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RINATURALIZZAZIONE O RIPOPOLAMENTO DELLA MONTAGNA?



Dal punto di osservazione della sua valle Imagna, un territorio di montagna intensamente antropizzato, Antonio Carminati affronta, con un secondo intervento, il problema della politica di spopolamento della montagna. Una politica cammuffata con l'ipocrisia pseudoecologica del "rewilding" e gabellata come riparazione della natura e risanamento dell'ambiente. Ai fautori di queste politiche non si deve consentire di operare la pulizia etnica della montagna contrabbandandola come operazione ecobuonista. Vanno costretti a gettare la maschera.    




di Antonio Carminati


(07.01.29) La questione della “rinaturalizzazione”, appena accennata nel precedente post (vai a vedere qui), ha fatto incontrare diverse posizioni, attraverso il dibattito in rete che ne è scaturito. L’equivoco di fondo è il preteso sillogismo tra rinaturalizzazione e risanamento dell’ambiente, quando, invece, un concetto è la negazione dell’altro.

I contributi al dibattito sullo spopolamento della montagna

Terre alte: tra falsi risparmi e veri sprechi  (05.01.20)

L'esodo culturale uccide la montagna  (21.12.19)

Un giovane si interroga sul futuro della montagna  (13.12.19) 

 Mi vengono i brividi al solo pensiero che “rinaturalizzare” possa anche solo lontanamente significare riportare alle condizioni naturali piccole o estese aree rurali che nei secoli scorsi sono state molto modificate dall’opera dell’uomo. Non stiamo parlando di aria fritta, se pensiamo che c’è stato persino chi ha teorizzato la pratica (Rewilding) che prevede di ripristinare ampi ecosistemi reintroducendo grandi carnivori o erbivori, per poi lasciare fare alla natura il proprio corso. Una natura per così dire “liberata” dalla presenza e dall’azione dell’uomo. Del resto, la realtà che abbiamo di fronte non è proprio entusiasmante e diversi segnali vanno in quella direzione, se pensiamo con quanta facilità si accetti l’abbandono delle terre e degli insediamenti rurali e, nel contempo, si favorisca la comparsa nelle vallate alpine di animali pericolosi, come il lupo e l’orso, attesi e difesi da alcuni settori, quelli più integralisti, di un certo ambientalismo militante cittadino.

L'abbandono dei terrazzamenti culturali e le situazioni di degrado ambientale
Dapprima diverse aree rurali sono state “svuotate” dei loro contenuti originari autentici, sottraendo molta forza lavoro con il mito del denaro e del salario garantito in fabbrica, come pure dei migliori e comodi servizi in città; è stato allentato quel rapporto atavico della popolazione con la propria terra, che improvvisamente ha perso la centralità nell’economia sociale e solidale delle famiglie, quindi è stata dispersa, abbandonata, frammentata in mille rivoli sino a diventare quasi inutile e insignificante per l’esercizio di attività agricole. La montagna è diventata terra di conquista, serbatoio di forza lavoro, ora anche preteso “parco cittadino” o ambito privilegiato per nuove sperimentazioni naturalistiche. Quanti atteggiamenti rinunciatari abbiamo sotto gli occhi, anche da parte di coloro che vivono la montagna e che dovrebbero difenderla, sollecitati da forze esterne a trascurare o a travisare la propria storia! Una montagna “misurata” e considerata quale utile spazio insediativo solo in funzione della forza dei numeri e del sostenimento della relazione costi-ricavi. Diminuiscono i bambini? Chiudiamo le scuole. Le contrade si spopolano? Cancelliamo i piccoli Comuni dalla carta geografica. Mancano i denari? Interrompiamo i servizi. Del resto i circa quindicimila abitanti del bacino idrografico della Valle Imagna potrebbero tranquillamente trasferirsi in un quartiere cittadino. Così la valle sarebbe più facilmente rinaturalizzata e i suoi abitanti vivere tranquillamente, con grossi risparmi economici e sociali, alla periferia della dimensione cittadina dei servizi. Come una riserva dei nativi della montagna. E chi si ostina a continuare ad abitare le terre alte, si arrangi. Peggio per lui. Sarà destinato a soccombere. Davvero una triste prospettiva. Ho volutamente estremizzato il paradosso per sollevare e mettere bene in evidenza la questione, significando che tra i due estremi - rinaturalizzazione e ripopolamento – si collocano diverse posizioni intermedie, le quali fanno propendere l’ago della bilancia di qua o di là.

