Nuovo Header

Lupo

Michele Corti, 15 Giugno, 2021

Il lupo come strumento di oppressione sociale (WolfAlps)


Il “conservazionismo”, che sulle Alpi fa leva sul lupo, si colloca nel solco di politiche sociali che, nei secoli, hanno significato l'esproprio ai danni delle comunità locali del controllo sulle risorse locali, oppressione, repressione e ingiustizia sociale. Così come avviene in Africa e in Asia, la super-tutela e le politiche di aumento delle popolazioni di “animali carismatici” rappresentano ovunque un grimaldello per attuare, se non l’espulsione tout court delle popolazioni dai loro territori, la perdita di controllo sulle risorse a vantaggio di poteri esterni.

In Africa e in Asia, come documentato da inchieste e da parziali ammissioni degli stessi ambientalisti (vedi qui e qui gli articoli precedenti), queste politiche, che comportano deportazioni, marginalizzazione, povertà e sottomissione di popolazioni un tempo autosufficienti, in grado di vivere in equilibrio con il loro ambiente, sono attuate con il ricorso alla violenza (sino alla tortura, allo strupro, all'omicidio) da parte di corpi paramilitari finanziati, addestrati, equipaggiati dalle Ong conservazioniste. I piccoli allevatori delle Alpi non sono oggi (ancora) oggetto di violenza aperta ma di forme di pressione e controllo che chiamano in causa un'eccessiva disparità potere e un'assenza tutela di diritti e di interessi legittimi che sono incompatibili con una società che si proclama democratica.

La tutela (che poi significa proliferazione) del lupo passa sopra tutto nel quadro di una sorta di “costituzione ombra” che conta di più delle leggi. Una politica e delle istituzioni ectoplasmatiche stanno sostanzialmente a guardare.  I pastori, gli allevatori, gli abitanti dei centri abitati che hanno il lupo sulla soglia hanno scarse possibilità di far valere i propri diritti e denunciare quello che subiscono perché WolfAlps, punta di diamante del conservazionismo aggressivo, ha posto sotto controllo, direttamente (con la rete di partenariato) o comunque indirettamente, ampi settori di istituzioni pubbliche. Per di più controlla efficacemente i media. Le notizie “negative” (le predazioni in serie, gli allevatori costretti a vendere gli animali, le aggressioni all’uomo, gli animali di affezione sbranati) vengono, quando non è possibile soffocarle e negarle, relegate sistematicamente nella cronaca locale. L’opinione pubblica è “schermata” da tutte le informazioni che smascherano il trionfalismo di WolfAlps, che mostrino come la convivenza con il lupo si traduca nell’abbandono dei pascoli e della loro attività da parte di pastori e allevatori, ovvero nel campo libero per il lupo, come vi siano gruppi di allevatori e di cittadini che protestano. Come avvenuto, in modo coordinato in occasione dei recenti Giri ciclistici d'Italia e della Svizzera.


Quello che succede sulle Alpi richiama ormai le vicende africane e del subcontinente indiano dove il contadino, il pastore, i cacciatori-raccoglitori sono cacciato dalle terre ancestrali per volere degli ambientalisti nordamericani ed europei (no, non è colonialismo!). Ma se, oltre che lontano nello spazio, guardiamo anche lontano nel tempo troviamo che queste storie di violenza e oppressione presentano una continuità, una sistematicità. Sono storie che vengono da lontano, da quando le tribù amerinde vennero scacciate a fucilate dalle giacche blu per creare i primi grandi parchi nazionali americani il cui modello continua ad affascinate gli ambientalisti. Qui in Europa, in Italia, sulle Alpi possiamo constatare come la politica lupista si collochi perfettamente nel solco non solo dell’ambientalismo di importazione nordamericano ma anche delle politiche che, da almeno due secoli a questa parte, utilizzano l’argomento "ambientale" della "tutela dei boschi" per togliere alle comunità locali il controllo sulla gestione del loro territorio, per costringerle alla privatizzazione dei beni comuni. Processi attuati sia con leggi ad hoc sia mettendo sotto il controllo statale i comuni, consegnandoli nelle mani di notabili locali (spesso grandi proprietari di boschi) legati a interessi esterni, interessi opposti a quelli dei contadini-allevatori, legati, in modo vitale, a forme agropastoraliste di sussistenza. La storia si ripete quasi uguale oggi.


Il conflitto tra ovicaprini e bosco era un conflitto sociale mascherato da presunte legittimazioni ambientaliste. Esattamente come oggi. I ceti dominanti urbani, i grandi interessi economici di cui essi sono i terminali subalterni, usano la tutela del bosco e del lupo come pretesti che nascondono la loro volontà di esproprio. In realtà i poteri urbani e tecnoburocratici non hanno mai cessato di contrastare il pastoralismo e l’agropastoralismo quali forme di vita che consentivano a comunità e famiglie di mantenersi indipendenti, di non subire la perdita di libertà, di non emigrare, di non diventare “manodopera a basso costo”.

Il pastoralismo nelle montagne europee, specie quello transumante, ha dovuto competere duramente per l’uso dello spazio con i sistemi agricoli intensivi, poi ha subito i contraccolpi delle successive fasi dell’industrializzazione (Collantes, 2006). Oggi la minaccia per i sistemi pastorali proviene ancora, in parte, dalla “coda” delle politiche industrialistiche. Non è ancora esaurita la spinta all’applicazione di norme igieniche che hanno la loro ragione nel contesto di grandi impianti industriali. Non è venuto meno il sostegno pubblico (nel miope automatismo delle “misure” per lo “sviluppo rurale”) a moduli di allevamento “padani” che comportano la concentrazione della produzione di latte in singoli allevamenti in montagna (ma non di montagna), dove l’alimentazione è basata quasi esclusivamente su mangimi e foraggi importati. La produzione di queste grandi aziende slegate dal territorio equivale a quella di tante piccole aziende, così queste ultime sono progressivamente tagliate fuori per i maggiori costi di raccolta del latte. In barba a tanti proclami, questa politica va avanti. Mirano allo stesso obiettivo, ovvero la scomparsa delle piccole aziende, che ancora praticano il pascolo e lo sfalcio delle superfici in pendenza frenando così l’avanzata del bosco, anche le politiche “ambientaliste”.



Frutto di malintese forme di “greening”, con esiti perversi di “super-estensivizzazione” (a carattere speculativo) sono le misure che hanno condotto al fenomeno dei “pascoli di carta”, in forza delle modalità di erogazione dei contributi della Pac per i pascoli. Tali misure privano dell’accesso ai pascoli gli allevatori per favorire opache società con sede in altre regioni (Mencini, 2021). Frutto di un malinteso e strumentale ambientalismo è anche un’altra minaccia per gli allevatori alpini. Si tratta della politica di reintroduzione dei grandi predatori, uno strumento hard di "rinaturalizzazione". Essa è avvenuta per importazione e rilascio in natura di capi di origine slovena, nel caso dell’orso (Corti, 2012) mentre, in quello del lupo è stata un'operazione “fortemente assistita” (non priva di zone d'ombra) con progetti che hanno già cumulato 30-35 milioni di euro.

Tutte queste politiche, sia quelle "produttivistiche", che continuano a spingere per allevamenti intensivi, che quelle ambientaliste – è bene sottolinearlo – hanno la stessa finalità e sono tra loro complementari. Lo speculatore che si accaparra i pascoli, disposto a corrispondere per la locazione degli alpeggi anche 10 volte tanto gli allevatori locali (si sono visti alpeggi ordinari arrivare a basi d’asta di 100 mila euro), non trae profitto dai prodotti animali ma dalla rendita parassitaria sui “titoli pac”. Sfruttando la possibilità di un carico modesto (0,2 Uba/ha per soli 60 giorni), invia all’alpe asinelli malcilenti che, per i parametri della stupidità europea, valgono quanto una vacca da latte e che, se predati, fruttano un indennizzo superiore (ma solo in questi casi) al valore degli animali. Se il lupo li sbrana lo speculatore risparmia anche sul costo del trasporto degli animali a fine pascolo. Al massimo porta sui pascoli dei vitelli che consentono di raggiungere il “carico” (in Trentino si ricorda il caso di vitelli portati in alpe elicottero e morti di stenti). A custodire il bestiame vi è personale straniero, spesso improvvisato, mal pagato e mandato allo sbaraglio, senza strutture adeguate di ricovero e, a volte, anche senza scorte di cibo (tanto da dover ricorrere al soccorso di persone di cuore del posto).

Le istituzioni conoscono questa realtà, denunciata ormai da libri e inchieste giornalistiche e televisive ma … “non possiamo farci niente”. Analogamente alla mafia dei pascoli, anche nel caso del lupo i politici allargano le braccia: “non possiamo farci niente”. La politica, in quanto meccanismo in grado di operare scelte efficaci, in tempi adeguati a risolvere i problemi che emergono nella società, ha perso buona parte del suo ruolo. Un po' per lo spostamento dei centri decisionali verso sedi sovranazionali (dove arrivano solo le rappresentanze degli interessi più forti) , un po' per l'intrico burocratico che rende difficile e lento intervenire sui problemi, un po' per l'abdicazione della politica a comitati tecnici e a organi composti da rappresentanti di gruppi organizzati forti (vedi il peso sproporzionato che hanno le organizzazioni ambientaliste in tanti organismi che formalmente non sono decisionali da che influenzano). Quanto più la politica perde terreno, a favore della burocrazia, della tecnocrazia, delle lobby e quanto meno peso hanno gli interessi dedoli, specie se dispersi come quelli del mondo rurale, tanto più hanno peso i gruppi organizzati con alle spalle importanti risorse economiche.

Nel caso dei grandi predatori l'inappellabile volontà degli dei, cui non ci si può opporre e rispetto alla quale i politici allargano le braccia, è rappresentata dai trattati internazionali (per loro natura di difficile modifica per spinte dal basso), dall’ Europa e dal timore di un’opinione pubblica, rimbecillita da dosi industriali di oppiacei ecotelevisivi, di cui si temono gli ondeggiamenti elettorali. Anche se i verdi, come partito, non superano in Italia nelle intenzioni di voto il 2% dei consensi e il boom dei partiti verdi in Europa, dopo l’effetto drogato Greta, pare già sgonfiarsi (l'incubo di una Merkel verde al comando dell'Europa pare allontanarsi). Non si può non aggiungere che, in non pochi casi le difficoltà ad operare della politica nascondono anche carenza di coraggio, di voglia e capacità di affrontare battaglie difficili nonché una classe politica di caratura inferiore al passato (conseguenza inevitabile della perdita di peso della politica).


Il lupo catalizza il conflitto sul controllo del territorio, la sopravvivenza delle attività tradizionali e della stessa civiltà rurale alpina

È doveroso inquadrare il problema lupo nel contesto di una “soluzione finale” nei confronti di tutte le attività tradizionali (rurali e non), una spinta che si inquadra nella secolare tendenza della modernità industriale capitalistica a concentrare le popolazioni nelle città, a eliminare ogni forma di piccola imprenditorialità indipendente, a distruggere ogni forma di economia e di scambio di beni e servizi al di fuori dei mercati (prima nazionale, ora globale). Però è anche bene ribadire che il conflitto sociale, indotto dalla brutale politica di espansione geografica e proliferazione numerica del lupo, ha la caratteristica di far emergere, con una chiarezza inusuale, quelli che sono i termini del conflitto e gli attori in campo.

A differenza dei processi economici e dell’evoluzione delle regole e dei quadri istituzionali, che avvengono con gradualità e che il singolo fatica a percepire (alcune trasformazioni impiegano il tempo di una generazione ad attuarsi), l’uso del lupo per mettere in ginocchio i sistemi pastorali alpini, per arrivare al risultato di fare delle Alpi un grande parco spopolato sul modello nord-americano o africano, determina repentini e traumatizzanti mutamenti nelle possibilità di utilizzo del territorio e nella stessa vita delle persone. Da un anno con l’altro non si possono più utilizzare con il pascolo intere valli (vedi la valtellinese val Fontana nei comuni di Ponte e Chiuro che, quest’anno, non vedrà più una pecora pascolare delle quasi trecento, di due/tre proprietari, che la frequentavano sino allo scorso anno).



Le splendide capre frise, Sondalo è la patria della capra frisa (probabilmente la più bella capra europea) con le frazioni di Frontale (era chiamata anche frontalasca) e Fumero, colpite dall'ordinanza di dicieto di pascolo della sindaca. Via le capre avanti i lupi.


Una realtà relativamente pacifica (se si eccettua il problema della mafia dei pascoli), lontana dalle aspre contese per il possesso dei pascoli di secoli fa (Corti, 2004), diventa il teatro di un'aspra guerra sociale “per interposto animale” (lupo vs animali domestici). Un conflitto che coinvolge tutte le attività di allevamento ma, in modo drammatico le attività su piccola scala, oggi spesso esercitate “per passione”, attività alle quali si deve il mantenimento di razze in via di estinzione, di paesaggi, di culture rurali. Tutto quello che la civiltà urbana, con le sue due facce della stessa medaglia (Ogm e cibo artificiale da una parte, wilderness dall'altra) vuole cancellare. Sappiamo bene che valore eversivo abbiano il buon cibo, il paesaggio curato, l'umanità della vita rurale, i valori di convivialità. Tutte cose che, chi auspica un mondo diviso tra città prigione con gli schiavi che mangiano insetti e un unico immenso parco mondiale, ritiene pericolose perché suscettibili di suscitare nostalgia e resistenza. Oggi, comunque, anche gli allevamenti più grandi, su base professionale, subiscono gravi danni, e la prospettiva di problematici cambiamenti di gestione. I bovini, come insegna l’esperienza del Veneto, dal 2012 in poi, possono localmente subire i danni principali.


