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Commenti/L'esempio de l'escolo de Sancto Lucio

 

  

 

 

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Sul tema delle scuole in montagna e dell'esempio costituito da l'escolo de Sancto Lucìo de Coumboscuro vedi anche

 

Scarpe grosse cervello fino

 

dell'amico Giancarlo Maculotti (dirigente scolastico e Autore del libro “Lettera dalla scuola tradita”, Armando, Roma 2008)

 

Tratto da: da Uncem  notizie – N. 2 Febbraio 2009 Periodico mensile Dell’Unione Nazionale Comuni Comunita’ Enti Montani  per gentile concessione dell'autore

 

 L' escolo de Sancto Lucio

 L' escolo de Sancto Lucio (materna)

 Francesco De Sancis

 

Graziadio Isaia Ascoli

 

L' escolo de Sancto Lucio

 

 

 

 

(05.01.10) L' esperienza di una pluriclasse che fa riflettere sul centralismo scolastico, sull' italofonia quale registro unico, sulle gerarchie di valori che premiano le 'grandi opere' e lasciano chiudere le scuole

 

Una 'scuoletta' alpina da mezzo secolo rappresenta  un riferimento culturale internazionale 

 

L'escolo de Sancto Lucìo de Coumboscuro (Valgrana, Cn) da cinquant'anni è un laboratorio di plurilinguismo, di sperimentazione didattica e un modello di relazioni interculturali. Sulla base della valorizzazione della propria specifica identità (nella fattispecie quelle provenzale alpina) e non della rinuncia ad essa come vorrebbe imporre una certa cultura politically correct subalterna al peggior mondialismo.

 

La storia de l'escolo rappresenta qualcosa di esemplare. Intorno a questa esperienza pedagogica, per certi versi parallela a quella di Barbiana,  si è sviluppato -  molto prima dei recenti revival etnici - un movimento di riscoperta e di difesa dell'identità culturale provenzale alpina nelle valli del Piemonte.  L' escolo de Sancto Lucio è stato protagonista dello sviluppo di attività teatrali e di relazioni in campo scolastico e culturale con comunità alpine (ci piace ricordare quella particolarmente importante con Poschiavo). Negli anni l'escolo ha sviluppato anche innumerevoli relazioni  con istituzioni culturali in varie parti del mondo (tra cui una ventina di università) e ha redatto  numerose pubblicazioni. Ora, protagonista la nuova scuola per adulti, è impegnata alla  preparazione  di un grande Dizionario provenzale.

 

Non più scuola statale ma pur sempre scuola pubblica

 

Con le recenti leggi, che hanno introdotto parametri minimi per la formazione delle classi e delle pluriclassi, e con il passaggio di alcuni alunni alle medie non sussistevano più le condizioni per mantenere in vita il plesso scolastico di Coumoscuro. La proposta della Regione Piemonte (Assessorato alla montagna) di sviluppare, a titolo sperimentale, un progetto di teleinsegnamento in collaborazione con il Politecnico di Torino è stata bocciatao all’unanimità dal Collegio Docenti dell'Istituto comprensivo di Caraglio (grosso centro sito in pianura all'imbocco della Val Grana). Di fronte a questa situazione i genitori degli alunni si sono riuniti in Associazione ed hanno istituito, con la collaborazione della Regione Piemonte Assessorato alla Montagna, l' Escolo De Sancto Lucio de Coumboscuro - La Scuola in Provenzale dove, parallelamente alle materie curriculari, si insegna la lingua e la cultura provenzale. In questo modo la scuola non più statale ha mantenuto un riconoscimento ufficiale ed istituzionale. Un precedente di grande significato che, sia pure in un contesto particolarissimo e di sperimentazione, incrina l'equivalenza scuola pubblica = scuola statale affermatosi in Italia un secolo fa, prima con la Legge Daneo Credaro del 4 giugno 1911, n. 407, poi, definitivamente, con la riforma Gentile (Giovanni Gentile era, non va dimenticato, il teorico dello 'stato etico' che pensava che 'Nella scuola lo Stato realizza sé stesso…'). Un programma che almeno ha il vantaggio della chiarezza.

Siamo in un paese che si proclama in fase di transizione dal centralismo al (semi)federalismo ma in molti campi, e quello della scuola è uno di questi, questo processo non si intravede ancora  per quanto il centralismo scolastico sia stato attenuato dall'affermazione dell'autonomia organizzativa e didattica degli istituti.

