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                        La grande ombra verde. Il richiamo della foresta
  
                          
                        di 
                        Paolo Rumiz 
                          
                        LA REPUBBLICA 
                        DOMENICA, 20 SETTEMBRE 2009  
                          
                        Era 
                        come una lebbra. In pochi anni la boscaglia s’era mangiata 
                        tutto: stalle, alpeggi, pascoli, fienili, praterie, 
                        persino le strade e i sentieri. Quando in autunno tirava 
                        lo scirocco, aceri e frassini si gonfiavano come vele 
                        e, oscillando, scardinavano il terreno con le radici, 
                        facendo entrare la pioggia in profondità. L’acqua non 
                        aveva più freni, le scarpate diventavano colate di fango, 
                        i canali di deflusso saltavano. La montagna intera si 
                        scorticava, mostrava la pelle viva, passava continuamente 
                        dal rischio incendi al rischio alluvione. Non c’erano 
                        dubbi: era l’effetto dell’abbandono, della grande fuga 
                        degli anni Sessanta; l’emigrazione, poi la corsa al 
                        benessere facile in pianura. 
                        Quando 
                        dieci anni fa intere fette di montagna cominciarono 
                        a scivolare verso il lago di Santa Croce, tra Vittorio 
                        Veneto e Belluno, un uomo, Sandro Fullin del paese di 
                        Tambre in Valturcana, decise di fare qualcosa. Chiamò 
                        i capifamiglia, li radunò sotto una quercia - l’albero 
                        totemico dei Cimbri, antichi abitatori dell’altopiano 
                        - e disse: o blocchiamo la foresta o saremo distrutti. 
                        Lanciò un’idea: riportare le pecore negli ultimi pascoli 
                        rimasti. Una volta ce n’erano cinquantamila, poi più 
                        niente. Non pecore qualsiasi, ma quelle nate qui, le 
                        bestie dell’Alpago. Tutti dissero sì, Follin trovò in 
                        Croazia gli ultimi esemplari dell’agnello alpagoto, 
                        li mise su una linea di pascoli recintati, quasi una 
                        linea Maginot contro l’invasore. Oggi la valle non ha 
                        più paura. La frana verde si è fermata. Le acque cominciano 
                        a rientrare a regime. Fullin ha piantato cinquanta chilometri 
                        di recinzioni con le sue mani, e ora vanta un presidio 
                        Slow Food con l’agnello di casa sua. Lui e i suoi sgobbano 
                        quindici ore al giorno, ma hanno vinto la battaglia. 
                        E hanno brevettato un sistema che può essere applicato 
                        ovunque in Europa, fra Carpazi e Pirenei.  
                        «I 
                        pastori bisogna portare in montagna, altro che quei 
                        costosi Canadair che buttano acqua sugli incendi», ghigna 
                        il professor Giorgio Conti, specialista di territorio 
                        alla Ca’ Foscari di Venezia, e racconta di come la foresta 
                        selvaggia stia invadendo l’Italia più di qualsiasi altro 
                        Paese d’Europa. Gli studi più recenti confermano infatti 
                        che la tendenza è in atto un po’ ovunque nel continente: 
                        «l’espansione forestale continuerà in tutta Europa», 
                        si legge nello Stato mondiale delle foreste 2009 diffuso 
                        dalla Fao. Ma il caso del nostro Paese è particolarmente 
                        vistoso. L’ultimo Inventario nazionale delle foreste 
                        segnalava nel 2005 quasi due milioni di ettari di superficie 
                        boschiva più rispetto a venti anni prima. E così la 
                        Liguria - la regione più verde d’Italia in rapporto 
                        alla sua superficie, anche più del Trentino - frana 
                        e brucia perché la giungla ha invaso i terrazzamenti 
                        secolari costruiti dall’uomo. 
                        L’Appennino 
                        tosco-emiliano è diventato terra di cinghiali. Nel Friuli 
                        Venezia Giulia la boscaglia trionfa, al punto che le 
                        vecchie malghe sono crollate sotto l’urto di piante 
                        spaccasassi che fanno l’effetto di bombe di mortaio. 
                        «Se i nostri vecchi uscissero dal cimitero, ci sparerebbero 
                        a vedere come gli abbiamo ridotto la valle» racconta 
                        Sergio De Infanti, guida alpina e albergatore di Ravascletto 
                        in Carnia. Il pascolo è finito, nei paesi intorno ci 
                        saranno si è no dieci vacche contro le duemila di cinquant’anni 
                        fa. Mostra il fronte della foresta che avanza, come 
                        quella terribile di Dunsinane sotto il castello di Macbeth, 
                        prima della battaglia che lo vedrà morire. «La parola 
                        bosco non ha senso, il bosco maturo si forma in secoli, 
                        sempre con l’aiuto dell’uomo. Questa che viene avanti 
                        è boscaglia spontanea, piante in competizione per l’acqua 
                        e il sole che occupano ogni spazio, si rubano nutrimento 
                        a vicenda e distruggono il sottobosco». 
                        Andiamo 
                        su per i prati sul lato nord, sopra il paese. L’unico 
                        spazio disboscato è la pista di sci che scende dallo 
                        Zoncolan. «Ho visto come comincia, d’autunno, quando 
                        arriva il vento dall’Austria. Se il polline è maturo 
                        e secco al punto giusto, si leva una nube gialla che 