Non è un conflitto tra lupo e pastore ma un conflitto sociale tra gruppi sociali (chi ha solo da guadagnare e fa parte di gruppi privilegiati, chi ha solo da perdere e fa marte di gruppi deboli)

Nella propaganda lupista si riconosce l’esistenza di un conflitto ma si nega che rappresenti un conflitto sociale su entrambe le sponde. Il lupo non è un soggetto sociale, evidentemente, ma è uno strumento abilmente gestito dai burattinai che lo usano. Un animale "telecomandato" anche quando non radiocollarato. Se il lupo non è controllato, se non si può neppure spaventarlo, esso si allarga e si moltiplica. Lo sapevano bene le popolazioni rurali del passato che esercitavano ogni sforzo per eliminare i lupi, consapevoli che, in assenza di una forte pressione, esso si sarebbe moltiplicato impedendo alla popolazione di svolgere quelle attività che le consentivano la sopravvivenza. Il lupo per millenni è stato combattuto dalle popolazioni rurali: si scavavano delle buche (le luere, la cui diffusione è testimoniata da numerosissimi toponimi)(Comincini, 2002; Leo, 2007, Oriani, 2014. Marucchi e Vachino, 2020) si assegnavano premi in denaro per ogni lupo eliminato, si stabilivano regole che obbligavano tutti gli uomini validi a partecipare a cacce e battute al lupo. Era una "convivenza" basata su una lotta senza quartiere al predatore. Non per crudeltà ma per sopravvivenza. Questa esigenza era compresa da tutta la popolazione, anche da quella urbana. Il lupo che cadeva nelle fosse (le luere) era finito a forconate. Con l'avvento delle armi da fuoco a retrocarica e a canna rigata, la guerra tra uomo e lupo ha preso una piega diversa; nonostante l'uomo cercasse di sterminare il lupo applicando il massimo dell'impegno, con i mezzi pre-industriali l'intelligenza, l'opportunismo, la capaicità riproduttiva del lupo riuscivano a controbilanciare gli sforzi dell'uomo. Ogni tanto erano predati dei capi, ogni tanto spariva un pastorello e si trovava solo il cranio. Questa la poco idilliaca "convivenza". Oggi la super-protezione di cui goge la specie, in forza della inalterata capacità del lupo di sfruttare ogni spazio per espandersi e riprodursi, ha sortito l'effetto di una crescita troppo rapida. Il tasso riproduttivo della specie, trovando ampie risorse alimentari disponibili, è elevato e la popolazione cresce sulle Alpi del 30% all’anno. Delle due l'una: o i lupologi non conoscono bene il lupo e non hanno soppesato bene le conseguenze delle loro azioni miranti a promuovere in ogni modo l'aumento numerico del lupo... o del lupo in sé forse non interessa loro molto. Se, come crediamo, per loro il lupo è strumento di una biopolitica di esproprio delle popolazioni di montagna e delle aree interne (a pro di grandi interessi economici ma anche di sé stessi) allora i conti tornano. Lupi e ibridi vanno bene allo stesso modo purchá mettano in ginocchio e facciano regredire le attività tradizionali che ancora utilizzano i territori, purché il territorio agro-silvo-pastorale scompaia a favore della wilderness e dei business che essa consente, ovviamente a soggetti sociali completamente diversi dai "vecchi abitanti".

I lupisti hanno, sin dall'inizio delle loro campagne di promozione dell'espansione del lupo, accusato i pastori e gli allevatori di "aver perso la cultura della convivenza". Un modo come un altro per mascherare l'iniquità sociale di una biopolitica in cui tutti i vantaggi sono per gli ambientalisti, i ricercatori, i burocrati verdi, tutti gli svantaggi per i pastori e gli allevatori. Una cortina fumogena come tante altre. Ma non è difficile ribattere ai lupisti che quello che i pastori hanno dimenticato è sì l'uso dei cani da protezione (divenuti di difficile gestione e inutili con l'estinzione del lupo), della custodia assidua del gregge (che costava anche la vita ai pastotrelli), degli stazzi notturni, degli ovili e caprili ma sono anche le tecniche di eliminazione dei lupi. La "convivenza" era impensabile se non nell'abbinamento di tecniche di difesa attiva e passiva. L'insieme di queste tecniche determinava quel mitico "timore per l'uomo" che ggi non è più dato constare nel lupo, sempre più sfrontato, sempre più spavaldo. Se i pastori hanno dimenticato le regole di ingaggio della "convivenza" le ha dimenticate anche il lupo. Ma su questo si glissa.

Le obiezioni dei lupisti a questi ragionamenti chiamano in causa una società più ricca ed evoluta. Ma il ragionamento non tiene conto che, in montagna, al pascolo, le "moderne tecnologie" recinti elettrificati, gps, batterie solari, telefonini non eliminano l'impegno fisico a spostare e custodire il gregge, ad allestire i recinti (spesso in condizioni difficilissime di roccia affiorante). Facile parlare quando gli altri penano. La società nel suo insieme ritiene di essere disposta a qualche sacrificio per i lupi, peccato che i sacrifici cadano sulle spalle di alcuni. Fingono di non capire, i Signori del lupi, che io insisto a chiamare i nuovi signori feudali (con tanto di masnada) che, se oggi il pastore ha degli ausili tecnologici, ha anche molta meno disponibilità di manodopera. Non ci si improvvisa pastori, fare il pastore non significa stare lì a guardare le pecore, spostarle con un cane (che bisogna comunque saper far lavorare). Bisogna conoscere la qualità del foraggio, osservare il comportamento e la pancia (vuota o piena) degli animali, constatare se hanno "brama" di pascolo o meno, sorvegliare l'insorgenza di sintomi di patologie, applicare delle cure. Trovare personale qualificato è difficile. La burocrazia, che ha appestato anche il settore della formazione professionale come tutti gli altri, impedisce sulla base di regole incompatibili con la trasmissione di saperi pratici come quelli dei pastori, di organizzare corsi utili a formare pastori e aiuti pastore. (ben diversamente vanno le cose in altri paesi europei dove la professione del pastore è rispettata, vi sono scuole, vi sono servizi di consulenza). Il pastore viene lasciato solo e così, quando alle difficoltà del mestiere si aggiunge la pressione predatoria... è messo nelle condizioni di chiedere aiuto agli unici soggetti organizzati che si occupano di lui: i lupisti. È come mettere la volpe a guardia del pollaio. Chiamare le squadre lupiste significa farsi mettere sotto la loro tutela e il loro controllo. E così il pastore fa la fine del topo con il gatto. Si trova tra l'incudine e il martello. Sarà sempre perdente (come da copione).

Tra le narrazioni lupiste da sfatare vi è anche quella che tende a dimostrare che il lupo è la conseguenza "naturale" dell'abbandono. Questa, come altre narrazioni, è palesemente finalizzata ad allontanare il sospetto di "reintroduzioni" illegali. Ma, a parte la questione della reintroduzione più o meno spontanea, cosa c’è di “naturale” nella “riconquista del territorio” da parte del lupo, salutata dai più fanatici (compresi alcuni ai vertici dei CC forestali) come la "rivincita della natura"? Ben poco, anzi nulla. Intanto non è affatto vero che il lupo dilaghi a causa dell’abbandono. Basta considerare la montagna veneta, che non ha conosciuto affatto i fenomeni di abbandono di altre aree, che è caratterizzata in larga misura da forme di allevamento piuttosto intensive (bovini da latte di razze specializzate). Il lupo dilaga anche qui perché non è contenuto e trova, oltre alle prede selvatiche, quelle domestiche abbandonate alla sua mercè da norme che stravolgono i fondamenti stessi del "patto di domesticazione" alla base della simbiosi biologica tra uomo e animali domestici (l’animale domestico, meno reattivo e meno provvisto di difese del selvatico ha bisogno della protezione attiva da parte dell’uomo contro i predatori). Il lupo impara presto ad aggirare le difese passive che l'allevatore allestisce per difendere i propri capi. Quando tutti gli allevatori di una zona si sono dotati di cani e di recinti il vantaggio iniziale (consistente nell'indurre il predatore a rivolgersi ad un'altra "dispensa") vengono meno. Due cani sono efficaci nel tenere lontano un lupo "in dispersione" ma, per fungere da deterrente contro i branchi (5-6 individui) necessitano mute di cani in numero superiore ai lupi. Non pochi allevatori sono stati costretti a dotarsi di mute da 20 cani. I costi e le difficoltà di controllare numeri elevati di cani da difesa del gregge aumentano diventando insostenibili anche per grossi allevatori. Inoltre, in area alpina con intensa frequentazione turistica, l'utilizzo di mute di cani di razza adatte alla difesa comporta gravi problemi di convivenza con ... il turista. I lupisti fanno credere al pubblico sprovveduto che i cani risolvano i problemi e che solo la pigrizia, l'avarizia e l'ignoranza dei pastori ne limiti l'impiego. Sono accuse ignobili, specie perché arrivano da gente ben pagata per fare "comunicazione" dietro una scrivania con l'aria condizionata. L'impiego dei cani da difesa sulle Alpi ha già comportato una serie di incidenti (cani di turisti aggrediti a volte anche mortalmente), escursionisti e bikers morsi. Come tutti dovrebbero sapere il cane mordace implica una serie di problematiche (messa in osservazione e controlli, se del caso sequestro e denuncia per omissione di custodia). Ci sono pastori che, subendo già le conseguenze delle aggressioni ai turisti da parte dei loro cani preferiscono farne a meno. Un pastore mi ha dichiarato: "il giorno che uno dei miei cani dovesse uccidere un bambino io non dormirei più la notte, anche se c'era i cartelli, anche se i genitori non hanno rispettato le norme di buon senso, anche se l'assicurazione coprisse e i dammi e io non avesse conseguenze civili e penali".

Il pastore è in trappola perché se non adotta almeno alcune misure di prevenzione si vede negare gli indennizzi (in Piemonte è previsto che un veterinario pubblico certifichi che le condizioni specifiche rendevano impossibile l'adozione di almeno due misure).Da una parte il pastore è costretto ad avere un numero di cani "adeguato" dall'altro, con mute "adeguate" si incappa facilmente nei problemi. Il proprietario del cane è sempre responsabile del proprio animale (cane da guardiania compreso) e dei danni che esso può arrecare a terzi (Ordinanza 13 luglio 2016 che proroga l' Ordinanza 06 agosto 2013 “Ordinanza contingibile e urgente concernente la tutela dell'incolumità' pubblica dall'aggressione dei cani), sia civilmente (Art. 2052 del Codice Civile “Danno cagionato da animali”) che penalmente (art. 672 C.P. “Omessa custodia e mal governo di animali”, ex art. 590 C.P. “Lesione colposa” e ex art. 589 C.P. “omicidio colposo”).

Come se non bastasse diverse amministrazioni comunali hanno già posto limiti all'impiego dei cani. Ma se il cane deve essere legato, se può operare solo in presenza del pastore a cosa serve? Sono problemi che i lupisti non hanno. Loro dormono sereni, tronfi dei loro successi (indubbi, perché i lupi aumentano, i pastori diminuiscono e le tasche lupiste si gonfiano). Loro non hanno responsabilità, non hanno rischi, lasciano che la lotta tra pastori, sindaci, cani, turisti, lupi, pecore si sviluppi in una dinamica di violenza che non potrà che nuocere ai pastori e vederli soccombere, mentre loro potranno guardare i cadaveri che scorrono sul fiume e girarla in modo da avere sempre vantaggi. Un gioco win-win per i lupisti, lose-lose per i pastori. I lupisti lo sanno e ghignano fregandosi le mani vedendo i pastori che sbattono la testa di qui e di là.

Leggi anacronistiche (Convenzione di Berna, Direttiva Habitat), scritte quando il lupo in Europa era al minimo storico, mantenute in vigore (nonostante le ormai reiterate richieste di revisione), sulla base di dati palesemente falsi, favoriscono la proliferazione del lupo. Va però detto che esse consentono, già oggi, un limitato controllo e che è solo la fifa blu delle regioni nei confronti delle lobby animal-ambientaliste che impedisce di applicarle (ne abbiamo parlato qui).

Prima delle attuali campagne di "censimento" del lupo, i risultati dei monitoraggi regionali (che pure, per ammissione di diversi esperti, sottovalutavano la reale consistenza del lupo) quando venivano sommati portavano, anche solo disponendo dei dati di alcune regioni, a superare la “stima” nazionale allora dichiarata. Una “stima” politica, come ammesso dagli stessi esperti che, ad anni di distanza e con il lupo ormai in ripresa ovunque, hanno ammesso di aver esagerato, di aver detto bugie a fin di bene, quando fornivano stime bassissime sulla consistenza della specie negli anni ’70-’80. Il costoso censimento, da tanto tempo in corso, partorirà un topolino: verrà fuori che c'è stato un aumento ma, in termini assoluti molto inferiore alla realtà. Avendo sottovalutato pesantemente la consistenza delle popolazioni nel passato oggi i lupologi, pena smascherare loro stessi, non possono che fornire dati compatibili con una crescita naturale rispetto al dato di partenza. Ovviamente non possono negare che i lupi stiano aumentando (li si vede ovunque, gli incidenti stradali sono sempre più frequanti) ma faranno in modo che l'aumento, sulla carta, sia il più piccolo possibile compatibile con il non scadere nel ridicolo; in ogni caso un dato (come in passato) sarà ancora un dato politico, calcolato con il bilancino della convenienza.

Oltre alle norme anacronistiche di super-protezione del lupo, vi sono poi le decine di milioni dei progetti pro lupo. Oltre l’apparato propagandistico messo in campo direttamente con i vari progetti Life c'è un ampio "indotto", in parte stimolato a bella posta da WolfAlps, in parte prodotto di una lupomania spontanea che viene abilmente indirizzata e coltivata. Ne deriva un poderoso apparato ideologico e culturale (vedasi l’inflazione di film, documentari, saggi, romanzi finalizzati a mitizzare il lupo).

