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(27.07.09) Dal sudtirolo alle alpi lombarde e svizzere, dove il consumo di 'pane nero' non era mai cessato (ma dove la segale non si produceva più) stanno moltiplicandosi le esperienze di ritorno alla coltivazione

 

 

La montagna torna

 

a produrre pane

 

 

 

di Michele Corti

Tra il 1937/39 e il 1993 la produzione di segale nel Trentino Alto Adige è calata da 186.000 a 5.000 quintali. Le valli asciutte del Sudtirolo (come la Venosta) sono particolarmente adatte alla coltivazione della segale, tanto da aver rappresentato in passato un vero e proprio 'granaio'. Nonostante la ripresa della coltivazione oggi in atto l'Istat per il 2009 regista zero ettari investi. Triste. Anche in Trentino, Valle Camonica, Valtellina la coltivazione della segale era fortemente radicata, tanto che la tradizione del consumo di pane nero non è mai stata abbandonata anche negli anni del 'modernismo' più aggressivo.

Personalmente ho ancora impresso il ricordo (infantile) dei biondi campi di segale matura che negli anni '60 caratterizzano le piane dell'alta valle Camonica. Il pane nero l'ho parimenti conosciuto molti anni fa. Era obbligatoria e rituale la sosta a Grosio per far scorta di pane di segale durante le gite con la famiglia in Valtellina - direzione Livigno o Bormio (anni '70). Si mangiava come un dolce quel pane 'rustico' e a casa ne arrivava poco. Ricordo che piaceva a tutta la famiglia e ci si rammaricava di non poterlo poi trovare a Milano o nelle località montane di villeggiatura che frequantavamo. Va detto che quando ha cominciato ad essere disponibile anche presso i prestinai di Milano (anni '80-'90) il pane di segale che vi si trovava era ben lungi dal corrispondere all'idea (e al gusto) di quello montanaro.

Negli ultimi anni vi è stata una notevole ripresa della produzione di pane di segale nelle zone tradizionali; anche l'area  si è allargata (è scesa a valle!). In più sia la segale che il grano saraceno hanno conosciuto una vera e propria esplosione nella pasticceria e nella gastronomia. La grande industria ha saputo cogliere quasi subito la tendenza al revival dei cerali minori (motivata dalle ottime caratteristiche dietetiche ma anche dalla voglia di sapori 'rustici') e ora i cereali 'minori' sono finiti anche nel 'Mulino Bianco'. Come sempre succede nella dialettica tra cibo 'industriale' e cibo 'locale' e 'artigianale' quando l'industria si appropria di tendenze nate sul terreno del 'ritorno al mangiare sano e tradizionale' vi è - fortunatamente - una reazione da parte degli attori locali. Questi ultimi sanno spesso cogliere le opportunità offerte dall'industria in termini di penetrazione tra i consumatori delle nuove/vecchie tendenze alimentari ma, al tempo stesso, capiscono che non bisogna stare con le mani in mano per non correre il rischio di una concorrenza ad armi impari.

Ecco allora che la strategia degli attori del cibo locale si fa più sofisticata e punta su una differenziazione basata sul circuito breve e integrato: dal campo alla tavola. Un punto di forza di questa strategia è legato al forte valore assegnato ai mulini, quale componente percepita importante del patrimonio culturale locale. Il mulino esercita una fascinazione particolare (sedimenti dell'immaginario collettivo) ed intorno al restauro e al riutilizzo di queste vecchie strutture è facile aggregare operatori culturali, turistici, associazioni di volontariato. La spinta di chef e pasticcieri che - consapevoli del successo dell'uso di preparazioni a base di farine 'alternative' - chiedono di poter disporre presso i loro laboratori di farina 'km zero' unita alla voglia di 'far girare le macine' stanno ottenendo dei risultati. C'è una spinta nei confronti dei contadini e degli enti locali in grado di 'accompagnarli' nel non semplice percorso di reintroduzione di colture abbandonate da decenni.

Ci si scontra infatti di fronte al problema del tipo di varietà disponibili, della loro adattabilità alle condizioni locali. Un grosso ostacolo è legato alla meccanizzazione. E' evidente che le mietitrebbie (almeno qualle 'normali') non possono operare sui tipici terreni terrazzati. Non è facile poi organizzare le operazioni di raccolta (mietitura e successiva trebbiatura) quando si opera con fazzoletti di terra a volte distanti.  In compenso la segale non è esigente e non soffre molto per attacchi di insett e malattie (tranne la segale cornuta - Claviceps purpurea). Richiede scarse concimazioni perché tende ad allettare facilmente (non può essere 'spinta' con le concimazioni chimiche azotate e non richiede molti pesticidi, un grave 'difetto' da un punto di vista agroproduttivista).

Se, però, si tenesse conto del prezzo di mercato l'operazione sarebbe del tutto in perdita. Fortunatamente il prodotto non deve andare sul mercato e ha già i suoi canali. I pasticcieri e i ristoratori sanno bene che l'incidenza del costo maggiore della farina 'km zero' sul prodotto finito è comunque limitato e facilmente compensato dal 'valore aggiunto' legato alla possibilità di poter proclamare l'origine della materia prima.

In ultimo una riflessione: queste produzioni lillipuziane agli occhi dell'agroindustria possono apparire inefficienti. Bisogna riflettere, però, sull'efficienza - in termini di costi e benefici - del sistema agroalimentare globale che ha messo 'fuori mercato' le coltivazioni locali. Quanta energia spreca il sistema alimentare globale ? Quanto pane viene buttato via? Quanto stress (e relative malattie indotte) determina l'ansia da alimentazione legata ad un cibo che è sempre più delocalizzato, di ignota provenienza, percepito come manipolato e insicuro? E' difficile quantificare la gioia e la serenità indotte dal poter consumare un pane si cui si sa da dove viene, chi lo coltiva, chi lo macina, chi usa la farina per ottenere il prodotto finito. Ma sappiamo che nel bilancio dell'utilità (felicità) del consumatore sono cose che contano.

nelle foto a destra (G. Moranda)dall'alto: campo di segale a Cerveno, distribuzione dei campi pilota, fasi della trebbiatura, cariossidi  (luglio 2009).

Si ringrazia la Comunità Montana di Valle Camonica responsabile del progetto per averle messe a disposizione

 

 

 

Nonostante le difficoltà i programmi pilota di reintroduzione della segale vanno avanti.

Da segnalare oltre al progetto in atto in Valle Camonica anche quanto in atto a Poschiavo (Canton Grigioni, al limite con la Valtellina) dove, nell'ambito del progetto

'Dal campo alla tavola',  è stato restaurato un vecchio mulino http://www.mulinoaino.ch/ che ora è tornato attivo e macina segale e grano saraceno coltivati in loco. Con questi si produce una farina utilizzata da pasticceri e ristoratori (la provenienza è ben evidenziata nel menù). Da segnalare anche le iniziative di Piero Roccatagliata di Teglio che, oltre al grano saraceno, coltiva anche segale, orzo e mais  http://www.furmentun.it/coltivazione.html

 

 

 

 

 

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