a quelli industriali - con le stalle tirolesi). L'azienda Hoeksma era anche capace, però, di avvantaggiarsi di quelle misure agroambientali che, ai tempi, i farmer "produttivisti" snobbavano (anche in Italia). Nel mentre le emissioni di fosforo erano ridotte della metà e quelle azotate di più di un terzo, dal punto di vista economico il compenso lavoro famigliare dell’azienda “economica” risultava nettamente superiore nonostante la maggior intensità di lavoro.

Successivi studi condotti in Olanda confrontando diverse strategie di riduzione delle emissioni azotate hanno fornito indicazioni controverse. Non è semplice valutare le interazioni tra sistemi di spandimento, qualità del liquame, tipo di suolo e vi è, inoltre, il fattore di lungo periodo (l'aumento di fertilità) che viene sottovalutato in esperimenti di breve durata che tengono conto di parcelle sperimentali e non del sistema aziendale nel suo complesso. Il risultato è che il mainstream a livello di ricerca applicata, consulenza, regolamentazione continua a spingere per soluzioni tecnologiche che comportano investimenti in attrezzature e fabbricati (chissà come mai?) piuttosto che mettere in discussione il sistema  high input - high output (elevate produzioni ottenute con elevati livelli di mezzi tecnici acquistati sul mercato). Anche oggi si discute di ridurre il numero di capi e di aziende, non di ridurre l'intensificazione produttiva. Eppure, come abbiamo discusso qui su Ruralpini di recente (vai all'articolo), con l'aumento dei costi dell'energia, dei fertilizzanti, dei mangimi, i rapporti economici sono destinati a cambiare radicalmente.

L'azienda si trova ancora più ingessata invece di poter affrontare i problemi economici ed ecologici con flessibilità e autonomia

Le soluzioni che rendono l'azienda più autonoma, meno esposta alle fluttuazioni del mercato dei mezzi tecnici, meno dipendente da forme di assistenza e manutenzione specialistica (imposte dalle attrezzature sofisticate), da schemi rigidi che comportano soluzioni obbligate una volta che ci si colloca su un determinato livello di intensificazione produttiva  (razza allevata - razione alimentare - tipologia di fabbricati - ordinamento colturale - tipo di attrezzature - uso o meno del pascolo - foraggiamento verde). Le normative anti-inquinamento tendono a ingessare ancora di più questi modelli imponendo, per legge, alcune soluzioni tecniche che vincolano anche le altre componenti del sistema aziendale. Jan Dowe Van der Ploeg (foto sotto) nei suoi lavori ha contestato come il regime socio-tecnico dominante impedisca di valorizzare le capacità sottili dell'agricoltore di adattare i suoi sistemi aziendali al tipo di terreno, alla storia pregressa dell'azienda, alle risorse specifiche dell'azienda e del territorio, alle stesse condizioni sociali ed economiche locali.

 

Al di là della necessità di ridurre la fertilizzazione con concimi chimici (imposta dalle normative) la via alternativa per ridurre costi e inquinamento è rappresentata da un nuovo approccio alla produzione di foraggio e al razionamento della vacca da latte. Gli agronomi e gli alimentaristi hanno sempre insistito, facendo forza sulla pratica contadina,  sul taglio precoce del foraggio al fine di massimizzare il contenuto in proteina digeribile. Ma per ridurre l'escrezione azotata è indispensabile abbassare le proteine nel foraggio, nella razione, nelle deiezioni. Si deve quindi ottenere più sostanza secca senza paura di aumentare la fibra nella razione sfruttando al meglio la capacità ruminale. Solo così il rapporto tra il Carbonio e l'Azoto nei reflui zootecnici tenderà a migliorare.  I reflui "migliorati" non solo presentano minor contenuto di azoto ma anche una maggior quota di azoto organico che è meno suscettibile a essere perso per volatilizzazione e lisciviazione nelle acque restando disponibile più a lungo nel terreno pr le piante (e quindi per l'alimentazione del bestiame). Un liquame con miglior rapporto C/N favorisce l'aumento di sostanza organica nel terreno con tutti gli effetti positivi che comporta, effetti che comportano migliore capacità di ritenzione idrica, migliore sviluppo dell'apparato radicale delle piante, migliore assorbimento da parte delle radici e maggiore produzione di foraggio. Il punto debole della protesta degli allevatori olandesi è che difendono uno status quo che li vede in una posizione debole e che accettano inn larga misura che il sistema non possa essere modificato.