 

Le spinte per la chiusura delle 'scuolette' si sono fatte più forti

 

 Al di là degli ultimi sviluppi l'esperienza della pluriclasse di Sancto Lucio ha molto da insegnare. Innanzitutto dimostra come una scuola possa essere vitale e favorire l'apertura al mondo dei propri alunni indipendentemente dai numeri. 

Gli ultimi provvedimenti in materia di parametri per la costituzione di plessi scolastici e di classi, entrati in vigore nel 2009, hanno ulteriormente abbassato gli standard. E' vero che è facoltà dei responsabili scolastici locali derogare, in montagna, alla regola del numero minimo di 50 alunni per la formazione di un plesso, ma - nei villaggi alpini - la questione vitale è la stessa formazione delle classi e delle pluriclassi. Anche se in montagna il numero minimo di alunni è di 12 (più basso di quello di 15 stabilito in via ordinaria) esso è stato pur sempre elevato rispetto a quello di 10 già in vigore prima dell'ultima riforma. Per quanto riguarda le pluriclassi il numero minimo di alunni è stato innalzato da 6 a 8. La prima domanda che ci si pone è:  perché una questione come il numero minimo di alunni non deve essere lasciata alla competenza degli enti locali? Innanzitutto le realtà demografiche e insediative, come è ben noto, sono molto diverse e poi perché una comunità locale non può essere libera di dedicare le proprie risorse al mantenimento di una scuola se questa - al di là dei numeri - è riconosciuta come un elemento vitale per la comunità stessa? E' vero che in certi contesti il mantenimento a tutti i costi di una scuoletta può tradursi in una situazione asfittica, con conseguenze negative per gli alunni e senza riscontri positivi per la comunità ma, in certe condizioni, ciò può essere evitato e persino ribaltato. A Sancto Lucio arrivano con programmi di scambio alunni da scuole francesi, piemontesi, lombarde, svizzere e gli alunni del'escolo frequentano regolarmente classi francesi e si recano spesso presso le altre realtà di con le quali sono in atto programmi di scambio. L'apertura al plurilinguismo, alle altre culture e realtà è senz'altro maggiore che nel caso degli alunni dei villaggi di montagna trasportati con gli scuola-bus e inseriti nelle classi dei centri di fondovalle. Qui  lo stile di vita si è omologato a quello simil-urbano e gli alunni di montagna, che sono comunque inseriti in un contesto famigliare che mantiene rapporti con la realtà rurale e la cultura alpina, rischiano di essere etichettati come 'montagnini'. Ben diverso sarebbe se, sulla base dello sviluppo di adeguati programmi, in grado di portarli ad apprezzare la 'diversità' della montagna, gli alunni 'del piano' e delle città frequentassero per alcuni periodi  le 'scuolette' alpine.

 

Le scuole si chiudono anche perché le comunità non credono più in sé stesse

 

Al di là dei parametri imposti dalle norme ministeriali è doveroso ricordare come la chiusura delle scuole di montagna avviene anche per impulsi 'interni' alle comunità che, in larga misura, interagiscono negativamente con le scelte 'istituzionali'. Il passaggio alle pluriclassi, in mancanza del numero minimo di 12 alunni prescritto, comporta il timore da parte dei genitori di una penalizzazione dei propri figli in termini di standard di apprendimento. Questo è uno dei motivi per i quali i genitori, anche sobbarcandosi l'onere del trasporto, a volte 'sottraggono' i figli alle scuole locali ancora aperte e li portano a frequentare le scuole dei centri maggiori. Questo 'esodo scolastico' si verifica anche dove sono ancora attive le classi da parte di alunni i cui genitori, pensando alla scuola secondaria e all'università, pensano che la formazione offerta dalla scuola locale possa rappresentare un handicap per il curriculum successivo dei figli che spesso li porterà a studiare e poi a lavorare lontano.

