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(08.09.15)  Si rafforza il mito - fondato su solidissima base storica - del formaggio delle valli del Bitto ovvero di quello che sarebbe bene chiamare ancora con il suo nome storico caseusVallis Biti.  Sulla base di nuovi bellissimi documenti

 

Bitto storico

 

nuovi documenti del '500

 

di Michele Corti

 

 

Cirillo Ruffoni ci ha segnalato nuovi documenti storici che consacrano

già nel Cinquecento il formaggio delle Valli del Bitto quale prodotto con  caratteristiche e prerogative sue proprie, uniche, inconfondibili, che lo rendevano riconoscibile rispetto ai formaggi prodotti in altre zone, tanto da costituire per loro anche un termine di paragone. Scusate se è poco.


 

 

Mantenere il formaggio delle valli del Bitto quello che è, un monumento vivente di storia e cultura, deve diventare un impegno ancora più stingente per chi crede che in un'epoca di crisi - come quella che stiamo vivendo -  preservare patrimoni  di saperi  (e di valori) non rappresenti un lusso ma una necessità primaria.

Non ci aspettiamo che lo capiscano le istituzioni che assecondando un'economia globale che vuole fagogitare la società, annullare la storia, lo spazio, le differenze. Difendendo la storia ci assicuriamo un futuro e la piccola-grande vicenda del formaggio delle valli del Bitto diventa un episodio esemplare di una resistenza che è quella dell'uomo, della società contro la mega macchina.

Quell'aggettivo "storico" è stato attribuito con felice intuizione al formaggio delle Valli del Bitto  per gridare la sua differenza, la sua opposizione a quegli "adattamenti" alle "moderne tecnologie" che ne avrebbero decretato la fine.  Ed è stato capito.

 

Un grande patrimonio, unico, nel suo genere è difeso da gente semplice (uno scandalo imbarazzante per l'establishment)

 

Va comunque sottolineato che i "ribelli del bitto" che si "incaponiscono" a restare fedeli a metodi di produzione tradizionali non sono dei trogloditi o dei sognatori ma si inseriscono in una corrente che vede, all'interno di una società iperindustrializzata, alcune produzioni tornare all'uso di lavorazioni rigorosamente artigianali, rigorosamente eseguite a mano. Non ci sono solo gli abiti sartoriali o le scarpe di lusso ma anche nel campo alimentare i grandissimi vini sono frutto di lavorazioni che escludono largamente quelle operazioni che nel vino "standard" (docg comprese) sono state meccanizzate.  Il punto è che se  questo culto dell'eccellenza è abbinato allo Chateau Lafite Rothschild, nessuno ha da obiettare, non c'è niente che disturbi gli equilibri. Se, invece, la "retroinnovazione"  (come viene definito nella sociologia della produzione il recupero di tecniche tradizionali) nasce dal basso, da una valle di montagna, da dei contadini, da un venditore di piastrelle, allora la cifra sociale del fenomeno si ribalta: non è più un'appendice (segmento di lusso) di un sistema industriale ma qualcosa che viene gestito da chi non deve permettersi di "disturbare il manovratore", di mettere in discussione modelli produttivi (che sono inevitabilmente sociali e culturali). E così la difesa del formaggio storico diventa eversiva.

 

 

C'è già una corposa messe di documenti

 

 

Che il formaggio delle Valli del Bitto rappresenti un esempio forse unico di una continuità produttiva secolare legata ad una elevatissima reputazione (e quindi una risorsa preziosa e particolare) è fatto che trova sempre nuove conferme. E molte altre ne troverebbe se si intraprendessero opportune indagini.

Franca Prandi  in una  pubblicazione del 2014 cita un documento di recente acquisizione (1). Dal documento notarile si deduce che il 5 luglio 1550 Gio. Pietro de Cataneis di Valleve vendeva a Castellino Beccaria le alpi di val Cervia e val Madre. Il Beccaria era  subito investito a livello per un fitto annuo di libbre 100 di “formaggio grasso, salato e stagionato”, per il primo anno e successivamente:

 

in bono caxeo bene sucto et salato et bene ordinato qui sit […] pinguedinis et bontatis melioris caxei pingui, sucti, salati Vallis Biti [in formaggio buono, ben stagionato, salato e ben curato, che sia per qualità e per bontà migliore del formaggio grasso, stagionato e salato della valle del Bitto]

 

Dal che la Prandi conclude che:

 

Il formaggio grasso prodotto nella valle del Bitto  era già affermato, quindi e soprattutto riconosciuto come prodotto di alta qualità, molto apprezzato dai buongustai e non solo, che già allora veniva smerciato a prezzi piuttosto alti.

 

Il formaggio delle valli del Bitto era noto non solo in Valtellina e nella limitrofa Val Brembana ma la sua fama doveva essere arrivata lontano. In Valtellina il mercato per un prodotto di elevato pregio era limitato e il formaggio della valle del Bitto era destinato al commercio a distanza raggiungendo Bergamo, Como, Milano e oltre.

