|   (05.03.10) Sull'onda di alcuni  tragici fatti di cronaca 
                        ampiamente rimbalzati sui media e delle statistiche 
                        sui suicidi, che vedono in testa alcune provincie montane, 
                        si è rilanciato da parte di alcuni studiosi il cliché 
                        della 'montagna triste'. Dai 'tristi tropici' alle 'tristi 
                        montagne'?   Le montagne? Posti tristi! Ovvero nuove e vecchie forme di colonialismo 
                        culturale    di 
                        Michele Corti   Una volta i montanari erano descritti come miserabili, 
                        sporchi, 'selvatici'. Oggi di fronte all'evidenza del 
                        superamento del gap economico tra la montagna e la pianura 
                        si cerca di dimostrare la perenne condizione di inferiorità 
                        della montagna ricorrendo a considerazioni antropologiche 
                        sul 'malessere alpino'.    «I 
                        contadini della zona alpina sono talvolta in condizione 
                        ben triste, specie nelle valli alte più di 1000 
                        metri (…), sono perciò spesso in nulla dissimili dai 
                        loro confratelli del Mezzogiorno (…). Sudici, ignoranti, 
                        amici del loro campanile soltanto (…) segregati dal 
                        mondo civile (…)» A. Mariani 1910 ( p. 433.) Non molto è cambiato dal 100 anni a questa parte. Gli intellettuali 
                        urbani hanno dovuto prendere atto che il gap tra il 
                        reddito medio della montagna e della pianura si è enormemente 
                        colmato. Anche nelle località colpite dallo spopolamento 
                        pluriattività, attività stagionali, frontalierato, redditi 
                        dei percettori di pensioni definiscono un quadro in 
                        cui non è certo il fattore economico a rappresentare 
                        un handicap. Ecco allora che la 'tristezza' della montagna viene attribuita 
                        ad una 'miseria esistenziale' fatta di isolamento, 'controllo 
                        sociale'.  Il fatto è che da tempo i montanari percepiscono sè 
                        stessi e la loro realtà con i filtri di una cultura 
                        urbana interiorizzata. Da ormai diversi anni valori 
                        e disvalori sono valutati con il metro di un riferimento alla 
                        realtà urbana altrettando idealizzato delle visioni 
                        bucoliche della montagna delle 'bianche vette e dei 
                        verdi alpeggi' (sui quali torneremo oltre) che rappresenta 
                        la rappresentazione ad uso turistico. E' una montagna 
                        giudicata dagli stessi montanari con gli occhi della 
                        cultura urbana quella che determina il 'lamento'. La sensibilità degli antropologi però pare non registrare 
                        il fatto che, mano a mano che la forma di vita urbana 
                        diventa quella assolutamente prevalente (Europa 75% 
                        della popolazione, Mondo ormai oltre 50%) e che, 
                        anche in montagna, tendono a prevalere gli aspetti del 
                        modo di vivere urbano (automobile, ipermercato, internet, 
                        cellulare) l'immagine positiva, privilegiata e 
                        desiderabile  della 'superiore' vita urbana si 
                        incrina e, anche nelle aree 'periferiche', si diffonde 
                        la cultura del 'rigetto urbano'.  L'immagine di 
                        scarsa vivibilità della città, già associata all' 'aria 
                        cattiva' e al traffico caotico, è ora ulteriormente 
                        compromessa sul piano della scarsa sicurezza con le 
                        immagini che quotidianamente la televisione (You tube 
                        e simili) portano anche nelle case di montagna.  Qualità di vita, disponibilità di servizi, occasioni di 
                        svago e socializzazione nelle periferie urbane (peraltro 
                        caratterizzate da un reddito inferiore alla montagna) 
                        sono quello che sono e oggi anche i montanari lo sanno 
                        per esperienza diretta o indiretta. Quanto alla 'ricchezza 
                        di opportunità' della vita urbana è evidente che riguarda 
                        minoranze più o meno privilegiate. Senza entrare nel 
                        complesso problema dell'immigrazione e dei ghetti etnici 
                        (ormai una realtà del panorama urbano delle nostre città) 
                        e limitandoci alla popolazione 'autoctona' viene immediatamente 
                        da pensare che  single,  donne separate, giovani 
                        (e non) 'precari', che rappresentano una componente 
                        importante della 'fauna' urbana, non se la passano così 
                        bene. Tempo di lavoro dilatato, stili di vita 'destrutturati' 
                        (a cominciare dai pasti) non delineano quel quadro di 
                        vita 'piena' e 'allegra' contrapposta alla 'tristezza' 
                        del vivere in montagna. I locali trendy pieni di giovani 
                        apparentemente spensierati che si godono l'happy hour 
                        non rappresentano la realtà metropolitana. Quanto all'isolamento sociale degli alveari di cemento dove 
                        non si conosce il vicino di pianerottolo è da tempo 
                        che si sa che è più duro di quello del più sperduto 