Un "vero" caseificio senza mucche

Mentre in Olanda esplode la protesta degli allevatori, a Kalundborg, nella vicina Danimarca, la start up israeliana Remilk, sta creando su 70 mila mq una fabbrica di latte artificiale ottenuto da lieviti geneticamente modificati. Che non producono latte, ci mancherebbe, ma delle proteine simili a quelle del latte. Ovviamente tutto il resto (zuccheri, grassi, vitamine, minerali) deve essere aggiunto. Un alimento sintetico che, come tutti gli alimenti sintetici, ha dei costi energetici molto elevati e che, ovviamente non avrà mai le proprietà nutrizionali del latte ricco di componenti bioattivi in larga misura ancora sconosciuti. Solo le ben orchestrate campagne di criminalizzazione della zootecnia quale massima responsabile delle catastrofi ambientali e le altrettanto en orchestrate campagne animaliste che prendono di mira situazioni limite, possono convincere conn l'aiuto dei media menzogneri (espressione di quelli stessi interessi finanziari che stanno scommettendo sul cibo artificiale prodotto nelle fabbriche). Che dietro le start-up ci siano i colossi americani di internet è noto. Il modo grossolano con il quale la lobby del cibo artificiale manovra l'opinione, più o meno organizzata, vegana e animal-ambientalista lo illustra un articolo "scientifico" che propone come soluzione al problema delle emissioni dei gas serra nientemeno che l'annullamento di ogni attività di allevamento animale a fini agroalimentari. L'articolo è uscito il 1 febbraio 2022 sulla rivista Plos Climate e ha per titolo Rapid global phaseout of animal agriculture has the potential to stabilize greenhouse gas levels for 30 years and offset 68 percent of CO2 emissions this century (La rapida eliminazione globale dell'agricoltura animale ha il potenziale per stabilizzare i livelli di gas serra per 30 anni e compensare il 68% delle emissioni di CO2 di questo secolo). Gli autori sono Michael B. Eisen, Patrick O. Brown. Patrick Brown è il fondatore e CEO di Impossible Foods, un'azienda che sviluppa alternative agli animali nella produzione alimentare (nota per l'hamburgher impossibile). Michael Eisen è un consulente di Impossible Foods. Entrambi sono azionisti della società e quindi trarranno vantaggio finanziario dalla riduzione dell'agricoltura animale. La rivista Plos climate è edita dalla Alliance of Bioversity International and International Center for Tropical Agriculture, Colombia, un'organizzazione globale di ricerca per lo sviluppo che fornisce prove scientifiche, pratiche di gestione e opzioni politiche per utilizzare e salvaguardare la biodiversità. Sponsorizzata dall'Unione Europea, dalla Cina, dalla Fao, dalla Banca Mondiale da un sacco di istituzioni politiche e di ricerca, dalla Dupont, Syngenta, Bill Gates, Pepsico, Walmart. Plos climate non applica l'Impact factor (valutazione delle riviste sulla base delle citazioni a certificazione - sia pure imperfetta - dell'influenza dei loro contenuti ) che valuta il rango delle riviste scientifiche e, come si vede, dichiara il conflitto di interesse ma non ne tiene conto. Il risultato è che la campagna vegan-animal-ambientalista potrà sostenere che l'abolizione di ogni allevamento animale da reddito in tutto il mondo è una delle "soluzioni" ai problemi del pianeta. E' allora è casuale la coincidenza tra la linea dura di Rutte sull'ammoniaca da allevamenti in Olanda e il battage a favore del business del finto latte? Crediamo proprio di no. E se l'Olanda è il caso limite c'è da ritenere che la guerra agli allevatori, prima costretti ad applicare sistemi che hanno favorito l'industria e il commercio e ora accusati, sparando nel mucchio,  di ogni delitto ecologico.

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(31/07/2021) In tutto il mondo è in atto un attacco, di forza e dimensioni inedite, alla dimensione rurale, ma -  in prospettiva - anche quelle stesse componenti agroindustriali che apparivano parte subalterna del sistema  egemonizzato dalle multinazionali. Sotto la spinta, incentivata dalla pandemia, al "nuovo ordine mondiale", al great reset, la triste sorte, in passato riservata ai contadini, alle comunità rurali, al piccolo commercio e all'artigianato, viene prefigurata anche per chi pareva avere le spalle grosse, per le filiere che parevano ben inserite nel main stream, non solo economico e politico ma anche ideologico. Ancora oggi vediamo componenti del mondo agricolo difendere, come fosse una propria risorsa vitale, quella chimica che le tiene legate a un sistema di multinazionali che sta pianificando un futuro post-agricolo. Di fronte a uno scenario inedito, anche gli interessi rurali devono ridefinire strategie e alleanze. Cruciale è il rapporto agricoltura-ruralità, un rapporto in gran parte spezzato con l'adesione agricola al produttivismo di marca industriale, con le campagne ridotte a lande desolate livellate al laser e a deserti di biodiversità con le monocolture, con l'affermarsi di una separazione netta tra produzione agricola, residenza e svolgimento di altre attività (caccia, pesca, turismo, sport). leggi tutto