Un fenomeno che interessa spesso famiglie di recente insediamento e che costringere a mettere in guardia contro i facili entusiasmi di un certo 'neoruralismo' che non risolve, se non in parte, i problemi di sopravvivenza delle piccole comunità alpine dal momento che la continuità dell'insediamento deve misurarsi con il problema della 'seconda generazione' . A questi fenomeni di 'esodo scolastico' corrisponde, in alcuni casi, anche il trasferimento dell'intera famiglia che, almeno per il periodo invernale quando i collegamenti diventano difficili, preferisce scendere nelle località a valle dove sono presenti gli istituti scolastici. Un trasferimento che da stagionale rischia poi di divenire definitivo. Sono tutti fenomeni che mettono in evidenza come la scuola possa rappresentare un elemento di rafforzamento della comunità, della sua coesione, della sua identità, ma anche di  disgregazione quando si affermano la scelta, individuale o collettiva, di far frequentare ai ragazzi le scuole - anche quella primaria - in località più grandi. Una comunità senza la scuola primaria è una comunità dimezzata, una comunità destinata a morire.

 

Identità e lingua

 

L'esperienza di Sancto Lucìo è quella di un recupero di una identità basata in larga misura sulla lingua. Il riconoscimento per le lingue minoritarie, sia pure previsto dalla Costituzione della Repubblica Italiana, è arrivato solo con la legge 482/1999 che detta 'Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche'. Essa riconosce anche quelle lingue che non erano tutelate dai trattati internazionali. Oltre a tedesco, francese e sloveno (lingue ufficiali e nazionali di paesi confinanti) e al ladino dolomitico, che già godeva di tutela in Trentino-Alto Adige, sono state riconosciute anche il Friulano, l'Occitano, il Sardo. ecc. per un numero complessivo di 12 realtà. Un passo avanti certamente. Restano, però, le difficoltà di mantenere aperte le scuole nelle zone di montagna dove queste lingue sono spesso parlate e questo limita la portata della loro tutela. E' previsto che dove esistano minoranze linguistiche il numero minimo di alunni di un istituto scolastico sia di soli 300 invece che 500. Ma le difficoltà sono spesso altre  e la natura frammentata degli insediamenti e la presenza non omogenea dei parlanti limita la facoltà dei  genitori di far impartire ai figli parte dell'insegnamento curricolare nella lingua di minoranza come previsto dalla legge. In ogni caso restano fuori dalle previsioni della legge lingue come il Piemontese (riconosciuta dal Consiglio d'Europa e dall'Unesco), il Lombardo , il Veneto e lo stesso Provenzale (riconosciute dall'Unesco). L'impostazione storica della scuola italiana improntata al rigido monolinguismo e alla repressione di ogni altra espressione linguistica continua a pesare.  Giulio Ferroni, critico militante e storico della letteratura, recentemente insignito del premio De Sanctis (se lo merita di certo!) ha   così commentato, qualche mese fa,  le proposte tendenti a introdurre i 'dialetti' nella scuola:

 

'[...]uscite pericolose che ci fanno tornare al Medioevo e rischiano di proiettarci verso un modello jugoslavo: pensate a che cosa succederebbe se i nostri giovani si mettessero a studiare il dialetto (e quale dialetto poi?) in una situazione in cui l' italiano nelle scuole è già molto sacrificato e le lingue straniere si studiano male. Rimarrebbero tagliati fuori da qualunque contesto internazionale'.

 

 Giovani 'tagliati fuori' e incitati  ad intraprendere guerre civili e a scannarsi, queste le conseguenze apocalittiche del 'dialetto'. Ma dai! Per fortuna sono il vertice dell'accademia.  Una rozzezza di argomentazioni degna della migliore (si fa per dire) tradizione degli intellettuali nazionalisti e centralisti. Da De Sanctis in poi, per l'appunto. Già, De Sanctis. L'osannato (ancor oggi, dai parrucconi alla Ferroni) critico letterario 'militante', l'intellettuale organico dell'Italia 'liberale'  post-risorgimentale anti-cattolica e anti-popolare, che  ha rappresentato anche l'ispiratore della gramsciana teoria e prassi della 'egemonia culturale'.  Fu anche ministro agli albori della 'nuova Italia' e a proposito ci piace riportare come viene 'trattato' il nostro  nella presentazione del 'programma' de  l'escolo de Sancto Lucio.   A proposito del 'peccato originale' della scuola italiana si chiarisce che:

 