                        villaggio alpino. Le statistiche dei suicidi vedono alcune province totalmente 
                        o parzialmente alpine (Sondrio, Belluno, Cuneo) seguire 
                        Trieste nella triste classifica con valori superiori 
                        a 12 suicidi per 100.000 abitanti. Spie di disagio non 
                        c'è dubbio. Non univoche peraltro perché in Trentino 
                        i suicidi sono inferiori alla media. Ma quanti casi 
                        di anziani trovati in casa morti senza nessuno se ne 
                        accorgesse si sono registrati nelle città? Per questo 
                        fenomeno non ci sono statistiche ma è la spia di una 
                        situazione grave.  Più che 'tristezza' qui è disperazione.   Tristi 
                        montagne (parafrasando Lévi Strauss)   Christian Arnoldi, autore di 'Tristi montagne' (2009a) e di uno 
                        studio  sulle valli trentine al quale faremo di 
                        seguito riferimenti (Arnoldi, 2009b) ha individuato 
                        una serie  di determinanti del malessere. Alcune 
                        riconducono alla visione della 'segregazione' altre 
                        sono più legate a sviluppi recenti.  Tra i condizionamenti 
                        sociali presi in considerazione da Arnoldi figura la 
                        'rarefazione sociale' «la solitudine, la difficoltà 
                        di incontrarsi e comunicare». Aspetti della 'rarefazione' 
                        sono: l'invecchiamento, lo spopolamento, l'isolamento 
                        (la distanza fisica o meglio i tempi di percorrenza 
                        in auto dai centri dotati di servizi e attrattive), 
                        il 'tempo fermo'. Per valutare l'enfasi di Arnoldi su 
                        certi aspetti e quella che, a nostro parere, è una chiave 
                        di lettura - legittima ma soggettiva e confutabile - 
                        di alcuni fenomeni sono utili alcune citazioni:    «Mancano 
                        novità, di qualunque genere, tanto meno interessanti 
                        o attraenti, in grado di risvegliare una qualche 
                        emozione. Paradossalmente, l'ossessione per 
                        l'ordine, per la pulizia, per la cura e per l'abbellimento 
                        delle abitazioni e dei villaggi e più in generale del 
                        paesaggio, uniche possibilità di sopravvivenza psichica 
                        per gli abitanti di un luogo in continua trasformazione 
                        come la montagna, aumentano la sensazione di immutabilità 
                        delle proprie condizioni esistenziali e accentuano la 
                        percezione del vincolo e del legame con la propria valle, 
                        sino quasi a trasfigurarla in una angosciante impressione 
                        di segregazione, in una inquietudine derivante da 
                        una sorta di progionia»   Sono evidentemente in gioco dei giudizi di valore. Per Arnoldi 
                        tutto ciò che stabilisce un legame con lo spazio o con 
                        la storia (il 'passato che non passa') rappresenta un 
                        vincolo, un impedimento  ad deguarsi ai cambiamenti. 
                        Secondo molti, invece, senza un background nessuna comunità 
                        è in grado di 'selezionare' le innovazioni utili al 
                        suo sviluppo.  L'incomprensione di questo autore 
                        nei confronti delle dinamiche che interessano le comunità 
                        alpine  è evidente nella valutazione delle rievocazioni 
                        della vita rurale del passato viste in chiave di :   «disperato 
                        tentativo di resistere al cambiamento e alle trasformazioni 
                        attraverso la costruzione e ri-costruzione di quel 'piccolo 
                        mondo alpino' idealizzato messo in scena durante le 
                        feste dei paesi e in ogni occasione di aggregazione»   Lettura a dir poco a senso unico. Chi scrive (Corti, 2005), ma 
                        anche una vasta letteratura internazionale, compresi 
                        antropologi come l'inglese Heady (2001), che ha 
                        studiato delle comunità 'tristi' della Carnia, hanno 
                        fornito interpretazioni del tutto diverse dimostrando 
                        che le feste di rievocazione della vita rurale fanno 
                        parte di strategie - più o meno consapevoli e più o 
                        meno efficaci - di creazione di legami comunitari in 
                        funzione di esigenze attuali e non già di mera nostalgia 
                        senza prospettive.  Gli altri aspetti della condizione di 'tristezza' individuati 
                        da Armoldi sono il respèt e la 'intermittenza esistenziale'. Il respèt (mix di riservatezza e di gelosia dei propri 'confini') 
                        ha per corollari il campanilismo e l'iper-territorialità 
                        ). Retaggio di una condizione in risorse scarse e di 
                        mantenimento di spazi famigliari ed individuali in un 
                        contesto di necessaria cooperazione e vita in comune 
                        fianco a fianco  il respèt appare oggi una 
                        condizione disadattativa che frena la socializzazione 
                        accentuando le conseguenze della 'rarefazione sociale'. 
                        A questa analisi condivisibile Arnoldi, però, associa 
                        quella delle conseguenze combinate di respèt e 
                        del controllo sociale (tutti sanno tutto di tutti). 