I progetti non rappresentano solo un modo per suscitare atteggiamenti favorevoli al lupo. WolfAlps mette in atto anche delle misure attive: le squadre con i cani antiveleno, il fototrappolaggio, la sorveglianza degli allevatori (con il pretesto di assisterli nell’adozione di forme “personalizzate” di prevenzione). Come se tutto ciò non bastasse si cerca di istituire delle “aree di riproduzione” dei lupi all’interno di aree protette. In Piemonte (qui) una di queste aree è stata istituita in val Chisone (To), altre due, previste in provincia di Cuneo, sono state stoppate quando i sindaci (che si cercava di tenere all’oscuro della manovra) se ne sono accorti. Il lupo non è più il fuocherello che rischia di spegnersi ma un falò. Eppure, si soffia sempre con foga sul fuoco, in ogni modo possibile.


Se le capre, le pecore, gli asini, i bovini e gli altri animali vittime del lupo sono di proprietà dei pastori, degli allevatori (professionali o per passione), così i lupi, sotto il profilo giuridico-formale, sono del Principe (proprietà indisponibile dello stato) ma, nella dinamica sociale, sono chiaramente un bene disponibile per gli animal-ambientalisti. Un bene, sia ben chiaro, non solo simbolico, non solo legato al "valore di esistenza", ma un bene economico. Il lupo è una gallina dalle uova d'oro. Gli ambientalisti rivendicano la tutela, la titolarietà dei lupi ogni volta che fa loro comodo porsi come i tutori della specie, i legali rappresentanti dei suoi diritti. Chiaramente, quando si tratta di danni, allora devono provvedere altri. È sintomatico che mentre la gestione del lupo sia, nell'ambito delle regioni affidata al settore parchi, all'agricoltura si affidi solo il compito di provvedere agli indennizzi. Ai nostri politici, un po' ignavi, sta bene così, ma non c'è nessuno statuto, legge quadro, codice che stabilisca che lupo e orso siano competenza di chi – ovviamente di provata fede animal-ambientalista – si occupa di parchi. Dovrebbe essere competenza del settore che si occupa di fauna, attività venatoria e agricoltura, materie naturalmente connesse (i selvatici si nutrono e fanno danni non su Marte ma sul territorio agrosilvopastorale.

Mentre, per mantenere i loro animali, i pastori e gli allevatori impegnano risorse proprie, per mantenere i lupi gli ambientalisti utilizzano risorse del contribuente e dei pastori/allevatori (che sono chiamati a offrire in sacrificio rituale all’appetito lupino i loro animali). A rafforzare la palese iniquità sociale di questa situazione vi è il fatto che, per gli ambientalisti, la “titolarietà” del lupo è rappresenta un ottimo affare economico. Nell’ambito del progetto WolfAlps II sono già stati assegnati 70 incarichi a “esperti” per importi che vanno da 260 a 20 mila €. Si creano così degli zelanti squadroni di comunicazione (disinformazione, lavaggio del cervello). Costi e benefici del lupo sono ripartiti in un modo che, più iniquo e socialmente sperequato di così, non si potrebbe.

Quella tra lupisti e pastori (il lupo, ripetiamo, è solo un animale inconsapevole che fa quello che l'uomo gli lascia fare) è una guerra con i suoi bollettini, con la sua propaganda, la disinformazione, la controinformazione (i samizdad). In questa sede vogliamo mettere in evidenza, con riferimenti a quello che sta avvenendo in questi mesi, come l'attualità si ponga in perfetta continuità, come già anticipato, con il secolare processo di progressivo esproprio, da parte dei poteri urbani, delle proprietà collettive, delle forme di autogoverno che consentivano una gestione oculata delle risorse. Capire come si colloca quello che sta suvvedendo sotto i nostri occhi in una prospettiva storica è utilissimo che capire il senso di quanto stiamo vivendo. Se riuscissimo ad analizzare la situazione con il distacco degli storici futuri, applicando la stessa lucidità con la quale analizziamo i fenomeni sociali del passato, avremmo già raggiunto un grosso obiettivo.

L'attuale strategia del conservazionismo aggressivo, in Europa come altrove, si colloca nel solco di quel processo secolare di immissione a forza delle popolazioni rurali nell'economia di mercato, nell'esproprio delle ampie risorse collettive (pascoli, boschi ma anche strutture di trasformazione , infrastrutture) possedute dalle comunità rurali. Gli storici fanno di solito riferimento al modello delle enclosures inglesi, il processo che tra XIII e XIX secolo, vide l'esproprio totale dei contadini a favore della borghesia mercantile urbana. Le terre comuni, dove il contadino coltivava per l'economia di sussistenza, vivendo dignitosamente, vennero privatizzate, recintate, trasformate in pascoli per la produzione di lana, i contadini trasformati in una forza lavoro semi-schiavistica, alloggiati in slums con condizioni igieniche allucinanti.

Nell'Italia settentrionale il processo venne completato, in pianura, già nel medioevo, durante il grande boom economico (molto più impetuoso che in altri paesi), che precedette le epidemie di peste del XIV sec. Nel medioevo padano (e di altre parti d’Europa), la drastica riduzione dei boschi (determinata dai fabbisogni urbani di legname, più da opera, per le costruzioni e le infrastrutture, che per l'uso energetico) diede l’occasione alle città di espropriare le comunità rurali dei boschi del territorio di influenza del comune urbano e di gestirli direttamente. La trasformazione dei contadini indipendenti, che potevano disporre di pascoli e boschi di proprietà collettiva, in miserabili braccianti rappresentò l’esito di queste politiche.

In montagna, dove le comunità erano forti e ricche (per via delle attività estrattive, manifatturiere e commerciali), dove il contadino-allevatore era spesso anche artigiano e proprietario di una quota di miniera o forno fusorio “sociali”, l'aggressione ai beni collettivi e alle comunità trovò insormontabili resistenze. Solo dopo la perdita di peso economico della montagna, la messa in campo degli apparati burocratici e militari di comando e controllo dello stato nazionale (nonché di quelli scientifico-ideologici, sorretti da pretestuose giustificazioni “ambientaliste” ante-litteram), i poteri urbano-borghesi poterono piegare le comunità, indebolite anche dai debiti provocati dalla tassazione statale. Eravamo alla fine del XVIII sec. Tale politica espropriativa e di soggiogamento conobbe un crescendo di intensità nel corso del XIX secolo con l’istituzione delle polizie e delle amministrazioni forestali centralizzate e l'approvazione di leggi forestali ispirate da quegli stessi principi che, ancora oggi, il forestalismo ideologico (saldatosi con l’ambientalismo) insiste a far valere, anche a fronte dell’avanzata dei boschi (non solo in Italia e non solo in Europa).


La guerra alle capre come leit-motiv dell’aggressione alle comunità rurali alpine

Oggi si impone la proliferazione del lupo, al di là di ogni ragionevole sostenibilità per le attività pastorali , giustificandola con la “biodiversità” (e facendo finta di non vedere come, nella realtà delle Alpi, la ricchezza di specie di animali e piante sia legata all’attività antropica e alle pratiche agro-pastorali) (vedi qui). Le analogie tra la guerra alle capre, alle pecore ai contadini-allevatori alpini di due secoli fa e l’attuale guerra combattuta con la proliferazione dei lupi, divenuti intoccabili, sono molte e fanno riflettere. Tra Sette e Novecento (nel secolo scorso la “guerra alle capre” conobbe una recrudescenza con il fascismo) si sosteneva che la regressione dei boschi fosse da imputare ai montanari e ai loro animali, mentre la storia insegna che fu il fabbisogno di energia nella fase di sviluppo proto-industriale a provocare la deforestazione (più precoce ed estesa in Inghilterra ma, nel XVIII sec., evidente anche nelle aree a Sud delle Alpi).

Vennero elaborate delle teorie “scientifiche” che incolpavano i montanari del disboscamento e dei conseguenti danni (vedi l’ing. Surell, un amministratore forestale con la sua pubblicazione “Etude sur les torrents des Hautes-Alpes” del 1841). Se Surell se la prendeva con le pecore, il bersaglio privilegiato dei forestali di ogni regime sono state le capre, l’animale più legato all’agricoltura di sussistenza, quello che rappresentava la previdenza sociale per le vedove e le famiglie in difficoltà. Il latte di capra, nella minestra di erbe spontanee, rappresentava la dieta della sopravvivenza. Grazie alle capre, molti montanari, integrando con attività extra-agricole, potevano vivere senza patire la fame. Un grave ostacolo per le politiche che tendevano al tempo stesso a mettere le mani sui boschi per la speculazione sul legname e (due piccioni con una fava) a “liberare” manodopera a basso costo per l’industrializzazione incipiente agli sbocchi delle valli alpine. Per “liberare” la montagna dalle capre si facevano circolare, ancora nell'Ottocento, delle “teorie” secondo le quali il morso della capra risultava velenoso alla vegetazione.

La “guerra alle capre”, si combattè in Francia (Solokian 1988, Matteson, 2006) e in Lombardia e aree limitrofe (Corti, 2006) ma vi sono moltissime tracce nella letteratura di accesi dibattiti tra Otto e Novecento anche in relazione ad altre regioni (fanno riferimento ad essa Barbacetto e Lorenzini, 2021 - in press) nel contesto veneto-friulano). Contro le capre, Giuseppe Gautieri, capo dell’amministrazione forestale napoleonica del Regno d'Italia, restato al suo posto con quella Lombardo-Veneta, scrisse un ponderoso trattato (Gautieri, 1816). Dal momento che l’ipocrisia bi-partisan era in voga già allora, lo intitolò sibillino Dei vantaggi e dei danni derivanti dalle capre in confronto alle pecore. In realtà elencava ogni male possibile come derivante dalle capre. È molto istruttivo leggere Gautieri perché si comprende bene la strumentalità dell'ecocatastrofismo odierno: Scrive il nostro capo della forestale: "Franati i monti, intisichiti pel freddo alle loro falde gli alberi, alzato il letto de’ fiumi e reso incapace a contenere le loro acque che già traboccano e inondano le sottostanti campagne, aumentati ed abbassati i nevali ed i ghiacciaj, fulminati i tuguri degli alpigiani, inaridite alla pianura le messi, mal sicure le case". Una vera Apocalisse. E qual'era il fattore di questo cambiamento climatico, di questi sconvolgimenti e capaclismo: la povera capra. Ma, anche allora, l'obiettivo erano gli uomini.


WolfAlps copia le squadriglie ottocentesche: repressione e intimidazione contro gli allevatori alpini

Gli strumenti della rinnovata guerra degli egoistici interessi urbani contro quello che rimane della realtà rurale e della civiltà alpina assomigliano maledettamente a quelli impiegati duecento anni fa. Prendiamo le “squadriglie”. Oggi son chiamate, con altisonante acronimo anglofono WPIU (Wolf prevention intervention units). L’impiego delle squadriglie trovava una giustificazione “tecnica”: le Guardie Boschive dei singoli comuni (normalmente ve n’era una sola) non avrebbero potuto intervenire da sole per bloccare e sequestrare le capre “in gran numero”. In realtà, impiegando Guardie di altri comuni, si desiderava 1) vincere la scarsa propensione di quelle locali ad intervenire contro gli abitanti del comune (se non altro per timore di rappresaglie); 2) intimidire gli allevatori con lo sfoggio di forza numerica e di personaggi "foresti"; 3) sottrarre operatività ai comuni che, in buona parte del Lombardo-Veneto erano condizionati dalla presenza dei “Convocati generali”, forma moderna dell’assemblea dei capifamiglia (ovvero di tutti i piccoli e piccolissimi proprietari terrieri secondo la riforma delle amministrazioni locali di Maria Teresa). I Convocati, ovviamente, non erano certo intenzionati a ledere gli interessi di una parte considerevole delle loro comunità e mai avrebbero attuato e fatto rispettare dalle guardie campestri una politica di repressione nei confronti dei proprietari di capre. In ogni caso, gradualmente, con le “squadriglie”, si tendeva a passare a un sistema di polizia forestale centralizzato. L’embrione di una polizia forestale era stato gettato con la legge (Regno Italico) del 1804, ma le guardie forestali operavano ancora in ambito comunale, pagate dai comuni, sebbene formalmente agli ordini di superiori. In Piemonte l'Amministrazione forestale centralizzata risale al 1822.
Negli anni della “restaurazione” le squadriglie operavano ormai direttamente, gestite dagli Ispettori, fuori dal controllo dei comuni. È significativo che, ancora negli anni ’50 del XX secolo, le guardie forestali fossero indicate in Valtellina con il termine squadríi e che questa figura rappresentasse, nell’immaginario contadino, la prima forma di personificazione di uno Stato lontano, estraneo e oppressivo, più temibile dei carabinieri e dei giudici. “Lo Stato era considerato un qualcosa di ostile, una minaccia sempre incombente con le tasse, col squadrii (guardiaboschi), coi carabinieri, i giudici e la naja” Bianchini, 1985, p. 75).



Oggi, come due secoli fa, la guerra agli allevatori è combattuta con una propaganda ideologicamente orientata, che si ammanta di giustificazioni “scientifiche” ma che non esita a riesumare anacronistici divieti di pascolo. Vedi a questo proposito la grida di qualche giorno fa della sindaca di Sondalo, (paese della Valtellina dove la capra – frisa – è un culto). La "grida", prevede, come i dispositivi di secoli fa, la facoltà del danneggiato (nella sua proprietà) di catturare le capre sorprese in flagranza di pascolo abusivo.Viene motivata delle lamentele di privati ma cade, in perfetta e sospetta sintonia con la campagna anti-allevatori della dott.ssa Ferloni del servizio faunistico provinciale. La Ferloni ha annunciato (per imporre la “prevenzione” imposta da WolfAlps) che le guardie procederanno a verbalizzare ogni ovi-caprino trovato fuori dalle reti, minacciando anche che nessun indennizzo per le predazioni sarà corrisposto a chi fa pascolare gli animali fuori dai recinti. Dopo questa boutade c'è stata una notevole agitazione politica e la Ferloni è stata , per il momento, messa a tacere dal presidente della provincia.