In un'opera (edita dopo soli tre anni dal documento citato e che rappresenta una guida gastronomica ante litteram) l'umanista Ortensio Lando raccomanda ai lettori relativamente ai territori valtellinesi e valchiavennaschi: " Non ti scordar... anche i maroni chiavennaschi, non il cacio di melengo [Valmalenco], et della valle del Bitto” (2).


 

Si può star certi che qualche indagine diretta ai commerci dell'epoca porterebbe sicuramente in luce la presenza del formaggio della Val del Bitto sui mercati delle città citate già nel Cinquecento (e molto probabilmente anche prima).

In Valtellina un altro documento che cita espressamente il formaggio della Val del Bitto era già  segnalato da don Giovanni Da Prada (2) ed è stato esaminato direttamente da Cirillo Ruffoni presso l’archivio di Stato di Sondrio.  Questo documento riferisce che il 26 febbraio 1596, Bernardino figlio di Gaspare Tassella di Sondrio promette a Gian Pietro figlio di Gian Giacomo Parravicini di Sondrio, di consegnare i seguenti beni: 67 condi di vino; due pezze di panno bianco di braccia 30; 30 forme di formaggio della valle del Bitto (casei vallis Bitti).

 

Questa forma c'è ancora. Storia vivente. Il formaggio storico Val del Bitto (caseus Vallis Biti) è sempre quello: prodotto solo nella valle del Bitto, con il latte di capra Orobica, senza fermenti e mangimi industriali


Nel secolo successivo in un registro (4) dell’ Hosteria granda di Tirano -  il più qualificato esercizio alberghiero della Valtellina dell'epoca – in data 1629 e 1671 si rinvengono annotazioni relative alla vendita di alcune forme di "formaggio Val del Bitt". Vengono riportati i prezzi di acquisto di alcuni formaggi e quello "Val di Bitt", venduto a 11-13 lire il peso,  è superiore anche al "formaggio grasso tedesco" (venduto a 9 lire il peso) mentre il "formaggio grasso" valtellinese era venduto a sole 5 lire il peso. Probabilmente il "valtellinese" era un formaggio dell'ultima stagione di alpeggio, poco adatto alla lunga stagionatura mentre il Val del Bitt sarà stato un formaggio di 2-3 anni. Dopo secoli le cose non sono cambiate. Infatti, fino al 1993, il "formaggio grasso della Valtellina" ha continuato ad essere chiamato così (vedi il marchio della Camera di Commercio). Con il riconoscimento della dop, miracolosamente, il "formaggio grasso Valtellina" che solo sino a due anni prima non poteva essere marchiato "Bitto" è stato promosso a Bitto da quelle stesse istituzioni che "certificavano" che il Bitto doveva essere prodotto solo negli alpeggi della comunità montana di Morbegno (e non in Valchiavenna, né in alta Valtellina, né nella comunità montana di Tirano e neppure in quella di Sondrio).

 

 

Un vero miracolo della politica perché la Dop presuppone una produzione attestata da almeno 25 anni. Nel caso del Bitto la "storicità" della produzione del Bitto in Valchiavenna, in alta Valtellina, nella comunità montana di Tirano e in quella di Sondrio... è stata limitata a due anni). Nessuno ha contestato, nessuno ha obiettato, la regione ha accettato, il ministero anche, l'Europa pure. Cosa certificano Regione, Ministero, Europa?

 Al formaggio storico della Val del Bitt basta e avanza il certificato di denominazione attribuito dalla storia, un certificato che vale infinitamente di più delle certificazioni burocratiche dove la politica può capovolgere la verità.

 

Note

(1) F. PRANDI (2014) “Fritole e trutalia”: che cosa si mangiava nella media Valtellina nel Seicento, in Bollettino della Società Storica Valtellinese n. 67, p. 236. Riferimento: ASSo, Notarile, n. 774, Paolo Ferrari, sabato 5 luglio 1550.

 

(2) O. LANDO (1553)  Commentario delle piu notabili, & mostruose cose d'Italia, & altri luoghi: di lingua Aramea in italiana tradotto. Con vn breue catalogo de gli inuentori delle cose che cose che si mangiano et beueno, nouamente ritrovato, Cesano Bartolomeo, Venezia, p. 7.

(3)  G. DA PRADA (1955) Il Bitto e il Sassella nel secolo XVI, in Elzeviri di toppa, 1955, pp. 23-24; ASSo, Notarile, Bartolomeo Malacrida, vol. 1677, ff. 252-253.

(4) D. ZOIA (1996) L' "Hostaria granda" di Tirano : Approvvigionamenti, arredi e servizi di un albergo nel secolo XVII  in: Bollettino della Società storica valtellinese, n. 49 :143-174.

 


 

 

 

 

 

 

 

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