Tutto è cominciato con la decisione di Francesco De Sanctis, ministro della cultura nel 1861, l’anno dell’unificazione italiana, di non tener alcun conto delle accorate perorazioni di Graziadio Isaia Ascoli, il fondatore della glottologia, della dialettologia e dell’Archivio Glottologico Italiano, e di bandire per sempre – anche a sferzate, se necessario – i “dialetti” dalle scuole del Regno Unito. Se a tale energica, fatale decisione si assommano l’horror dialecti, cioè il secolare disdegno degli intellettuali italiani per tutto ciò che è vox populi, l’opposizione della Chiesa a un qualsiasi ruolo dei dialetti (e delle ex lingue di stato, come il veneziano e il sabaudo) nella liturgia e lo scambio interregionale di insegnanti totalmente digiuni delle rispettive lingue locali, ci si spiega meglio l’entità e la repentinità della liquidazione delle lingue regionali in Italia: quelle stesse che Ascoli aveva definito – con gran più conoscenza di causa – “il più ricco patrimonio linguistico” di tutta l’Europa. (http://www.escolodesanctoluciodecoumboscuro.org/content/view/10/14/)

 

Ascoli era uno scienziato tra i più brillanti in Europa in materia di glottologia, aveva ben presenti i concetti di 'substrato' e 'superstrato' linguistico quali determinanti della differenziazione. De Sanctis era un ideologo convinto che, date le fragilissime basi dello stato unitario, non si dovesse operare nessuna concessione alla diversità culturale pena la disgregazione del nuovo stato. Era l'applicazione in campo scolastico e culturale di quanto sul piano politico e amministrativo veniva fatto con le leggi che imponevano in tutto il Regno la più assoluta uniformità di ordinamenti. Tanto più il paese reale era diverso, tanto più quello legale doveva essere monolitico. L'ideologia desanctisiana poggiava su una concezione mitica (da letterato) di una primordiale unità linguistica, incarnata dal latino e successivamente da un volgare comune, successivamente venuta meno per un fenomeno di 'corruzione' nel corso dei 'secoli bui'. Per De Sanctis ogni differenziazione dialettale è espressione di regressione sociale, di imbarbarimento, di scadimento plebeo. La lingua unica è espressione di civiltà, il dialetto è stigmatizzato come espressione di inferiorità sociale. Filtri e paraocchi etno-linguistici al posto degli strumenti dell'analisi storica e glottologica. Vero intellettuale italiano.

 

La coltura italiana produsse questo doppio fenomeno: la ristaurazione del latino e la formazione del volgare. Le classi più civili da una parte si studiarono di scrivere in un latino meno guasto e scorretto, dall'altra, ad esprimere i sentimenti più intimi e familiari della nuova vita, lasciando alla spregiata plebe i natii dialetti, cercarono forme di dire più gentili, un linguaggio comune, dove appare ancora questo o quel dialetto, ma ci si sente già uno sforzo ad allontanarsene e prendere quegli abiti e quei modi più in uso fra la gente educata e che meglio la distinguano dalla plebe.

 

Ma non era l'Ancient règime a disprezzare la plebaglia? In realtà sappiamo da un pezzo che  l'Ancient règime era molto più democratico dei 'liberali' che hanno fatto l'Italia. In ogni caso quanto abbia pesato questa ideologia sino ad oggi ognun lo può constare da sé facilmente. Nella presentazione dell' escolo si dice a proposito che

 

La spinta verso il monolinguismo è stata così energica che ancora oggi i genitori proibiscono con veemenza a nonni ed anziani di parlare la lingua regionale ai nipotini per timore di “contaminazioni” che impediscano ai loro rampolli di apprendere correttamente l’ormai corrotta lingua nazionale. Corrotta, tra l’altro, da quella stessa, agognata, mitizzata lingua inglese, che i genitori tanto vorrebbero che i loro figli imparassero a scapito – se necessario – della lingua nazionale.