In realtà, se, da una parte, il conflitto appare meno crudo di un tempo, per molti versi è invece più aspro e sanguinoso. Privare delle capre i montanari delle famiglie povere equivaleva a condannarli all'emigrazione forzata o alla miseria più nera. Oggi c'è il reddito di cittadinanza (non per molti peraltro) e comunque nessuno muore di fame, ma quanta violenza c'è nel lasciare che i lupi si scatenino contro gli animali domestici con il preciso scopo di impedire certe forme di pastoralismo oggi, tutte le altre domani? Quanta violenza sociale c'è nell'utilizzare animali feroci per ottenere lo spopolamento della montagna, l'espulsione di famiglie che abitano da secoli in certi villaggi, in certe valli? Quanta sofferenza, difficili decisioni, sacrifici sono imposti agli allevatori? Quanto sudore a trasportare a spalla le reti? Quanti notti insonni pensando agli animali in pericolo? Quanti litigi in famiglia ("vendiamo le capre!", "No, cerchiamo di tenerle").

Non dimentichiamo la sofferenza degli animali. Quanto sangue di animali innocenti viene versato dai lupisti per ottenere, in modo cinico e spietato, i loro obiettivi? Per i lupisti gli animali domestici non valgono nulla, sono bistecche ambulanti, quindi rimuovono ogni senso di colpa per le sofferenze che i loro lupi infliggono agli animali dei pastori. Anzi, la colpa è sempre degli allevatori, che non sono capaci di custodire ecc. Per i lupisti gli allevatori sono gente ignorante che non sa apprezzare la nobiltà del lupo (eh già, dovrebbero contemplarla, serafici, mentre la "splendida creatura" dilania le carni dei loro animali ancora vivi). Il lupismo avanza in un bagno di sangue, in un mare di menzogne, in un mare di sofferenze e angoscia delle persone. Essendo il montanaro, l'allevatore un villico ignorante è giusto ingannarlo, nascondergli la verità. Il fine giustifica i mezzi. Lo pensavano anche quei simpatici personaggi che hanno fatto morire milioni di persone per convinzioni politiche o razziali. Intanto WolfAlps distribuisce prebende generose a destra e a manca creandosi una rete sempre più vasta di giannizzeri (con tutti i milioni che ha a disposizione). Pare di vivere in una brutta favola di oppressione feudale, un film di Kurosawa, ma è il XXI secolo.

Ambientalismo come copertura della lotta dei ceti dominanti contro quelli deboli (chiamiamo le cose come stanno)

Oggi, le argomentazioni che legittimavano il vecchio colonialismo (che, non dimentichiamoci, ai tempi era salutato dagli intellettuali, dalla chiesa, come missione umanitaria, di progresso, civilizzatrice), sono state “decostruite” (smascherate, parlando in termini più espliciti). Idem, almeno in parte, per le politiche anticontadine e antipopolari attuate dalle élite di un tempo. Non costa molto vituperare Bava Beccaris, che nel gaggio 1898 usava il cannone contro il popolo che protestava per il pane e il lavoro nel centro di Milano. Lo fa anche chi oggi , l’intellighentsia progressista e ambientalista non ha però alcuna intenzione (per ovvi motivi di interessi di casta) a “decostruire” le politiche ambientaliste antipopolari odierne. Eppure la situazione attuale presenta analogie con un passato di privilegio e oppressione.

Duecento anni fa, il pretesto “ambientale” per togliere il controllo delle proprie risorse alle comunità locali e metterlo in capo alle élite locali e ai poteri urbani (capitalisti, tecnoburocrazia) si basava, almeno su un fenomeno reale (la deforestazione). Il meccanismo del potere consisteva, allora, nello scambiare la responsabilità del processo. Venivano incolpati, quindi puniti e repressi, i contadini-allevatori per ciò che era stato causato dalla speculazione. Era quest'ultima, impersonata da impresari pescecane vicini alla politica, che aveva provocato la perdita e il degrado dei boschi. La speculazione aveva gioco facile perché la manifattura, le attività proto industriali avevano fame di energia. Erano energivori i forni fusori ma anche le vetrerie, le filande (le bacinelle con i bozzoli andavano riscaldate). Vi era poi la crescita urbana e il fabbisogno crescente di biomasse legnose per il riscaldamento domestico. In nome della buona gestione dei boschi, l’élite (vedi l’illuminista milanese Cesare Beccaria) proponeva di togliere i diritti sui boschi delle comunità, togliere le capre e… affidare i boschi alle amorevoli cure degli imprenditori del ferro che avevano fame di carbone di legna per i loro alti forni. Non vi erano remore nel favorire chi aveva causato la distruzione dei boschi a danno delle comunità di montagna. Il potere è spudorato. Tanto ha gli apparati ideologici. Ieri come oggi. Unica differenza, oggi pretende anche di essere buonista.

Oggi, la politica di tutela dei boschi è scopertamente e spudoratamente una politica di espulsione dei montanari dalla montagna sinergico con la progressiva diminuzione di spesa per i servizi pubblici e l'aggravio dei carichi burocratici. Contro l’avanzata del bosco (e contro i lupi), il colpo alla nuca alla montagna in difficoltà, il montanaro ha le mani legate. Non importa se entrambi, boschi e lupi, aumentano mentre gli abitanti, gli allevatori, i pastori diminuiscono: i lupi e i boschi vanno protetti a prescindere perché così ha deciso chi comanda. In Europa i boschi, tra il 1990 e il 2020 sono aumentati di 25 milioni di ha (da 202 a 227 milioni). Una superficie superiore a quella del Regno Unito (Inghilterra, Scozia, Galles e Irlanda del Nord). L’Italia ha conosciuto un aumento ancora più imponente passando da 9,1 a 11,4 milioni di ha nello stesso periodo. Eppure, quasi tutto l’impianto delle leggi forestali, improntate al forestalismo ideologico e poliziesco, resta in vigore. Si aggiunge la “protezione del lupo” e il gioco è fatto. Surell e Gautieri erano dei dilettanti.

Pochissime voci si levano a denunciarne le menzogne ambientaliste che perpetuano secoli di politiche anti rurali classiste e razziste (il contadino era considerato alla stregua di un animale da soma dotato, per nascita, di uno stomaco grezzo cui si addicevano cibi grezzi). In realtà il conformismo e il controllo dei media sono tali che nemmeno la drammatica realtà dell’Africa centrale e di alcune regioni asiatiche, fatta di deportazioni, espropri, violenze, marginalizzazione in nome deo conservazionismo riesce a “bucare” sui media. Gli ambientalisti hanno la possibilità di bloccare le notizie che metterebbero in cattiva luce la loro politica. Il terzomondismo e l’anticolonialismo sono evaporati quando, sotto accusa di neocolonialismo, violenze e razzismo sono finiti gli ambientalisti. Solo Survival tra le Ong difende senza se e senza ma i popoli vittime del conservazionismo nordamericano (e in minor misura europeo). Opera non facile perché il Panda è visto nel mondo come un 'organizzazione di santi (ecco spiegato perché investono tanto nella comunicazione).

Su queste pagine abbiamo più volte parlato delle violenze in atto in Africa e in Asia in nome della conservazione della natura e del loro connotato spietatamente di classe. Messo in evidenza non solo dai lauti guadagni del management privilegiato delle organizzazioni ambientaliste (che si scambia le poltrone con i consigli di amministrazione delle multinazionali) ma, ancor più, dalla stessa gestione delle aree protette che rappresentano occasioni di svariati e lucrativi business: dalle raccolte fondi a base emozionale sul web (“salva un orso polare”), al traffico di titoli sulle emissioni e sulla biodiversità, bioprospecting (la biodiversità trasformata in proprietà esclusiva delle multinazionali del farmaco), alla gestione di attività estrattive e forestali “sostenibili”, all’ammissione di ricchi turisti negli stessi parchi da dove gli “indigeni” sono stati scacciati in nome della “conservazione”. Conservazione che si traduce nella salvaguardia di “carismatici”: gorilla, elefanti, tigri, rinoceronti (rettili, insetti, animaletti preziosi per l’ecosistema non “rendono” in termini di capitalismo verde, in specie quell’ambientalismo 2.0 basato sull’uso spregiudicato del web) (Büscher, 2021). Sugli inganni della politica conservazionista, nella sua continuità con il colonialismo e le forme di corruzione che l’accompagnano, vale la circostanziata denuncia "dall'interno" dei kenioti Mbaria e Ogada (2016).


In piccolo, tutto ciò che caratterizza la lotta di classe dei ceti privilegiati contro i contadini, i pastori, i popoli indigeni del pianeta, sta replicandosi sulle Alpi. Il termine di lotta di classe, specie se applicato a quella condotta dall’alto, della piramide sociale contro la base della stessa, può apparire troppo forte. Siamo stati abituati dalla propaganda marxista a pensare che "lotta di classe" è solo quella dei colletti blu contro i "padroni". Non è così. Parliamo, in ogni caso, di concetti ormai sdoganati dopo La rivolta delle élite di Cristopher Lasch (2017), concetti che Diego Fusaro (2018) ha ripreso in termini pertinenti, sottolineando l’inedita, esagerata, asimmetria di potere che oggi, più che di lotta di classe, fa parlare il filosofo di “massacro di classe”. In ogni caso, se pare troppo “forte” l’idea della guerra di classe dei forti contro i deboli, in stile post-moderno, nessuno può negare che sia in atto un conflitto sociale in cui c'è chi, forte e potente, guadagna e chi debole e disorganizzato, non tutelato, ci rimette. Importante è, in ogni caso, chiarire che la strategia del conservazionismo neoliberale, la strategia biopolitica della parchizzazione, della proliferazione dei selvatici fosse considerata inserita nel grande processo di trasformazione in atto (il great reset o Nuovo ordine Mondiale) e non come uno dei tanti episodi di scontro “tutti contro tutti” o frutto di stravaganze ambientaliste. Non c'è niente di stravagante nell'ambientalismo, ma, invece, c'è molto da temere. Quello a cui punta la strategia biopolitica neoliberale è lo sradicamento: dal lavoro, dal territorio, dalle identità solide, per gettare il pastore africano, come quello alpino, nella marginalizzazione, nella precarietà, nell’indistinta moltitudine tanto più vasta quanto più incapace di opporsi coagulandosi in forme di resistenza, a sempre nuove e più pesanti forme di oppressione. D'altra parte i vantaggi per l'ambientalismo e gli interessi che lo finanziano sono anch'essi abbastanza chiari. Il modello africano è istruttivo e può essere applicato anche alle Alpi.

In Africa le compagnie minerarie, del legname, farmaceutiche fanno le loro prospezioni. Non dicono niente a nessuno e se trovano risorse preziose finanziano gli ambientalisti per lanciare progetti di parchi. La scusa si trova sempre, la specie in estinzione che fa alla bisogna salta fuori sempre (basta vedere da noi con quali scuse istituiscono Sic e cose del genere: là una farfalla rara, lì una pianta che deperisce). Una volta che gli ambientalisti sono riusciti a stabilire il parco si scacciano gli abitanti, si tratta con corrotti capi-tribù che si inventano titoli su quelle terre (mentre i veri titolari sono marginalizzati e gettati nella miseria e nella sottomissione di altre etnie). Il parco viene diviso in aree "santuario" e aree dove possono essere attuate attività "sostenibili". Così salta fuori che lì sotto c'erano diamanti o terre rare o altre preziose risorse. Sulle Alpi può darsi che senza di nulla qualcuno abbia trovato risorse ancona non conosciute. Intanto, però, una è nota e sta diventando sempre più preziosa: l'acqua dolce pura. le Alpi sono la più grande riserva di acqua pulita d'Europa. Si devono fare due conti.


La quotazione a WallStreet dei future sull'acqua è riuscita a creare ancora un po' di scandalo. Del resto perché scandalizzarsi se anche l'aria ha il suo prezzo e il suo mercato (titoli di emissione di CO2). I future sono dei derivati finanziari. Un certo impegno a scambiare una certa quantità di un asset ad un determinato prezzo può essere ceduto sul mercato a un determinato prezzo. Un mercato che dipende, ovviamente, dalle aspettative sulla scarsità futura del bene. Le apocalittiche profezie ambientaliste rappresentano una forma di aggiotaggio. Se la quotazione dei future sull'acqua risale al 2020, lo strumento finanziario in quanto tale esiste dal 2023. I fondi pensione internazionali da anni investono in future con alla base diritti di sfruttamento delle acque alpine. Non c'è nessun complottismo. Si tratta , anzi di aprire gli occhi. Una volta tolti di mezzo gli "indigeni", eliminato il popolamento dei piccoli comuni e fatti sparire gli stessi come istituzione (aggregati a comuni più grandi o, meglio non aggregate a nessun comune come succede per alcune aree degli Usa dove non esistono autorità municipali) sarà facile decidere la sorte senza più quei trogloditi tra i piedi. Ricordiamoci che vaste superfici sono di proprietà comunale e che, con l'abolizione dei comuni, potrebbero essere privatizzate o passare al demanio. Su parte del territorio "liberato" dai pellerossa alpini (per i quali non sono previste nemmeno riserve indiane) verranno mantenute o create ex-novo stazioni turistiche extra-lusso per l'élite (che avrà modo di coltivare la passione dello sci o di immergersi nella natura, finalmente, incontaminata). Altre aree saranno adibite allo sfruttamento di quelle risorse di cui non supponiamo neppure l'esistenza o delle quali non conosciamo il futuro aumento di valore (l'élite, però, lo conosce). Le risorse idriche verranno monopolizzate dai potenti gruppi finanziari ma... ci sarà trippa per gatti anche per gli ambientalisti che disporranno di un enorme parco con un enorme numero di parassiti lautamente stipendiati per ricerche inutili, burocrazia. WolfAlps e i Parchi attuali sono un piccolo laboratorio in confronto a una grande industria. Immaginatevi i parchi americani dove non vive nessuno, tranne gli addetti al turismo e i rangers. Un paradiso in terra per gli ambientalisti. Zero pastori, migliaia di guardiaparco, funzionari, scienziati. Molti continuono a ritenere che queste prospettive siano fantascientifiche, "complottiste". Ma i fatti li smentiscono. Gli ambientalisti stanno facendo campagna per far approvare alla Ue l'aumento delle aree protette al 30% del territorio entro il 2020 e nei movimenti ambientalisti non mancano le posizioni che puntano al 50%. Sull'acqua si è già detto come i grandi fondi di investimento stiano già accaparrandosi i diritti di sfruttamento delle acque alpine sfruttando le maglie aperte dalle leggi sulla privatizzazione e dalla cessione delle piccole centrali idroelettriche da parte dell'Enel. Quanto al turismo gli ingenui, che si credono "uomini di mondo", dovrebbero sapere che, gi&grave oggi sulle Alpi stanno sorgendo (ex-novo o tramite la ristrutturazione di nuclei rurali e alpeggi abbandonati) dei resort di estremo lusso dove si arriva in elicottero o, se c'è una comoda pista forestale, con imponenti auto blindate dai finestrini oscurati). Le vede anche un cieco che, fisicamente, antiche risorse pastorali stanno mutando destimazione.