L'ingresso nella corte della contrada Roncaglia (prima che si insediasse la Locanda gestita da Sara e Robi)
Chiudere, fondere, creare grossi centri scolastici, bancari, istituzionali, di consumo nei supermercati,… sembrano essere le parole d’ordine al giorno d’oggi, dimenticando che la montagna è sempre stata, per antonomasia, il luogo dei piccoli numeri: piccole scuole, piccoli Comuni, piccole botteghe, piccoli laboratori artigianali, piccoli allevamenti,… con prevalenza delle attività di servizio, rispetto a quelle tipiche della produzione intensiva. La montagna è stata così nei secoli e noi, oggi, abbiamo la pretesa di decodificarla e governarla con strumenti che non le sono congeniali, utilizzando ad esempio gli standard strutturali e gestionali dei servizi propri degli ambienti cittadini o delle grosse concentrazioni urbane. Ci sono evidenti situazioni di squilibrio sociale ed economico che non possono essere trascurate, come pure abitudini, stili di vita, esigenze ambientali di interesse generale che richiedono uno sforzo particolare di comprensione, per uscire dagli stereotipi delle velleità egualitariastiche. Come pure non si possono dimenticare o sottacere le grandi lezioni di autonomia e di libertà che la montagna ha saputo costruire nei secoli scorsi, le quali rappresentano tuttora straordinari esempi di democrazia, dove il potere popolare è stato esercitato in forma quasi diretta, come è stato ad esempio nel processo di formazione degli antichi insediamenti umani e di costituzione delle regole e degli usi civici nelle vicìnie. Perché nelle piccole comunità alpine e prealpine ci si conosce tutti.

Architettura tradizionale della Valle Imagna e tetti in piode (fotografia di Alfonso Modonesi)
Rinaturalizzare l’ambiente non significa risanarlo, come si vorrebbe far credere, ma abbandonarlo a sé stesso, sottraendo una componente essenziale, anzi determinante, nella costruzione del paesaggio e nella tenuta degli ecosistemi locali: l’uomo. Quell’idea di natura ancora intatta, vergine, quasi primordiale, non esiste se non nella nostra capacità di lettura e comprensione storica dei processi evolutivi della terra e delle sue espressioni anche fisiche nella storia. Le valli alpine e prealpine sono state nei secoli ampiamente antropizzate, vissute e modellate dalla quotidiana presenza di comunità umane, distribuite un po’ dovunque, sia sui versanti che nelle aree di fondovalle, oppure adagiate sulle principali alture: esse, attraverso la costruzione di insediamenti stabili, hanno vissuto e lavorato la terra per secoli e secoli, costruendo balze campive, dissodandola e rendendola coltivabile e fertile, edificando case, stalle e un’infinità di infrastrutture agricole di monte.