 

In realtà l'apprendimento del 'dialetto' non solo non ostacola ma favorisce l'apprendimento plurilinguistico. In questo senso l'esperienza di Sancto Lucìo corrisponde anche a quella di realtà come la Svizzera, cove il plurilinguismo è d'obbligo. Sempre dalla presentazione de l'escolo leggiamo che:

Che una lingua locale – erroneamente chiamata 'dialetto' (che, tanto nell’etimologia della parola greca, quando nella realtà dei fatti, vuol dire ben altra cosa) contenga qualcosa come dieci volte il lessico corrente di un adolescente oggi, che l’apprendimento in primis di un 'dialetto' comporti una ginnastica mentale e una disposizione psicolinguistica che predisponga idealmente all’apprendimento di altre lingue, che i bambini che hanno imparato dapprima una piccola lingua sono molto più agili, linguisticamente, dei loro 'epurati' figli, non sembra preoccuparli più di tanto: più parole inglesi radio, televisione, giornali, l’internet, l’insegna del bar dell’angolo, il governo italiano stesso mettono nello slavato italiano nazionale, meglio è: sono convinti che così il passo per imparare l’inglese, 'la vera lingua', sarà molto più breve.

L'italiano ha bisogno delle lingue locali (lo sa o no?)

I politici e intellettuali 'italianisti'  che inorridiscono di fronte all'ingresso dalla porta principale dei 'dialetti' nella scuola italiana fanno finta di non rendersi conto (ma probabilmente lo sanno benissimo) che i 'dialetti' contribuiscono tutt'oggi, mediante prestiti, calchi e tutta una serie di scambi a mantenere vivo l'italiano. Se vogliono tenere fuori dalla scuola i 'dialetti' è solo per ragioni politiche. Il serbatoio dei 'dialetti' e la loro mediazione conferiscono all'italiano quella vitalità che deriva dal contatto con la vita quotidiana nella sua realtà differenziata (e che hai lui non è mai riuscito ad acquisire appieno). Il 'patrimonio linguistico' ricco e vario cui faceva riferimento Ascoli non è esaurito. Se l'italiano si unificasse in un sol colpo e la varietà 'dialettale' venisse improvvisamente meno esso soccomberebbe presto all'itanglese, sarebbe destinato a divenire un dialetto della lingua mondiale, la 'vera lingua' quella del business 'che fa guadagnare il pane'. Una eventualità non  tanto remota (quella della riduzione dell'italiano a dialetto o lingua morta). Al di fuori di un quadro plurilinguistico, al di fuori del radicamento dell'italiano quale 'lingua degli affetti dell'identità' esso rischia di diventare la 'lingua della plebe' subendo quella discriminazione che a suo tempo ha inteso imporre al 'dialetto'. Per chi non fa questioni di 'lingua del cuore',  una lingua del business vale un altra ed è pronto a dare un calcio all'italiano. La cultura del monolinguismo così a lungo seminata dalla scuola italiana rischia di essere un boomerang. La convivenza e l'interscambio con il 'dialetto' giova quindi all'italiano, e gioverebbe alla sua salute e futuro venire finalmente a patti con essi. Tanto più che i 'dialetti' non sono moribondi come qualcuno preconizzava non molti anni orsono (fregandosi le mani).

La reazione alla globalizzazione, infatti, si è tradotta in un recupero di vitalità del 'dialetto' come dimostra l'aumento della percentuale dei parlanti  (o almeno proclamatisi tali) tra le giovani generazioni nelle recenti rilevazioni Istat. Nel Veneto, poi, dove il rilancio della lingua locale è più forte sia assiste persino al fenomeno di neo-parlanti (provenienti di altre regioni e paesi) che imparano il Veneto per non perdere occasioni di socializzazione in un contesto dove l'uso della lingua veneta è molto frequente anche tra estranei e nell'ambito di rapporti formali (un fenomeno non assente altrove). Anche in Lombardia, specie nell'area pedemontana e alpina, non solo il Lombardo 'tiene' ma si rafforza tra i giovani quale espressione di cultura popolare e giovanile ribaltando la percezione generale nei suoi confronti delle vecchie generazioni (si veda il fenomeno Van de Sfroos). Tendenze simili si riscontrano anche nelle altre regioni come indicano diverse ricerche. Molto spesso, però, la lingua locale assume nei giovani il significato di un semplice modo di distinguersi dagli adulti e l'uso ha per lo  più funzioni ludico-espressive (Flavia Gramellini, Ianua. Revista Philologica Romanica Vol. 8 (2008), pp. 181–201

http://www.romaniaminor.net/ianua/Ianua08/10.pdf).