Oggi, sulle Alpi

Anche se gli scenari futuri (non troppo, come abbiamo visto) spiegano tanto accanimento contro chi ancora vive di montagna, in modo indipendente, del suo lavoro, già oggi lo scenario è tutt'altro che allegro. La governance dei grandi predatori è caratterizzata da una fortissima asimmetria di potere, dalla grande difficoltà di far conoscere e valere le proprie ragioni da parte dei soggetti sociali che ne subiscono gli impatti in termini economici e di modifica (quasi improvvisa) delle proprie abitudini di vita. Invece che applicare misure di deterrenza (come almeno avviene nel caso degli orsi), WolfAlps continua a ribadire che i lupi non rappresentano un concreto pericolo per l’uomo (ma hanno già molto cambiato la vulgata ufficiale e, quando si sentiranno ancora più forti, proclameranno che sì, il lupo è un pericolo per l’uomo ma va accettato). Cosa c'è dietro WolfAlps? Vediamo un’organizzazione ramificata ma è solo la punta dell'iceberg, un'organizzazione in via di forte istituzionalizzazione, mimetizzata dietro un progetto da 20 milioni di euro, con potenti legami a livello nazionale e internazionale che ha assunto un potere che scavalca quello delle regioni e che tratta i partner e i loro rappresentanti istituzionali come propri dipendenti. Intanto, oltre a diversi episodi di persone aggredite, si registrano (segnalazioni da varie parte d’Italia sui media locali) innumerevoli casi di cani e gatti sbranati anche nei cortili, fuori delle stalle.



Un problema di sicurezza pubblica che già esiste, ma che viene negato e che le istituzioni (con l’eccezione di sindaci coraggiosi e del presidente della provincia di Verbania) rifiutano di considerare. Come tanti pappagalli ammaestrati, molti amministratori locali si fanno un motivo di puntiglio nel comunicare ai cittadini che: “non c’è alcun pericolo”. Ad Arvier, un paesino valdostano, lo scorso inverno alcuni lupi avevano stabilito la “tana diurna” al centro dell’abitato. Il sindaco, invece di prendere iniziative, ha dichiarato, richiesto da noi di commentare la situazione che vedeva i residenti lamentarsi per dover chiudere i bimbi in casa, che “è tutta una montatura di alcuni cittadini e dei media, io mi sento sereno e tranquillo visto che abbiamo la caserma della forestale”. In Valle d’Aosta la forestale è autonoma e l’entrarvi è aspirazione di molti (è un po’ come in Calabria). Quel che conta è che la forestale valdostana, seppure autonoma, è apertamente lupista come l’ex Corpo forestale dello Stato (ora CC forestali). Così, con i lupi stabili in paese la forestale “monitorava” (stava a guardare i “magnifici animali”). Della presenza dei lupi negli abitati anche in Piemonte avevamo parlato qui. In valle Anzasca (Ossola) la presenza dei lupi aveva anche indotto i CC a stazionare con un’autopattuglia davanti alla scuola di Macugnaga.

Una strategia politica improntata al potere mediatico

Le notizie sulle persone aggredite dai lupi (in alcuni casi provate anche dal Dna), quelle sulle predazioni di animali d’affezione, oltre che di asini, capre ecc. sono confinate nella cronaca locale. Per di più, nella strategia lupista c’è il chiaro obiettivo di “mettere le predazioni sotto il tappeto”. In vari modi l’allevatore viene dissuaso dal denunciare le predazioni. Intanto, ogni regione procede in ordine sparso in tema di procedure di accertamenti e liquidazione degli indennizzi. Alcune si sono affidate a compagnie assicurative private, altre facevano pagare agli allevatori parte del costo dell’assicurazione, altre fanno pagare lo smaltimento delle carcasse. Le cure agli animali feriti a volte non vengono riconosciute. Per gli animali dispersi la maggior parte non riconosce nulla (ultimamente la Regione Piemonte avrebbe introdotto anche questo risarcimento). Vi è poi una grande disparità riguardo all’individuazione del predatore. Alcune regioni rimborsano i danni “da canide” con il risultato che, nei casi dubbi, l’allevatore riceve l’indennizzo ma la predazione non viene imputata al lupo. Il comportamento delle regioni trova una presunta giustificazione del divieto di “aiuti di stato”. Una volta tanto, però, la Ue non centra perché ha in più occasioni ribadito che, essendo il lupo specie particolarmente protetta sulla base della direttiva Habitat, tutti i danni diretti e indiretti provocati dal predatore possono essere risarciti dagli stati (in Italia dalle regioni per competenza costituzionale) al 100% senza essere computati tra gli aiuti di stato (che possono distorcere la concorrenza). Le regioni non vogliono risarcire come potrebbero fare. Questo è il punto. C'è chi lavora all'interno delle regioni perché gli allevatori siano indotti a preferire nascondere i danni subiti a causa del lupo perché reputano (spesso a ragione) di avere più da perdere da una richiesta di indennizzo che da guadagnare. Gli accertamenti dei danni poi vengono eseguiti da personale veterinario che, spesso, è legato ai progetti lupisti o comunque simpatizza per la causa del lupo. Molti allevatori, temendo che durante gli accertamenti, vengano rilevate irregolarità (microchip dei cani, rilievi sul benessere ecc., marche auricolari) preferiscono sotterrare i propri capi. Così, in Italia, i danni da lupo restano “sommersi”. Il lupismo ringrazia. Loro pensano a nascondere i lupi (facendoli “contare” ad ambientalisti incapaci formati da poche ore di corso online), il pastore pensa a nascondere, contro i suoi interessi, i danni. Il risultato è quello che desidera il lupismo per proseguire con i suoi progetti da decine di milioni. Può dichiarare che la convivenza funziona, i lupi sono pochi, i danni diminuiscono. Non si parla ovviamente dei pascoli abbandonati, degli animali venduti, dei sacrifici immani per difendere gli animali. Se i cani di protezione creano problemi (con i vicini, con gli escursionisti, con i bikers, con i sindaci) si fa in fretta a dire che il pastore non è capace di gestirli. WolfAlps gioca facile e non può non vincere.

Qualora, però, venissero fuori i dati reali dei danni e della consistenza dei lupi, l’Ispra e il Ministero non potrebbero opporsi alle richieste delle regioni di piani di contenimento selettivo (previsti dalla direttiva Habitat). Ricordiamo che sono le regioni a stabilire il controllo del lupo come di ogni altra specie di animale selvatico. Con la differenza che quello del lupo /e dell’orso) richiede l’autorizzazione ministeriale.



Molta della “guerra di propaganda” sul lupo consiste nel controllo della diffusione delle notizie. Alcune notizie, prese a sé stanti , potrebbero rappresentare fatti locali, ma se considerate nel loro insieme dipingono un fenomeno chiaro e preoccupante. però resta invisibile sui radar dei media. Quindi della percezione delle persone sono fatti “poco gravi”. I politici, che si basano sulla percezione del pubblico, restano inerti.

A maggio, per due volte, i lupi hanno ucciso dei capi bovini in un’azienda zootecnica della pianura (a Nord della via Emilia). Inizialmente apparsa solo su siti di informazione reggiani, la notizia è poi approdata sul Resto del Carlino, quotidiano a diffusione sovra-regionale, ma sempre nelle pagine locali. Quest’anno si sono verificate le prime predazioni anche nella bassa lodigiana, un fatto significativo, ma ne hanno parlato solo i media della provincia. Il pubblico non deve sapere che i lupi (che scorazzano ormai spesso alla periferia delle città e qualche volta nel centro, vedi episodio di Marostica, di Aosta, di Ancona e di chissà quanti altri sfuggiti ai telefonini) sono spinti a scendere nelle pianure e sulle coste dalla saturazione del territorio (ci sono branchi ovunque) raggiunta nelle zone dell’Appennino settentrionale, ma anche del Piemonte Sud-occidentale. Sono ormai troppi, ma per il lupismo sono sempre troppo pochi.



Il lupo è il cavallo di Troia, il passpartout, l’abile pretesto per costringere i pastori, i piccoli allevatori ad abbandonare la loro attività. L’abbiamo ripetuto da anni allo sfinimento. Ed è proprio così. Come è possibile che una “società democratica” accetti senza battere ciglio che interi gruppi socio-territoriali siano spazzati via per decisioni mai passate al vaglio di un processo decisionale democratico? Risposta: non viviamo in una società democratica ma in una dittatura soft (ma sempre più soffocante, come insegna la pandemia). Le forme della manipolazione per ottenere questa “cloroformizzazione”, per rendere insensibili l’opinione pubblica a qualcosa di socialmente iniquo, sono tante. Il lupismo organizzato, tanto per cominciare, circonda, come abbiamo già visto, di un alone opaco la reale consistenza a livello locale, regionale e nazionale del lupo. Che si imbrogli sui numeri di animali eretti a emblema e strumento delle strategie ambientaliste non è certo una novità. Il caso degli orsi polari, la cui estinzione era annunciata da tempo, ma che godono discreta salute e paiono persino in aumento, è quello più clamoroso. Lo spiega un'esperta di orsi polari in un libro (Crockford, 2019).



WolfAlps conosce la localizzazione della presenza dei lupi ma la rivela con un ritardo che prende a pretesto le analisi del Dna (fatte eseguire nel Montana). Ai sindaci dell’Ossola che, in quanto responsabili della sicurezza, lamentavano come non venissero loro forniti i dati sulla presenza e consistenza dei lupi, WolfAlps ha risposto che non li trasmettono loro per proteggere i lupi dal bracconaggio. Come dire che i sindaci di montagna sono gentaglia complice dei bracconieri. I bracconieri, per inciso, sono coloro che vendono per lucro la preda o il trofeo, ma il termine, caricato dagli ambientalisti da uno stigma di forte negatività è appioppato a pastori e allevatori che difendono la propria attività minacciata in assenza dello stato, genuflesso agli animal-ambientalisti, a gente, parassiti della società che prendono da essa e dallo stato e che restituiscono solo problemi. Ma ciò è oscurato dall’alone di santità che l’ambientalismo si è cucito addosso con investimenti colossali in comunicazione (erano soldi dei petrolieri, gradualmente diventati soldi dei gruppi che hanno diversificato nel gas e nelle rinnovabili).

Se i dati dei monitoraggi dei lupi vengono diffusi dopo oltre un anno che utilità possono avere per i pastori e gli abitanti dei piccoli centri di montagna? Il pastore vuole sapere se dove porterà gli animali al pascolo ci sono branchi, nel caso adotterà a malincuore costose misure di protezione, il raccoglitore di funghi è più tranquillo se sa dove sono i lupi. Chiaro che WolfAlps gestisce il monitoraggio per proteggere i lupi. Se in Italia il padrone è WolfAlps, il lupo è sacro e intoccabile e i villici pezze da piedi (ricordarsi che per gli animal-ambientalisti l'essere umano è un parassita in sovrannumero), In Svizzera, Canton Grigioni i dati sulla presenza del lupo sono forniti in tempo reale con una app disponibile per tutti.



Ma dei pastori e dei residenti chi si preoccupa, chi li tutela? Dove sono le Regioni, i Prefetti? Si sostiene a parole di voler “mitigare il conflitto” ma, in realtà, si cerca solo di soffocare e tenere nascoste le voci di sofferenza, di monitorare, oltre ai lupi, i pastori e chi osa dissentire sulla politica lupista. Prendiamo le fototrappole per il monitoraggio. Vengono collocate senza dichiarare dove. Solo in qualche caso il cartello è vicino. Alle richieste di fornire le coordinate si oppone, anche in questo caso, un diniego. Il motivo è sempre lo stesso: WolfAlps protegge i lupi, l'espansione del lupo per la precisione, non protegge gli allevatori, anzi. Siccome le fototrappole vengono collocate dove ci sono i lupi, dichiarare dove sono equivale a far sapere dove sono i lupi e, dal momento che per i lupisti ogni pastore, ogni allevatore è un potenziale bracconiere, un nemico, non lo deve sapere. Quella della convivenza e della mitigazione del conflitto è solo l'ipocrita messa in scena, la facciata perché, per ora, il lupismo non può permettersi, per salvare le apparenze, di proclamare che per loro l'unico allevatore buono è quello che cessa l'attività. "L'unico indiamo buono è quello morto", proclamava Buffalo Bill. Più o meno siamo a quel livello.