Agricoltura obsoleta. Poi tocca all'uomo

(31/05/2021) Michele Corti - L'esaltazione delle vertical farm non riflette solo l'idolatria tecnologica e la sempre rinnovata necessità di creare nuove "bolle" facendo leva sulle parole d'ordine del momento. C'è qualcosa di peggio, la palese volontà da parte del capitalismo di sostituire il più possibile l'agricoltura con la produzione di cibo senza il ricorso alla terra. Che deve essere lasciata alla wilderness, come vogliono gli ambientalisti  leggi tutto

Dall'agricoltura i rimedi per l'ambiente

(17/05/2021) Michele Corti - Le "ricette" ambientaliste vanno nel senso opposto a quello di un'ecologia che pone al centro delle sue preoccupazioni e delle sue strategie quella sottile, ma cruciale "epidermide" del pianeta che è il suolo. La rigenerazione del suolo agrario (40% delle superfici emerse che diventano 68% se si considerano forme di allevamento molto estensive) à una chiave di volta, attraverso strategie di distacco dal paradigma agroindustriale, per la salute della terra, delle acque, dell'aria. La "rinaturalizzazione", la forestazione dei pascoli rappresentano errori ecologici che si spiegano solo con l'interesse del sistema industriale a sottrarre completamente la produzione di cibo all'agricoltura, a produrre cibi artificiali.

Quando l'ambientalismo fa male all'ambiente

(07/07/2020) Michele Corti - Con l'abbandono di ampie superfici a una "rinaturalizzazione" non gestita, con il crollo verticale delle attività di contadini, pastori, boscaioli che assicuravano il controllo degli incendi, la regimazione delle acque, i tanti piccoli interventi capillari di sistemazione in seguito a eventi calamitosi, gli effetti dei fenomeni estremi saranno sempre più gravi. Fino a che, forse, se ne accorgeranno anche gli ambientalisti da salotto che tifano per una wildness ideologica che cancella realtà tradizionali a misura di ambiente e di biodiversità, basati su agroecosistemi centrati sulla rinnovabilità delle risorse



Montagna-rinaturalizzare-o-ripopolare.html

Rinaturalizzazione o ripopolamento della montagna?

(07/01/2020) Antonio Carminati - Dal punto di osservazione della sua valle Imagna, un territorio di montagna intensamente antropizzato, Antonio Carminati affronta, con un secondo intervento, il problema della politica di spopolamento della montagna. Una politica cammuffata con l'ipocrisia pseudoecologica del "rewilding" e gabellata come riparazione della natura e risanamento dell'ambiente. Ai fautori di queste politiche non si deve consentire di operare la pulizia etnica della montagna contrabbandandola come operazione ecobuonista. Vanno costretti a gettare la maschera.



L'ambigua cultura del bosco

(30/03/2019) Michele Corti - Come tutte le suggestioni ambigue, anche il richiamo apparentemente innocente all'amore per il bosco &rgrave capace di suscitare un consenso manipolato per finalità pericolose. Specie dove, come in Italia, una cultura popolare del bosco e della natura non esiste ed esistono, semmai, delle suggestioni letterarie e delle ideologie di importazione. Il pericolo, nella concretezza dell'oggi, è quello che il vago ambientalismo, che si nutre di stereotipi, come quelli forestalisti, non verificati alla luce dell'ecologia, venga sfruttato per legittimare il progetto neoliberale di mercificazione e controllo di estesi territori, attaverso la loro deantropizzazione e deruralizzazione.



Idolatria boschiva. Cosa c'&grave dietro?

(24/03/2019) Michele Corti - La superficie forestale ha superato nel 2018 quella agricola, rappresenta il 40% del territorio nazionale contro l'11% del 1950. L'Italia è dunque un paese ricco di boschi (di che qualità?) e gli ambientalisti da salotto (ma anche tanti esperti con il paraocchi) giubilano. Il 21 marzo era la giornata mondiale della foresta (e noi trogloditi che pensavamo fosse quella della primavera!) e Repubblica ha usato toni particolarmente enfatici nel commentare il sorpasso delle foreste sull'agricoltura, tanto da salutare questa riforestazione come una "rivincita della natura", caricando il tutto di messaggi ideologici.