                        in un attimo feconda i prati dove non si sfalcia più. 
                        Dopo poco tempo ecco le nuove piante». Mi porta a vedere 
                        una boscaglia cresciuta senza la mano dell’uomo: una 
                        pena. Piante anemiche, asfittiche, magre, stentate. 
                        Per terra non un filo d’erba, una fragola, un mirtillo. 
                        “Ho cominciato a metterci mano, per me è una gioia, 
                        quando tolgo le piante malate sento che il bosco mi 
                        ringrazia”. Parla del suo patto con gli abeti: «Loro 
                        hanno bisogno di me e io ho bisogno di loro». Allude 
                        alla sua caldaia d albergo tutta a legna che gli fa 
                        risparmiare diciassettemila euro di gasolio l’anno. 
                        “La montagna è ricchezza, gli italiani l’hanno dimenticato 
                        per andare a vivere di stenti in città».  
                        Saliamo 
                        a vedere il bosco del vecchio Albino De Crignis, morto 
                        un anno fa. Ha fatto il boscaiolo fino all’ultimo, le 
                        sue cataste sono ancora lì. Entriamo in una cattedrale 
                        di abeti solcata da spade di luce. E’ un altro mondo, 
                        fatto di bellezza e biodiversità. Tra le conifere ecco 
                        felci, noccioli, frassini, faggi, aceri, salici, ontani, 
                        muschi, fragole, e qua e là i rigonfiamenti delle ceppaie 
                        coperte di licheni e mirtilli. 
                        Bombardata 
                        dal mito americano della «natura incontaminata», l’Italia 
                        non sente e non vede l’inselvatichimento che scatena 
                        incendi, spinge in città lupi e cinghiali, minaccia 
                        gli argini a ogni pioggia d’autunno. “Quello che non 
                        si vuoi capire», insiste il professor Conti, «è che 
                        l’uomo è un eco-fattore capace di arricchire il suo 
                        habitat secondo natura e in modo originale». Fa qualche 
                        esempio: il cipresso, icona della Toscana, è stato portato 
                        dall’Iran. Il vino dei francesi l’hanno portato i romani. 
                        Il mais non è padano ma viene dal Messico. La melanzana 
                        è araba, il pomodoro peruviano. “Alpi e Appennini sono 
                        il contrario della natura primigenia. La chiave del 
                        paesaggio sono le radure e i terrazzamenti, e questi 
                        sono il risultato di un compromesso millenario fra uomo 
                        e ambiente. Ora questo si sta perdendo”. Gli ultimi 
                        paradisi sono l’antitesi della cosiddetta «cattedrale 
                        naturale», concetto di per sé aberrante. 
                        Le 
                        praterie del Grappa? Meraviglie artificiali. Le distese 
                        di Asiago dove la mucche pascolano fra le orchidee selvatiche? 
                        Frutto di una guerra senza quartiere contro la sterpaglia. 
                        Gli abeti di sessanta metri del Cadore? Risultato di 
                        una selezione vecchia come la Repubblica di Venezia. 
                        E 
                        che dire delle radure superstiti di Cortina d’Ampezzo, 
                        altrove mangiata dal bosco e dal cemento: anch’esse 
                        conseguenza di un fattore umano, gli usi civici (chiamati 
                        localmente “regole”), dove a intervenire è la comunità 
                        intera con diritti di sfalcio e legnatico,ultima 
                        trincea 
                        contro l’urbanizzazione diffusa. Alla radice di tutto 
                        l’economia intensiva, che ha ucciso il rapporto di interdipendenza 
                        fra montagna e pianura. Le vacche da parmigiano non 
                        vanno più a pascolare nelle malghe appenniniche. I prosciuttifici 
                        di San Daniele non si servono più della scrofa nera 
                        che pascolava lungo la pedemontana friulana. 
                        Le 
                        mandrie bergamasche d’estate non vanno più in quota. 
                        I pastori d’Abruzzo non hanno più tratturi liberi per 
                        transumare. Eppure il futuro dell’economia italiana, 
                        con l’inevitabile crisi 
                        energetica 
                        prossima ventura, è tutto li: nel ripristino di una 
                        cultura “verticale” capace di garantire l’equilibrio 
                        idrogeologico con lo sfalcio, l’energia col legnatico, 
                        il reddito grazie alla carne e alla lana, l’ecologia 
                        attraverso lo smaltimento sul posto del letame. 
                        Guai 
                        chi tocca la foresta, protestano i verdi integralisti. 
                        Ma l’Europa non è l’Amazzonia o l’Indonesia, massacrate 
                        da nuove culture e disboscamenti: da noi gli alberi 
                        dilagano. 
                        In 
                        Germania un sito - www. landschaftswandel.com - mostra 
                        con simulazioni quale sarà, l’avanzata della foresta: 
                        una pestilenza, in termini percentuali, ancora più grave 
                        della cementificazione. In Austria stanno correndo ai 
                        ripari; il Parlamento ha approvato una 
                        legge 
                        che premia chi vive in quota, con aiuti tanto più consistenti 
                        quanto maggiore è l’altitudine. Forse anche noi ne avremmo 
                        bisogno, invece di limitarci a versare ampolle nel fiume 
                        più inquinato del mondo. 
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