Per proteggere i loro lupi stanno mettendo in atto forme attive, occhiute, poliziesche, intimidatrici di sorveglianza e controllo del territorio. Non solo con le pattuglie antiveleno, che perlustrano il territorio con esibizione di forza intimidendo implicitamente i pastori, ma anche con le fototrappole. È tutto da verificare che ogni fototrappola sia convenientemente segnalata a termini di legge e risulta che solo le Aree protette dell'Ossola abbiano predisposto un protocollo per tutelare la privacy delle persone "finite nella trappola" (una circostanza che, peraltro, indica come sull'utilità dei cartelli, gli stessi enti che collocano le trappole abbiano dei dubbi). I cartelli, infatti, vedi la foto sotto annunciano infatti che "lungo la pista forestale" è stata collocata una trappola ammonendo che i responsabili dei danneggiamenti e furto saranno incriminati per "interruzione di pubblico servizio". La protezione della privacy fatta così è quindi una vuota formalità in linea con il crescente clima di sorveglianza sociale che la pandemia ha aiutato a rafforzare. Mettere un cartello all'inizio di una pista lunga chilometri è come mettere al confine di un comune "territorio videosorvegliato". In ogni caso, ribadiamo, questo non è un servizio pubblico (anche se riescono a farlo passare per tale grazie allo strapotere politico delle lobby animal-ambientaliste e all'ignavia delle istituzioni), è un servizio al lupo e ai suoi sponsor. A volte il fototrappolaggio è "mirato", ovvero che i dispositivi vengano collocati nei pressi di baite di cacciatori (che, ovviamente, se le trovano le mettono in condizione di non nuocere). C'è una sottile strategia per far sentire il montanaro, pastore, allevatore cacciatore (spesso i cacciatori in montagna sono anche allevatore), un potenziale criminale da sorvegliare. Tutti devono sentirsi sotto controllo abbandonando ogni velleità di autodifesa. Come in tutte le situazioni di conflitto vi è poi l'eterno timore delle spie e dei doppiogiochisti (che in categorie deboli sono sempre rinvenibili senza eccessiva fatica).


Si distaccano, o almeno tentano di farlo, dalla politica generale di WolfAlps le aree protette della val d'Ossola. Qui, dove provincia e molti sindaci si sono schierati con gli allevatori si tenta, per iniziativa della presidente dell'ente Vittoria Riboni (che ha la fortuna di operare in un contesto meno "militarizzato" di quello in cui si è trovato a operare Mauro Deidier) un confronto con amministratori e allevatori che altrove non si ritiene necessario (perché non vi sono amministratori e allevatori che protestano in forma organizzata e continuativa sul tema). Però anche le Aree protette dell'Ossola, non sono esenti dallo zelo lupistico del personale che vanifica la buona volontà della presidente. I dati delle fototrappole vengono raccolti dal Parco in collaborazione con la Polizia provinciale ma poi il presidente della provincia, Arturo Lincio, lamenta di non disporre dei dati per quanto richiesti (non c'è meravigliarsi perché le Polizie provinciali, che erano state adibite a ruoli da vigili urbani sulle strade hanno accolto con entusiasmo la prospettiva di collaborazione con WolfAlps che li fa sentire rambo o, quantomeno, rangers. Quindi fanno riferimento volentieri al capoprogetto (Parco Alpi marittime) piuttosto che al loro ente.Funziona così anche per altri enti.

In realtà i dati, quelli ufficiali sulla consistenza e presenza dei lupi (che dipendono dalle analisi del Dna eseguite, chissà perché, nel Montana) arrivano sempre con il solito ritardo più che annuale e tutt'oggi viene dichiarato un numero di branchi inferiore a quelli che gli allevatori, putroppo per loro, sono costretti a constatare. La cruda realtà è che molti si trovano un branco di 5-6 lupi vicinissimo a casa, ma questo branco "non risulta". A WolfAlps nulla interessa dell'allevatore, dei sindaci, dei cittadini che hanno paura ad andare in montagna. Le moderne tecnologie consentirebbero, utilizzando i dati delle fototrappole e degli avvistamenti e predazioni di disporre di mappe in tempo reale consultabili dai cittadini in tempo reale ma... WolfAlps non vuole la trasparenza e le istituzioni non hanno la forza e il coraggio di pretenderla perché chi comanda è WolfAlps (ovviamente grazie agli agganci negli apparati regionali dei CC forestali, del Ministero, dell'Ispra, dei Parchi). Dirigenti e funzionari di tutti questi apparati pubblici rispondono alla loggia del lupo. Non ai responsabili politici. Specie se questi ultimi per quieto vivere o per tema di ricatti e scherzi della magistratura... tengono un basso profilo.

Viene da chiedersi se, sotto mentite spoglie, non ci si trovi di fronte, con le squadre di WolfAlps, a una riedizione della Milizia Forestale, a un corpo di polizia che, invece che combattere il lupo, come la storia Louveterie francese, lo protegge (contro il montanaro). Chiariamo subito, però, che la Milizia Forestale fascista, oltre a funzioni di polizia e repressione, si impegnò molto in sistemazioni idraulico-forestali e nella bonifica montana, nel quadro di un regime in chiaroscuro in cui convivevano pulsioni ruraliste e sociali (che portarono alla bonifica integrale, all'assalto al latifondo siciliano e – in tutta Italia – a un welfare state tra i più avanzati dell'epoca, specie considerando il Pil dell'Italia). Però il regime aveva anche pulsioni pesantemente autoritarie e poliziesche (Serpieri e Bocchino, la bonifica integrale e l'Ovra) e la fissa di un forestalismo ideologico che faceva a pugni con il ruralismo. Le camicie verdi di oggi (la milizia forestale era composta da camicie nere "speciali", ma comunque camicie nere, ovvero MVSN, come si vede dalla foto sotto) sono però nettamente peggio del modello autoritario "classico". Rimasta l'arroganza poliziesca non si rimboccano mai le maniche, come i vecchi forestali fascisti e post-fascisti... e girano comodamente in fuoristrada.


L’insolenza con la quale WolfAlps risponde ai rappresentanti eletti – che, con tutti i loro limiti, rappresentano, almeno simbolicamente, la generalità dei cittadini – è tipica del lupismo organizzato che, non a torto, sente di essere titolato di un potere reale (conferito dal deep state) e considera i rappresentanti delle istituzioni dei poveretti, dei burattini con pura funzione cerimoniale e di ratifica notarile di decisioni prese da chi detiene il potere effettivo (le lobby come la loro, cui fanno riferimento anche i dirigenti regionali). Li devono sopportare (sperano non per molto), li trattano con sufficienza anche ai convegni dove, forti del loro potere, convinti che nessuno sia in grado di contrastarli, sfoggiano un’arroganza, un trionfalismo autocelebrativo da regime totalitario che difficilmente si vede in giro.

Nella sua lettera di contestazione dei metodi e dei criteri di spesa di WolfAlps (sbilanciati in modo macroscopico verso la propaganda), Mauro Deidier, presidente del parco Alpi Cozie, uno dei partner principali di WolfAlps, aveva toccato, lo scorso inverno, il tema cruciale del budget destinato alla comunicazione. Dopo varie vicende, Deidier, che era (e rimane) un punto di riferimento per quanti non vogliono subire l’imposizione della politica lupista (la sua lettera, il suo j'accuse nei confronti di WolfAlps avevano suscitato vasta eco in diverse regioni, non solo in Piemonte) è stato costretto a rassegnare le dimissioni sotto la pressione degli ambientalisti interni ed esterni al parco. Dalla regione che lo ha nominato, ha ricevuto solo un tiepido sostegno.

“Non sono un firmaiolo” diceva Deidier, un presidente passa-carte che obbedisce al direttore e allo staff ambientalista miliziano (al parco Alpi Cozie afferisce Luca Giunti, uno dei conferenzieri di punta del lupismo). Da ex dirigente all’Asl, dove, da competente, si occupava di comunicazione, non intendeva fare la fine dei presidenti che si piegano a svolgere un ruolo di facciata. La vicenda Deidier dimostra che, nell’alternanza delle maggioranze politiche, nonostante cambino i colori dei presidenti dei parchi, essi sono nella maggioranza dei casi gestiti da gruppi ambientalisti (cui appartengono direttori, funzionari e guardiaparco) collegati alle organizzazioni nazionali (più Legambiente che WWF sulla base di una spartizione tra loro di aree di influenza). Dovrebbero riflettere quei sindaci che, per trenta denari, svendono il loro territorio al controllo di enti sui quale i sindaci e la stessa regione, tutti gli organismi elettivi, hanno meno presa delle lobby ambientaliste interne ed esterne. Rivediamo cosa ha scritto Mauro Deidier nella sua famosa lettera, perché è illuminate sulla fenomenologia del potere (strapotere) lupista:

Irene Borgna [responsabile comunicazione di WolfAlps] ha specificato che quando esce il pasticcio (ovvero articoli che mettono in discussione la funzione di tutela o che danno voce alla protesta degli allevatori ) il gruppo mette in campo immediatamente “uno squadrone super efficace della comunicazione e paff si rimedia subito; spiega che nelle strategie di comunicazione sul lupo occorre al contempo ostentare un “candore di colomba” facendo percepire ai giornalisti oggettività e trasparenza ma nel contempo essere “astuti come serpenti” nel manipolare l'informazione segmentando il pubblico dei destinatari , citando poi come buone pratiche l'affermazione del guardiaparco Luca Giunti sulla necessità di “coccolarsi” i giornalisti.

Che dietro questa “strategia di comunicazione” ci sia dietro un’impostazione che “viene da lontano" (dalle stesse tecniche di condizionamento e disinformazione adottate dai regimi totalitari più che dalle tecniche del marketing commerciale, impiegate peraltro anch'esse da WolfAlps) lo dimostra la forte assonanza del “Borgna-pensiero” con le “Strategie di comunicazione” di un “vecchio” Life, in quel caso per l'orso (c'è una lunga serie di Life su orsi e lupi, adesso, invece, arriva Life Linx... in attesa di Life canis aureus e di chissà cos'altro si inventerà la macchina dei soldi e di potere conservazionista). Come si vede dalle seguenti note, da parte degli orsolupisti si teorizza la manipolazione dell’informazione: gli episodi “critici” vengono affrontati distraendo il pubblico con informazioni positive o mettendo in campo personaggi noti al grande pubblico.

... è oltremodo importante stabilire un canale diretto di informazione con i mass media: un metodo efficace è sicuramente quello di avviare buone relazioni personali con alcuni giornalisti, favorevoli alla presenza dell’orso (giornalisti "amici dell’orso"), referenti locali in materia. Ciò è, infatti, di solito sufficiente ad evitare una ricerca autonoma di informazioni da parte dei mass media, con il pericolo che vengano utilizzate fonti poco competenti o attendibili. In caso di ‘crisi’ poi con l’intento di sgombrare il campo da falsità e esagerazioni, oppure distrarre l’attenzione dagli eventi negativi proponendo notizie positive sugli orsi, non attinenti agli eventi in corso. A seconda delle relazioni esistenti con gli organi di stampa, ciò può avvenire informando i mass media senza apparire in prima persona oppure organizzando conferenze e/o comunicati stampa. I giornalisti "amici dell’orso" (si vedano le fasi di ‘preparazione dell’arrivo’ e di ‘routine’) sono essenziali per raggiungere tali obiettivi, sebbene spesso nei momenti di sovraesposizione le cronache vengano realizzate anche da altri, può essere consigliabile spiegare chiaramente gli avvenimenti. In relazione alla situazione in corso, potrebbe risultare utile organizzare un pronunciamento pubblico o un’intervista in favore dell’orso (magari mediante una conferenza stampa) da parte di un noto esperto o di una ‘celebrità’ nel campo della conservazione della natura: la sua opinione verrebbe infatti considerata molto più autorevole di quella degli esperti e dei tecnici locali e potrebbe avere un effetto tranquillizzante (Life Co-op, 2005).

Di recente, WolfAlps II ha dato grande risalto al primo corso di aggiornamento per giornalisti. Gli allevatori dei gruppi piemontesi che intendono tutelare la loro categoria dalla proliferazione del lupo e dalla politica della sua intoccabilità, hanno scritto alla responsabile del corso (la direttrice della Comunicazione, rapporti con i cittadini e il territorio della città metropolitana di Torino) per chiedere una “terza giornata”, ovvero per sentire l’altra campana, per conoscere la realtà del lupo "vista dall'altra parte". È stato risposto che la cosa verrà sottoposta al partenariato di WolfAlps. Possiamo immaginare l’esito. Ovviamente gli allevatori non proponevano di modificare le attività di WolfAlps e di interferire nella sua programmazione. Proponevano un’iniziativa del tutto indipendente, pensando di rivolgersi a una giornalista di un ente pubblico che, oltretutto, cura i rapporti con i cittadini e il territorio e che avrebbe potuto girare la proposta ai colleghi. Invece, ha preferito chiedere a WolfAlps, il Dominus che è diventato il padrone delle istituzioni (ai tempi della giunta regionale precedente – quella del superlupista Chiamparino, esponente della sinistra bancaria torinese – WolfAlps scriveva anche le delibere).



Il lupismo, del resto, come altre forme di ambientalismo (rinnovabilismo, climacatastrofismo, parchismo ecc.) non avrebbe neppure bisogno di certi “mezzucci”, tanto trova le porte spianate nei media, sia perché essi devono seguire le linee editoriali imposte dai finanziatori e dai grossi commitenti di inserzioni pubblicitari, sia perché i giornalisti sono nella maggior parte allineati al politically correct e quindi all'ambientalismo. Quest'ultimo ha da tempo, nel contesto occidentale, acquisito una fortissima capacità di presa sui media (Anderson, 1997; Brockington, 2008) e, di fatto, può far credere che il bianco sia nero e viceversa. Il lupismo ha quindi un forte controllo sui media dove, le notizie negative, come abbiamo visto non hanno impatto se non locale. Al grande pubblico arrivano solo messaggi pro lupo.