Tanto ritrovato entusiasmo giovanile andrebbe assecondato proprio dall'azione scolastica finalizzata all'acquisizione di una vera competenza linguistica.  Ulteriori segnali di vitalità dei 'dialetti' sono comunque legati alla diffusione dell'uso scritto (facilitata anche dal web che mette a disposizione risorse in precedenza difficilmente disponibili), dall'uso in ambito letterario con significati diversi rispetto al vecchio vernacolarismo, dall'uso in contesti formali un tempo 'scandalosi'.

 

[...] se per molti il dialetto resta la lingua familiare e degli affetti, esso può, ancora oggi, nell’epoca della globalizzazione, rappresentare uno strumento di integrazione e riconoscimento, ma in certe situazioni, anche più formali, può costituire un valido supporto alla comunicazione inconcorrenza con l’italiano (F. Gramellini, Ivi).

 

Il recupero della dimensione rurale, la montagna viva,  presuppongono la valorizzazione delle lingue locali

 

Se si smettesse di concepire l'uso delle lingue locali nella scuola come una 'minaccia' all'italiano e si capisse invece quali vantaggi potrebbero derivare dal plurilinguismo certe 'barricate' cadrebbero. Non cadranno facilmente perché la supremazia dell'Italiano sui 'dialetti' è concepita - come già accennato - come un puntello di un sistema politico centralista (insieme alla retorica su Risorgimento). Di fatto, però,  l'esigenza di radicamento territoriale, di recupero di radici nel campo dell'alimentazione, della lingua, dei costumi è un fenomeno troppo potente per essere arrestato. Un fenomeno che non significa 'chiusura', paura del mondo, difesa di micromondi. E' pacifico che si debba e si possa muoversi su più piani (glocalismo)

Identità e lingua locali sono legate da innumerevoli elementi: la toponomastica, le denominazioni di piante, animali, per non parlare delle attività tradizionali che nella loro variabilità implicano l'utilizzo di strumenti a volte peculiari di un territorio o foggiati in modo peculiare, con elementi non presenti in altri esempi della stessa tipologia utilizzati altrove. Quando l'italiano è stato imposto come unica lingua nella scuola, negli usi ufficiali era una lingua ancora poverissima di lessici collegati alla vita quotidiana, agli attrezzi, al lavoro dei campi, agli animali domestici agli elementi della morfologia del territorio. Ancora oggi nell'ambito dei prodotti alimentari (basti pensare ai tagli di carne o alle denominazioni di tipi di paste alimentari) l'unificazione linguistica non si è compiuta e gli italiani regionali (cosa ben diversa dalle lingue locali anche se collegati a queste ultime come in un sistema di vasi comunicanti), restano tutt'oggi ricchi di geosinonimi in un continuo processo di convergenza e differenziazione linguistica (per la buona pace dei parrucconi). Basti pensare alle stesse parti del corpo umano che nell'Italiano regionale colloquiale restano profondamente diverse (es. le tette, le zinne).

 L'immissione a forza di toscanismi nella lingua corrente ha sortito esiti  che oggi, dopo un più che secolare e spontaneo processo di prestiti dai vari 'dialetti' ha - almeno in parte - colmato le più evidenti lacune dell'Italiano, appaiono alquanto goffi e ridicoli, frutto di un opera pedissequa di 'calco' dal toscano.

Per rendersi conto di quanto lacunoso fosse l'italiano anche nell'ambito delle attività tecniche basta leggere trattati e manuali pre-unitari. Una buona parte del lessico è identificabile come voci che sono proseguite sino ad oggi nei 'dialetti' e che, fino allora, erano usate anche nella lingua scritta, tanto che si può mettere in discussione che i vari 'italiani' scritti, tolta la letteratura e argomenti di speculazione, fossero la stessa lingua. Come lingua utilizzabile in tutti gli ambiti della vita sociale un 'Italiano' non esisteva (come non esisteva lItalia e forse non è mai esistita).

La tabella sotto riportata (da De Mauro) mette in evidenza come buona parte della popolazione sino alla fatidica 'svolta' degli anni '60 sia rimasta esclusivamente 'dialettofona', spesso del tutto incapace di colloquiare in Italiano.

 

 

1861

1955

1988

1995

Italiano

1,5

10,0

38,0

44,4

Italiano /Dialetto

1,0

24,0

48,0

48,7

Dialetto

97,5

66,0

14,0

6,9

Totale

100,0

100,0

100,0

100,0

 Da: Dialetto e italiano dal 1861 al 1995: percentuali d’uso sulla popolazione (De Mauro, Dante, il gendarme e l’articolo 3 della Costituzione, in Dante, il gendarme e la bolletta. La, comunicazione pubblica in Italia e la nuova bolletta Enel, a cura di T. De Mauro e M. Vedovelli, Roma-Bari, 2001.