Il bacino dell'Alta Valle Imagna visto da Ricudì. Dopo la nevicata del 15 dicembre 2019
Il catino montano della Valle Imagna, chiuso a Nord-ovest (rispetto alla città di Bergamo) dal Resegone, nelle immagini di inizio secolo ci si presenta dinnanzi come un unico esteso versante agricolo terrazzato (nella parte sinistra del bacino idrografico), oppure utilizzato a pascolo e a bosco (nella parte destra del medesimo bacino), caratterizzato dalla presenza di agglomerati rurali (le contrade), distribuiti dai quattrocento ai mille metri di altitudine, e da un’infinità di piccoli edifici sparsi (stalle e cascinali per l’alpeggio), ciascuno dei quali posto a presidio di una porzione di territorio, costituita da una propria “isola colturale” composta da prato, campicello, pascolo e bosco. Unità produttive complete e complesse. Si percepisce a vista d’occhio la presenza capillare dell’uomo, il quale ha saputo governare il proprio ambiente, entrando in comunicazione diretta con esso, attraverso il lavoro quotidiano e le istanze di sostentamento dei gruppi familiari. Questa è la valle nella quale siamo nati, dove i diversi campanili, anche non molto distanti gli uni dagli altri, che svettano da postazioni strategiche e panoramiche, richiamano alla luce le antiche alleanze municipali, costituite da gruppi di famiglie che sono state capaci di rivendicare percorsi di autonomia per la formazione di nuove aggregazioni sociali e la definizione delle appartenenze. Armate di idee e di entusiasmi, più che di numeri. Abbiamo di fronte una particolare geografia sociale ed economica, frutto del millenario processo di radicamento dei gruppi parentali in un contesto ambientale che, nel tempo, ha assunto una valenza identitaria. Che la smettano, dunque, per una ragione storica superiore, i vari detrattori dei campanili, di denunciarne la loro limitatezza, giacché tali manufatti hanno costituito nel passato e rappresentano ancora oggi espressioni avanzate di democrazia e avamposti del governo territoriale. Difendere i campanili non significa essere campanilisti e l’uso improprio e superficiale del vocabolo, per certi versi anche spregiativo, ha inteso denunciare l’atteggiamento di chiusura e quasi retrogrado delle popolazioni della montagna, quando, in realtà, esse si sono da sempre confrontate, attraverso i commerci e l’emigrazione, con il mondo intero, sin dal Medioevo, partecipando attivamente alla costruzione della storia più generale. I campanili hanno rappresentato altrettante bandiere di autonomia, di libertà e di proprietà delle popolazioni della montagna.

Fuipiano Valle Imagna in una mappa del 1737
Attualmente il “disegno” ambientale della valle non è più così chiaro e fulgido come appare nelle vecchie fotografie di inizio Novecento, poiché il bosco avanza a vista d’occhio sino a minacciare l’esistenza delle contrade, dopo avere annullato e già conquistato molte di quelle “isole colturali” sparse di un tempo. Il paesaggio, nel suo complesso, appare meno ordinato, per di più dequalificato sul piano produttivo. Molte contrade, a cominciare da quelle più distanti, sono state abbandonate, i versanti hanno perso le sembianze dei giardini rurali di un tempo, con i vari colori caratterizzati dalle alternanze colturali, mentre le zone di fondovalle hanno subito un intenso sviluppo edilizio, forsennato e senza precedenti nella storia.

Corna Imagna, l'antico nucleo di Regorda di Qua (fotografia di Alfonso Modonesi)
Nel corso dei millenni l’uomo ha vissuto e modellato l’ambiente in relazione alle proprie specifiche istanze di sopravvivenza, un po’ come Dio - perdonatemi l’equiparazione - ha creato l’uomo a sua immagine e somiglianza; oppure come l’evoluzione ha fatto sì che tutti gli organismi viventi, siano essi di natura vegetale che animale, tutt’altro che statici, abbiano subìto un continuo processo di cambiamento. L’uomo fa anch’esso parte, come il lupo e l’orso, di quell’ambito ampio e generale che passa sotto il titolo di “natura”, anzi ne rappresenta forse la componente più sublime: pretendere di isolarlo dai processi di ripensamento del volto dei luoghi e dagli ecosistemi territoriali è davvero un atto criminale. Un crimine contro la natura.