Tanto potere dell’ambientalismo, deriva da alcuni elementi che qui non possiamo approfondire ma che abbiamo già trattato in precedenti articoli:

1) una grande disponibilità economica (il caso di studio di WolfAlps lo evidenzia anche a livello di micro analisi);

2) l’aver preso il posto nei cuori e nelle menti delle masse spaesate e disincantate della religione, colmando la domanda di valori e risposte assolute, la domanda di sacro, assumendo a tutti gli effetti il ruolo di Nuova religione, con i sui sacerdoti, le sue profezie, le sue apocalissi, i suoi santuari (i parchi), i suoi idoli (gli animali carismatici), i suoi santi e profeti (la pulzella svedese), il senso di colpa e di peccato (emettere CO2, mangiare troppo), le sue indulgenze (i certificati di sostenibilità rilasciati alle industrie), la redenzione (il veganesimo, le rinnovabili);

3) la trasformazione della sinistra da “sociale” a “culturale”, con il ritorno nel solco borghese liberal-libertario-libertino delle origini e il troppo palese riferimento all'élite con il vuoto da essa lasciato, per certi versi (un sistema solido di valori).



C’è anche un crescente controllo sul territorio e sorveglianza poliziesca sui pastori e montanari

Il lupismo, battistrada del parchismo e della “pulizia etnica” delle aree rurali, non utilizza (ancora) violenze aperte, come il conservazionismo in Africa e in Asia, ma utilizza forme di violenza economica e psicologica: pressioni, tentativi di dividere gli allevatori e di usarli gli uni contro gli altri (con promesse di “aiuto personalizzato”, premi, minacce di perdita di contributi e indennizzi), sfruttando l’avidità e l’ignoranza di alcuni, le oggettive difficoltà di altri, la condizione dei neo-rurali che si identificano più nell’identità cittadino-ambientalista che in quella rurale. Sanno individuare bene i soggetti più deboli e li usano come testimonial contro la categoria. C’è tutto l’armamentario di una relazione asimmetrica dove, da una parte c’è il lupismo istituzionalizzato (la lista dei partner istituzionali di Wolf Alps II è lunghissima) e dall’altra il singolo allevatore, scarsamente propenso all’aggregazione politica, tutelato sulla carta da organizzazioni professionali a dir poco "trasformiste" che, spesso e volentieri, partecipano a iniziative trainate da WolfAlps e ad esso affini (vedi progetto Pasturs con la Coldiretti). Il singolo allevatore di montagna, membro di un gruppo sociale debole e disperso, senza forme di aggregazione (i "sindacati" svolgono assistenza per le pratiche burocratiche e fiscali) è facilmente posto in condizione di soggezione con le Autorità, se poi gli si presentano degli squadroni...

Le nuove “squadre” di WolfAlps, che mettono insieme CC forestali e guardiaparco e pattugliano il territorio con i cani anti-veleno non possono non richiamare alla mente le “squadriglie” di ottocentesca memoria. Ieri esse operavano “per il bosco e la stabilità idrogeologica”, oggi per la “biodiversità e per proteggere una specie [pseudo] chiave”. Cosa è cambiato? Sempre di sgherri si tratta, che puntano a intimidire, mettere a tacere soggetti deboli e isolati. Quante volte, alcuni hanno anche testimoniato pubblicamente sul fatto, ci siamo sentiti dire: “mi hanno imposto di non dire niente, tu non hai visto niente” (da parte di guardiaparco o di forestali, compresi quelli delle regioni autonome).

Non giustifichiamo sempre queste persone che si lasciano calpestare. Oggi è meno giustificabile di un tempo non avere alcuna consapevolezza dei diritti di cittadinanza, accettare un mondo dove una divisa giustifica il sopruso e l’arbitro. Molti trovano più confortevole fare i servi che rischiare di “esporsi” per far valere i propri diritti. Il forestarius medievale (lo sgherro dei signori) poteva “abbattere” il bracconiere sorpreso in flagrante nelle riserve signorili (come fanno oggi gli sgherri finanziati dal WWF in Africa e in Asia). Oggi il rischio di “esporsi” si traduce nella perdita di un contributo, in un verbale, alla fine in una punizione economica, arbitraria e odiosa ma non disastrosa. Va però detto che, oltre alle forme di controllo e pressione messe in campo dagli organi pubblici (partner di WolfAlps), il lupismo è sostenuto anche da schiere di sostenitori fideistici. Ci sono gruppi “moderati” come “Io non ho paura del lupo” che fiancheggiano le azioni istituzionali ma anche gruppi di violenti e fanatici. I vari esponenti politici e leader locali che si sono espressi contro il lupo e WolfAlps hanno ricevuto minacce di morte (la lista è lunga). Sui social vi sono folti branchi di lupi… da tastiera pronti ad azzannare con insulti e rigurgiti d’odio (nei confronti dei quali i social a stelle e strisce usano due pesi e due misure) chi sostiene la causa degli allevatori. Qualche giorno fa, in occasione del Giro ciclistico della Svizzera, uno striscione contro il lupo, esposto sul muraglione di un tornante di montagna, è stato vandalizzato. Un esempio dell'intolleranza lupista. Ma ne sono stati esposti, in risposta, anche altri, oltre a quello rattoppato.




Quando il lupo non fa notizia. “Noi non conviviamo serenamente e pacificamente, ci volete uccidere nel silenzio e nella mistificazione”

Il centro di potere di WolfAlps teme solo una cosa: che le notizie sulla protesta sociale degli allevatori circolino mettendo a rischio la narrazione della convivenza. Sinora, sfruttando il monopolio dei media, la cortina fumogena ha funzionato abbastanza bene. Grazie al fatto che le notizie negative non appaiono sui media nazionali, agli allevatori veneti disperati si raccontava che in Piemonte si convive. In Piemonte che in Abruzzo si convive. In Francia e in Germania si racconta che in Italia si convive. Nei risultati attesi del progetto WolfAlps II (12 milioni) i lupisti si prefiggono ambiziosi obiettivi, con un'asticella molto alta. Riduzione drastica delle predazioni, quasi azzeramento dei conflitti, quasi generalizzata accettazione da parte degli allevatori della "convivenza". Gli oppressi devono anche ringraziare e lodare gli oppressori e dichiarare di essere ben trattati (avveniva anche nei gulag e nei lager).

Le proteste italo-svizzere in occasione del Giro d’Italia e del Giro della Svizzera hanno fatto filtrare verso i paesi di lingua tedesca, Germania in primo luogo, l’immagine di una situazione alpina tutt’altro che rassegnata, soggiogata, pacificata. Non ci sono molti altri strumenti. Sul piano della battaglia della comunicazione le forze, come su ogni altro piano, sono impari. Il lupismo ha risorse economiche larghe, ha le istituzioni e le tecnoburocrazie ai suoi piedi. L’unica arma di cui dispongono gli oppressi è quella del ribaltare, sul piano comunicativo, le idilliache narrazioni del lupismo, mostrare le immagini sanguinarie della “libertà di predazione del lupo”, gridare che: “No, noi non vogliamo vendere i nostri animali, non vogliamo nemmeno vederli sbranati vivi, crediamo di avere dei diritti, di svolgere un ruolo utile per la società e l’ambiente. Siamo intenzionati a resistere e a non subire la prepotenza sociale di chi ci vuole morti per i suoi interessi egoistici”.

Ogni protesta che "buca" i media, o che filtra anche solo attraverso i social in altri regioni e paesi europei, smentisce il quadro dipinto da WolfAlps, dalla tedesca Nabu ecc. Il lupismo teme solo che se le proteste si allargassero, le milionate incassate per "mitigare il conflitto" potrebbero essere ritenute da qualcuno a Bruxelles male impiegate. Il lupismo gode si potenti agganci nella burocrazia europea (che sa benissimo che i numeri dei lupi sono taroccati) ma può sempre darsi che qualche altra lobby ambientalista emergente potrebbe chiedere che, dopo la serie infinita di progetti sui grandi predatori, si passi a finanziare qualcos'altro. Tanto più che i lupi creano problemi perché ce ne sono troppi mentre molte altre specie e habitat sono realmente minacciati.


Bibliografia


A. Anderson, Media, Culture and the Environment, London, UCL Press, 1997

G. Bianchini, Gli alpeggi della Val Tartano ieri e oggi. Economia e degrado ambientale nella crisi dei pascoli alpini, Sondrio, Tip. Mitta, 1985

D. Brockington, Powerful environmentalisms: conservation, celebrity and capitalism, in "Media, culture & society", 30 (4), 2008, pp. 551-568

M. Comincini, L'uomo e la bestia antropofaga, Milano, Unicopli, 2002
, in "Media, culture & society", 30 (4), 2008, pp. 551-568

F. Collantes, Élevage extensif, industrialisation et &eacuteconomies montagnardes en Europe occidentale: un sch&eacutema comparatif, in P-Y. Laffont (eds) Transhumance et estivage en Occident des origines aux enjeux actuels, Presses Universitaires du Miral, Toulouse, 2006, pp. 355-366

M. Corti, Süssura de l'aalp. Il sistema dell'alpeggio nelle Alpi lombarde, in "Annali di San Michele" 17 (2004), pp. 31-155

M. Corti, Risorse silvo-pastorali, conflitto sociale e sistema alimentare: il ruolo della capra nelle comunità alpine della Lombardia e delle aree limitrofe in età moderna e contemporanea, in "Annali di S. Michele", 19 (2006), pp. 235-340

M. Corti, Le contraddizioni del rapporto tra uomo, animali e dimensione selvatica nella tarda modernità. La reintroduzione dei grandi predatori nelle Alpi: tra ideologia della wilderness, biopolitica e conflitto sociale, in "Studi Trentini di Scienze Naturali", 91 (2012):83-113

S. J. Crockford, The Polar bear catastrophe that never happened, The Global heating policy foundation, London, 2019

D. Fusaro, Storia e coscienza del precariato, Milano, Bompiani, 2014

G. Gautieri, Dei vantaggi e dei danni derivanti dalle capre in confronto alle pecore, Milano, Tipi di Gio. Giuseppe Destefanis, 1816

C. Lasch, La rivolta delle élite, Vicenza, Pozza, 2017

R. Leo, Lupi e loere a Polaveno (Brescia): indagine preliminare in "Natura Bresciana", 35 (2007), pp. 141-148

Life Coop, 2005 -
Criteri di comunicazione per la conservazione dell'Orso Bruno sulle Alpi. Rapporto redatto nellambito dell'Azione A3 del progetto LIFE Co-op Natura LIFE2003NAT/CP/ IT/000003 (Criteri per la creazione di una meta popolazione alpina di orso bruno) (http://www.pnab.it/Lifecoop/ azione_a3.htm (ora a https://www.pnab.it/info/area-download/?upf=dl&id=7995, consultato 14/06/2021)

S. Marucchi, G.Vacchino, 2009, Lupi e territorio nel biellese in R. Fantoni (a cura di) Atti del Convegno La presenza storiaco di lupo, orso e lince nel Piemonte orientale, Varallo sesia, 23 novembre 2029, pp.7-15 -

C. K. Matteson, "Bad citizens" with "murderous teeth": Goats into Frenchmen, 1789-1827, in: "Proceedings of the Western Society for French History", 34 (2006), pp. 147-161

J. Mbaria, M. Ogada, The big conservation lie. The untold Story of Conservation in Kenia, Lens&Pens, Auburn WA Usa, 016

G. Mencini, Pascoli di carta. Le mani sulla montagna, Kellermann, Vittorio veneto, 2021

D. Solokian, De la question des chevres en France au XVIIIe siecle, in "Ethnozootechnie", 41 (1988) pp.33-46





Articoli correlati



Il lupo agita la Valtellina

(12/05/2021) Alla fine di aprile si sono verificate una serie di predazioni da lupo in val Fontana, valle "incastra" tra la Valmalenco e la grigionese Valposchiavo. In quest'ultima valle, lo scorso anno il lupo era stato avvistato e aveva colpito molto vicino al confine con la Lombardia. Però il servizio faunistico provinciale , i CC forestali, l'Ersaf tutto l'apparato pubblico che si è messo entusiasticamente al servizio della lobby del lupo, si è ben guardato di avvisare gli allevatori. Così sono stati colpiti pesantemente. Una delle aziende con pecore della valle (che gestisce tutto l'anno un agriturismo a oltre 1400 m), ha trasferito senza indugio le proprie pecore, in buona parte della rarissima razza ciuta, in località piuttosto distane sul fondovalle valtellinese. Nel frattempo si è diffuso un forte allarme tra gli allevatori che in Valtellina conservano oltre alla pecora ciuta anche la capra orobica, la capra frisa e la vacca bruna originale. Le durissime dichiarazioni contro gli allevatori della dirigente, dott.ssa Ferloni del servizio faunistico, palesemente di orientamento lupista (come tutti i suoi colleghi in Lombardia e forse in Italia, chissà come mai?) che minaccia di negare qualsiasi indennizzo per animali fuori dai rtecinti, hanno sollevato un vespaio di polemiche, con l'ex presidente della provincia, il sindaco di Chiavenna che si è schierato senza esitazione con gli allevatori.



Il lupo minacciato dai suoi protettori

(12/04/2021) L'emergere della presenza di ibridi anche sulle Alpi, sin qui negata come fake news dalla lupologia e dagli ambientalisti, ora viene giudicata una catastrofe da Boitani (che diceva, interviste allo stesso giornale, che erano ... cazzate). Ora chiede la rimozione senza indugio degli ibridi e spara contro il "sistema". Un sistema la cui governance ha pilotato per decenni. E nel frattempo arrivano i risultati di una ricerca sull'Appennino settentrionale che conferma una fortissima percentuale di commistione genetica. Sulle Alpi, a fare disastri, sono arrivati lupi fortemente introgressi. Lasciando fare loro quello che più gli aggrada (fino a stazionare nei centri abitati) ci sarà una nuova ondata di ibridi di prima generazione. Con la irreversibile compromissione del genoma lupesco (estinzione genomica mentre il "lupo" dilaga). Estinzione del vero lupo (quella "meravigliosa macchina prodotto di millenni di evoluzione") ed estinzione dei pastori e della civiltà rurale alpina. Un ottimo risultato. Vale la pena dare ancora più finanziamenti ai lupisti.