 

L'Italiano non ha avuto molto tempo per consolidarsi come lingua viva. Molto meno in ogni caso rispetto alle altre grandi lingue europee. Pensiamo al tedesco, che pure non avendo la spinta di una monarchia unitaria alle spalle,  ha avuto modo di diffondersi in un processo secolare attraverso la stampa della Bibbia.  Va considerato anche che la scuola è risultata efficace per imprimere lo stigma della dialettofonia consolidando e approfondendo i privilegi  e le disparità sociali, ma nella missione di 'fare gli italiani' attraverso l'unificazione linguistica ha sostanzialmente fallito. Al difficile apprendimento dell'Italiano (lingua straniera per le genti rurali) seguiva molto spesso l'analfabetismo di ritorno e l'abbandono dell'uso dello stesso (semmai usato in molto impacciato a rimarcare una condizione subalterna con piena soddisfazione dei notabili liberali).

C'è voluto Mike Buongiorno (metafora della televisione 'popolare') per generalizzare l'italofonia. In ogni caso la tv, per quanto 'nazional-popolare' non tratta certi aspetti della vita quotidiana.  Di conseguenza, per tornare ad accostarsi a certe dimensioni  'artigianali' del vivere, ad una ritrovata dimensione locale, colta nella sua interezza,  la lingua locale diventa un medium indispensabile. Non basta far sopravvivere come fossili qualche toponimo e qualche elemento del lessico dei 'prodotti tipici' (estensivamente saccheggiati e rielaborati dal marketing del Mulino Bianco).

L'opera dell'escolo, ma qui dobbiamo dire che tanti istituti scolastici 'comprensivi' sparsi per le Alpi hanno fatto qualcosa di simile, è stata fondamentale per recuperare i vari elementi di una lingua (vedi i fitonimi).  Ha senso conservarli, possibilmente nell'uso vivo dei parlanti  anche in quanto una lingua con i suoi elementi (e il lessico è uno dei fondamentali) rappresenta una forma di adattamento ad una realtà fatta di interazione tra organizzazione umana e un determinato ambiente fisico (il valore della diversità culturale come di quella genetica sta proprio in questa capacità di adattamento alla variabilità nello spazio e nel tempo).

Non c'è ecologia umana senza mantenimento della diversità culturale e di quella linguistica che ne è una parte così determinante.

 

Lingua, culture, tradizioni locali come veicoli di integrazione e ricomposizione sociale

 

Nelle comunità alpine la valorizzazione della lingua locale è non solo un modo di tornare a riconoscersi nella propria individualità e identità di dare valore alla 'resistenza in quota' (restare in montagna senza entrare a far parte di una cultura e contribuire a vitalizzarla e a perpetuarla ha un significato infinitamente minore; si fa magari la 'manutenzione del territorio, si contribuisce alla microeconomia, cose importantissime e indispensabili ma senza appartenere all'anima di una comunità tornare, restare, andare a vivere in montagna ha un significato molto depotenziato).

Vogliamo concludere ribadendo che la difesa e la valorizzazione del patrimonio linguistico sono, al contrario di quello che pensano e proclamano i parrucconi, degli strumenti di integrazione. L'esperienza del Veneto, dove i processi di 'ridialettizzazione' sono più evidenti che altrove, ci insegna che l'extracomunitario che parla veneto può raggiungere un grado di integrazione molto maggiore di quello che parla italiano, diventa più facilmente parte di un 'noi'. Questo meccanismo ha molta più efficacia in piccole comunità dove la lingua locale è maggiormente a rischio. Il particolarismo, tanto vituperato, diventa strumento di integrazione, di comprensione, di scambio e apertura alla diversità. Che tutto ciò rappresenti un modello più spontaneo ed efficace rispetto a quelle forme di integrazione 'civiche', 'nazionalitarie', 'fredde', alla francese,  crediamo non lo si possa mettere in dubbio (se non da chi, in perfetta cattiva fede,  pensa che i dialetti portino alle fosse comuni).

 


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