La preparazione dei "corlàs" (roncole) presso le antiche fucine di Locatello (fotografia di Alfonso Modonesi)
Al concetto di “rinaturalizzazione” preferiamo anteporre quelli di “ripopolamento” o di “riumanizzazione” dell’ambiente rurale. Riumanizzare il contesto - già di per sé “umano” - delle nostre valli significa ricondurre “a misura d’uomo” i diversi elementi che compongono il modello abitativo e produttivo locale, abbandonando atteggiamenti stereotipati e ripristinando condizioni abitative e produttive sostenibili, anche mediante l’utilizzo di strumenti moderni e innescando processi creativi. Riponiamo le nostre attese in un nuovo umanesimo rurale in grado di coniugare, sempre in montagna, democrazia e agricoltura (come nell’Antica Roma), qualità della vita e attività rurali, cibo e ambiente, terra e lavoro,… quali elementi fondativi di nuove relazioni di comunità. In sostanza, si tratta di rimettere al centro delle montagne l’uomo, quale protagonista indiscusso di sviluppo e difensore di un ambiente assai prezioso, in grado di “coltivare” non solo beni agro-alimentari ma anche relazioni umane connesse alla propria esistenza, all’accoglienza, alla presenza identitaria, alla costruzione di percorsi innovativi di benessere sociale.

Probabile stemma della famiglia Roncalli scolpito su un'acquasantiera (fotografia di Alfonso Modonesi)
Mi rifiuto di pensare a una valle buia e spopolata, come una grande oasi selvaggia rinaturalizzata, magari ripopolata da lupi e orsi, con buona pace di quei cittadini che vorrebbero avere a disposizione il loro grande “parco avventura”. Come era un tempo: riserva di caccia dei principali feudatari detentori delle terre. Magari con la ricostruzione fedele di un’antica contrada rurale, per far vedere come vivevano quei poveri montanari di un tempo…
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(01.10.11) Montanari dissodatori di ieri, montanari di oggi, montanari futuribili
Giancarlo Maculotti è l'animatore degli Incontri Tra/Montani che la scorsa settimana a Carcoforo (alta Valsesia) sono giunti alla ventiduesima edizione. Le riflessioni che ci consegna a commento del convegno si inseriscono nel dibattito sulla 'chiusura della montagna' innescato dalla serpeggiante proposta di abolizione dei piccoli comuni. Vanno però al di là delle vicende istituzionali vissute in prima persona da Giancarlo in quanto sindaco di Cerveno, un paese di 700 abitanti nella media Valcamonica. Toccano i temi della 'montagna triste', dei giovani che non ci sono o che se ne vanno, della problematica venuta di 'nuovi montanari'. Un contributo disincantato e stimolante  al dibattito che Ruralpini ha aperto su: "La montagna nella crisi"

(27.09.11) La montagna dentro la crisi: verso la desertificazione o un recupero di autonomia e di identità?
I recenti dibattiti sulla chiusura dei piccoli comuni e sui ‘costi’ del mantenimento della popolazione montana impongono una reazione. Se la montagna fosse libera dall’oppressiva regolamentazione burocratica e dai vincoli che le impediscono di valorizzare le proprie risorse (umane, energetiche, faunistiche ecc. ) potrebbe fare a meno del tutto delle elemosina delle istituzioni ‘superiori’.  Riprendere autonomia, capacità di autogestione, identità è, per la montagna, la strada per evitare di divenire un deserto verde e per uscire rafforzata dalla crisi. Ruralpini lancia la proposta di un convegno su questi temi.


(24.05.11) Meno stato più comunità nelle Terre alte
Dalle scuole parentali agli alberghi 'informali' delle 'donne di montagna', ai gruppi di consumo arrivano segnali della volontà delle terre alte alpine di voler tornare a gestirsi sulla base delle mai sopite tradizioni di gestione comunitaria. Lo stato, la burocratizzazione e istituzionalizzazione di ogni aspetto della vita economica e sociale, devono fare un passo indietro. E le terre alte diventeranno un modello vitale. 

 



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