Allevatori ossolani contro WolfAlps

(07/04/2021) Gli allevatori ossolani delComitato di salvaguardianon le mandano a dire a WolfAlps. Si rifiutano di rispondere all'ennesimo questionario, di collaborare con chi vorrebbe che smettessero la loro attività (in Ossola i sistemi di alpeggio sono incompatibili, nelle condizioni attuali, con una massiccia presenza del lupo). Con chi, oltretutto, vorrebbe passare comesuper partes, finge di voler aiutare gli allevatori nel mentre nasconde loro anche la presenza dei lupi e poi pretende anche di essere riverito, un po' come un boia che esiga la collaborazione delle sue vittime. C'è una grande dignità e consapevolezza in questi piccoli allevatori: Davide contro Golia, ma non si rinuncia a lottare. La bandiera rurale-contadina-montanara della capra contro quella ambientalista-urbana del lupo. Oppongono alla macchina da guerra di WolfAlps i loro poveri mezzi, tra un'uscita al pascolo, una foraggiata alle capre e la preparazione di un formaggio, bloccati dal lockdown (che favorisce le grandi organizzaizoni abituate al lavoro in remoto e tecnologicamente attrezzate). A loro tutta la nostra ammirazione, agli arroganti signorotti feudali di WolfAlps, tutto il nostro disprezzo.



Bold wolves: lupi pericolosi

(06/03/2021)In paesi a noi vicini, con presenza di lupi estremamente più limitata rispetto a quella italiana, sono stati adottati dei protocolli per tutelare l'incolumità delle persone dal rischio bold wolves ,ovvero lupi spavaldi, problematici e pericolosi. In Italia, invece,siparla più spesso di "lupo confidente", e si vuole far credere che il problema dei lupi nei paesi, sia solo quello di giovani lupi "curiosi", semmai diventati "confidenti" per una ripetuta frequentazione degli abitati e per colpa si comportamenti "scorretti" degli incauti umani. Tutta questa sottovalutazione di in problema ormai palese e grave e l'assenza di iniziative e di regole è possibile perché WolfAlps e i suoi tentacoli hanno il monopolio di tutto quello che riguarda il lupo. Loro fanno le regole, loro monitorano, loro valutano, loro comunicano, loro decidono. Ma possiamo attendere che WolfAlp (che per ora prevede solo di studiare il fenomeno dei bold wolves) decida - in funzione della sua strategia di presentazione di nuovi progetti - che è tempo di darsi qualche regola e di intervneire sui lupi che scorazzano in pieno giorno, sbranano animali domestici, spaventano intere comunità. In altri paesi chi si occupa di lupi fa di tutto per tutelarli ma dichiara che c'è un problema di lupi pericolosi e che va affrontato. Il che vuol dire, considerando che altri metodi sono poco efficaci, abbattendoli.


Ferito al volto da un "canide" a Belluno

(29/03/2021) è successo a Sedico, comune in provincia di Belluno confinante con il capoluogo, dove i lupi sono stati avvistati lo scorso anno. Sabato notte un trentenne, che insieme alla compagna portava i cani (al guinzaglio) a fare i loro bisogni nei pressi dell'abitazione, è stato attaccato da un "canide" riportando ferite lacero contuse su entrambe le guance (una delle quali risultata perforata "ci passava la lingua attraverso"). L'animale responsabile dell'attacco si è allontanato e nel buio e nella concitazione non è stato possibile capire se fosse un cane o un lupo. I cc forestali, protettori dei lupi in divisa, sono stati informati e ci si aspetta che facciano indagini, cosí come l'Ussl che deve obbligatoriamente rintracciare il cane mordace (se fosse cane).



Provocazione lupista al Film Festival di Trento

(25/03/2021) Il manifesto con il lupo che ulula alla luna, sullo sfondo di una montagna spettrale, senza segni di vita, è un violenta, arrogante, sgradevole provocazione alla gente trentina, della montagna alpina, a tutto il "contado" italiano alle prese con il proliferaredel lupo,fortemente voluto dall'elite urbana e dai suoi tirapiedi. Uno strumento per una nuova soggezione,simbolica e materiale, del contado, dei "villici" alla città (oggi metafora dell'elite euromondialista). Quello che conta è che queste provocazioni determinano la riproposizione, un allargamento della frattura tra "contado" (comitatus) e "città" (civitas) impostata tra XII e XIII secolo (in epoca di assoluto dominio del comune cittadino sui territori) e parzialmente ricompostasi nei secoli successivi. La montagna oggi è l'anello più debole che viene investita dal fronte di attacco, ma il conflitto città-campagna non è più esclusivamente su una base territoriale: è l'attacco spietato - favorito dalla pandemia -a tutte le piccole realtà economiche dei settori produttivi e terziari.


Il lupo dilaga nella pianura padana

(21/03/2021) Segnalazioni di presenza di lupi, anche in branchi, arrivano in questo finale di inverno dal Piemonte, dalla Lombardia, dall'Emilia, dal Veneto. I lupi sono stati visti sin nei comuni capoluogo o in grossi centri. Nel lodigiano c'è voluto il solito investimento del predatore, dopo un attacco dentro un ovile, per "certificare" la presenza del lupo. Ma da anni sul basso corso dell'Adda, nel parco del Ticino, nel delta del Po vi sono dei branchi. Per la lupologia "non esistono" e le aree di pianura sono state escluse dal monitoraggio del lupo. Si ammette solo la presenza di soggetti "in dispersione". La palese, sistematica, disinformazione da parte di organi pubblici sulla presenza del lupo, la gravissima assenza di protocolli (che esistono nel caso dell'orso) per la gestione del lupo nei centri abitati, dovrebbero spingere le istituzioni elettive ad avviare delle inchieste. In compenso vengono dispensati "Vademecum" per spiegare che il lupo non è pericoloso ma... bisogna chiudere al sicuro gli animali domestici ecc. Ai cittadini si nega, il diritto all'informazione e alla sicurezza, in barba alla democrazia e alla legalità, da parte di un "deep state" incistato dentro le istituzioni (polizie provinciali, parchi, servizi faunistici, cc forestali, servizi parchi regionali) che obbedisce a centrali lobbystiche di parte.


Il cane pastore della Sila. Un cane per le Alpi.

(13/03/2021)La vicenda del cane Pastore della Sila testimonia quanto sia importante la conservazione delle razze autoctone. Di fronte a nuovi problemi, o a problemi che si pensava superati e che si ripresentano con prepotenza, (vedi quello del lupo), la sopravvivenza, in aree dall'ambiente difficile, di particolari razze animali rappresenta una risorsa preziosa. L'ambiente della Sila è, per morfologia e tipo di vegetazione, più simile a quello delle Alpi rispetto all'Appennino centrale dove è stato selezionato il mastino abruzzese. Sulle Alpi, dove gli antichi cani guardiani si sono estinti insieme al lupo, i pastori devono fronteggiare il ritorno massiccio del predatore, in un contesto di pascoli spesso scoscesi e inframmezzati da vegetazione arborea e arbustiva; oltretutto in presenza di una intensa frequentazione turistica. L'impiego di un cane come il Silano, meno aggressivo nei confronti dell'uomo rispetto ad altre razze di cani guardiani, si prospetta quindi come un'opportunità per i pastori alpini. Un fatto nuovo che rappresenta anche per il Pastore della Sila un'occasione unica per espandersi in diverse regioni del Nord Italia.


La Germania infrange il tabù del lupo

(24/02/2021) In Germania, nella Bassa Sassonia, un lupo è stato abbattuto legalmente qualche giorno fa per tutelare gli allevamenti dai gravi e ripetuti attacchi predatori. È la prima volta che accade. Quello che appare un fatto "eccezionale" è l'anticipazione di un auspicabile ritorno alla normalità (come sottolineato dallo stesso ministro dell'ambiente della Bassa Sassonia), un ritorno al buon senso che suggerisce che animali pericolosi e dannosi non possono essere lasciati proliferare con "licenza di predazione". In Italia, che non è un paese "normale", occorrerà ancora del tempo.


Prof. Cavallero: troppi lupi in Piemonte

Andrea Cavallero è uno di quei rari accademici che non si tira indietro quando si tratta di esprimere, senza mezzi termini, idee non conformiste. In questo articolo, che pubblichiamo molto volentieri, Cavallero sostiene delle tesi che risulteranno sgradite a tanta parte del mondo politico, intellettuale, universitario. Cosa sono servite, si chiede l'autorevole agronomo torinese, tante acquisizioni scientifiche, tanti studi sui pascoli e sulla loro gestione se poi tutto deve essere sacrificato al lupo. E chiarisce che, nel contesto alpino, il lupo è una minaccia per la biodiversità alpina. Lo sostiene a ragion veduta, in scienza e coscienza, sapendo di andare contro quei dogmi ambientalisti che, piegando servilmente la testa, anche gli ambienti scientifici (non esclusi quelli agrari e zootecnici), sono disposti ad omaggiare. Ma Cavallero non ha paura di apparire eretico (un tempo lo era chi sosteneva che la terra gira intorno al sole) e pone la politica di fronte a una scelta per la quale non esistono scappatoie: in montagna scegliete il lupo o l'uomo?


Non solo Covid: in montagna è emergenza lupi


In valle Anzasca (Ossola), i lupi ci sono da tempo. I signori del lupo (quelli di WolfAlps), forti dei milioni di cui dispongono, si sentono in diritto di rispondere ai sindaci che i dati sui monitoraggi sono "riservati". A loro interessa solo proteggere i lupi (che non ne hanno più bisogno) ed evitare l' "allarmismo". Alla gente continua a venir detto da pubblici funzionari che "sono cani" e non i loro lupi. Ma ci sono le prove. Quando la magistratura inizierà a occuparsi di questi abusi di potere e falsi ideologici? Intanto la situazione di chi vive nelle valli è di vera e propria emergenza a causa della politica (Regione Piemonte in primis) che ha abdicato in modo vergognoso alle proprie prerogative a favore della lobby del lupo. Di seguito un intervento di un rappresentante del Comitato salvaguardia allevatori della val d'Ossola, residente a Bannio Arzino in valle Anzasca.


Con le norme attuale si potrebbe contenere il lupo. Non si vuole farlo

(17/02/2021) Tra le tattiche del partito del lupo, vi è anche la bufala dell'intoccabilità della loro "gallina dalle uova d'oro". Sono stati abili (e disonesti) a celare i dati ruali sulla consistenza della specie, a fare in modo che gli allevatori si scoraggiassero e non denunciassero piUgrave le predazioni. Sono stati abili a convincere le regioni e i politici che "la UE non consente di abbattere i lupi". Ma la verità è un'altra. La Francia preleva ogni anno il 20% della popolazione lupina. Senza infrangere la direttiva Habitat. Le regioni hanno il diritto/dovere di monitorare e controllare la fauna dannosa (ancorchè iper-protetta), anche il lupo e l'orso. Nei modi previsti dalle normative. Vediamole e facciamo chiarezza.


Colpo di mano a Cuneo della banda del lupo


(11/02/2021) Con il solito colpo di mano (20 giorni per silenzio assenso, sindaci che non ne sanno niente) il Parco delle Alpi marittime/Centro di referenza grandi carnivori e il il settore Biodiversità e aree protette della Regione Piemonte vorrebbero imporre in due ampie aree SIC di fresca istituzione (in val Grana e in valle Stura di Demonte), regole e vincoli specifici per tutelare (dentro e fuori il perimetro dell'area) i siti di riproduzione del lupo. Per fortuna l'operazione cade nel bel mezzo delle polemiche su WolfAlps scatenate dal presidente del parco Alpi Cozie, Mauro Deidier e del dibattito sulla necessità di contenere la proliferazione del lupo. E i comuni interessati sono decisi a non farsi imporre l'ennesima prepotenza colonialista dei centri di ecopotere autoritari.


Barlume di iniziativa politica sul lupo

(03/02/2021) In pochi giorni si sono registrati diverse iniziative politiche contro la politica lupista che mette in ginocchio gli allevamenti estensivi, la montagna le aree interne. Dopo la lettera durissima contro una politica regionale appiattita su WolfAlps, redatta da comuni e unioni dei comuni della provincia di Torino e della val Maira è arrivata la circostanziata lettera di Mauro Deidier, neo presidente del parco delle Alpi Cozie che contesta WolfAlps. Infine &egrace del 29 gennaio una lettera della commissione agricoltura del parlamento europeo che prende una chiara posizione a favore della revisione dello status di iper-protezione del lupo.



Il presidente di un parco partner, dalla parte degli allevatori, spara a zero su WolfAlps

Mauro Deidier, neo presidente del parco delle Alpi Cozie, in provincia di Torino, parco partner di Wolf Alps, ha scritto alla "centrale" di Wolf Alps (e del lupismo), il parco delle Alpi Marittime, per manifestare la sua contrarietà al progetto. Nella circostanziata e densa lettera di cinque pagine, egli rileva come, non solo Wolf Alps operi in modo poco trasparente ma impieghi una quota sostanziosa della pioggia di milioni ricevuti per consulenze. Consulenze a favore della autoreferenziale cerchia lupista. Grave, poi, per Deidier: l'assoluta volontà di manipolare l'informazione e la comunicazione verso il solo obiettivo di creare a tutti i costi consenso attorno al progetto al fine di proteggerlo da opinioni difformi. Sino a vantarsi di praticare con successo il lavaggio del cervello (parole loro) ai danni degli alunni della scuola dell'obbligo.