                        Da questo punto di vista ci pare impossibile che non 
                        si tengano in considerazione le conseguenze dei nuovi 
                        mezzi di comunicazione e di socializzazione.  Che 
                        controllo possono esercitare gli adulti sui giovani 
                        che socializzano su Facebook? Viene poi da chiedersi 
                        se questo 'controllo' abbia solo valenze negative. Forse 
                        quei vecchietti che muoiono in casa negli alveari di 
                        cemento megapolitani avrebbero preferito avere un po' 
                        più di 'controllo sociale'.     Schizofrenie 
                        alpine, schizofrenie megapolitane   Quanto alla 'intermittenza esistenziale' si tratta, secondo Arnoldi, 
                         di un elemento chiave per spiegare il 'malessere 
                        alpino' i. E' la schizofrenica condizione dei centri 
                        turistici che vivono in una duplice dimensione: quella 
                        convulsa delle 'alte stagioni' e quella letargica del 
                        'vuoto turistico', accentuata dalla presenza 
                        ingombrante di strutture turistiche più o meno imponenti 
                        e dei condomini di 'seconde case' deserti. Nelle stagioni 
                        'morte' i locali pubblici chiudono e per i residenti 
                        vi sono disagi anche oggettivi. Si tratta di una 'sindrome' 
                        definibile della 'giostra e dei larici d'oro' con riferimento 
                        al volumetto con questo titolo ( Gagliardi, 1974) dedicato alla 
                        nota località sciistica di Madesimo. Le foglie 
                        dei larici ingialliscono dopo che i turisti se ne sono 
                        andati e la 'giostra' turistica si è fermata e prima 
                        che riparta (a Sant Ambröos) la più redditizia 'stagione 
                        invernale'.  Questa 'intermittenza' è però 
                        un fenomeno omogeneo e generalizzato? Ogni località 
                        ha una 'morta' più o meno lunga e un rapporto seconde 
                        case/prime case diverso. E poi questa 'schizofrenia' 
                        turistica non ha corrispondenza e complementarietà con 
                        la dimensione urbana che la genera? Ad agosto il pensionato 
                        della periferia e senz'auto non è in difficoltà peggiori 
                        con la città del commercio 'chiusa per ferie'. Per trovare 
                        la mica e anima viva deve andare al Centro Commerciale. 
                        E il 'nomadismo' turistico dei comunque più privilegiati 
                        turisti è scevto da schizofrenie? Stress da rientro, 
                        code in autostrada. E' una gara a chi vive il turismo 
                        in modo più schizofrenico: i montanari o i cittadini?   La 
                        'tristezza' non è un destino   Come dicevamo all'inizio il cliché 
                        della 'montagna triste' non è nuovo. Il sociologo Aldo 
                        Bonomi nella sua opera su 'Il capitalismo molecolare. 
                        La società al lavoro nel Nord Italia' (1997) delineava 
                        7 'Nord'. Tra questi le 'aree tristi'. Queste aree coincidevano 
                        nella classificazione dell'autore con aree di montagna: 
                        valli di Cuneo, vallate laterali valtellinesi, alto 
                        Lario, Valcamonica, Valsugana, Carnia, alto Friuli, 
                        aree confinarie goriziane. L'analisi di Bonomi, però, 
                        coglie - almeno in parte - come la 'tristezza' non rappresenti 
                        un elemento assoluto, irreversibile ma si inserisca 
                        in una realtà di opportunità e conflitti almeno laddove 
                        non si è superata una 'soglia di non ritorno'. In questo 
                        Bonomi si dimostrava molto meno unilaterale e meno condizionato 
                        da 'paraocchi interpretativi' di Arnoldi. Scriveva Bonomi:   « Il 
                        nodo sta nel rapporto tra le risorse locali (prima di 
                        tutto il territorio e l'intensificazione degli scambi 
                        economici, sociali e culturali mediati dall'intensificazione 
                        del turismo) con altre aree più forti e dinamiche. In 
                        questo rapporto, quello che va indagato è il conflitto 
                        innescato dai processi di resistenza rispetto a fenomeni 
                        come la grande distribuzione, il turismo di massa, la 
                        parchizzazione del territorio: tutti fenomeni con cui 
                        si presenta la modernizzazione, percepita spesso come 
                        distruzione di forme di lavoro e di attività produttive 
                        piccole e lente ma consolidate nel tempo»   Analisi 
                        che a distanza di 13 anni possiamo dire confermate come 
                        dimostrano vicende come quella del Bitto storico in 
                        cui la 'resistenza' ai meccanismi delll'economia industriale 
                        ha proiettato in una dimensione di ammirazione e rispetto 
                        internazionali (con interessanti implicazioni per un 
                        turismo 'alternativo' e 'sostenibile' l'esperienza di 
                        un gruppo di 'trogloditi' difensori della tradizione. 
                        A conferma di queste tendenze possiamo citare i segni 
                        di rinascita nelle valli di Cuneo  legati ad una 
                        economia identitaria tutt'altro che 'residuale' che 
                        coniuga valori culturali, gastronomici, ambientali . 
                        Qua e là nelle Alpi mentre vanno in crisi i modelli 
                        a rimorchio della pianura e dell'industria recuperano 
                        visibilità e spazio nuovi-vecchi modelli che fanno leva 
                        sulle risorse umane delle 'aree tristi'. Anche l'idea 
                        di un destino irreversibile è messa in discussione da 
                        nuovi insediamenti di neo-contadini e neo-allevatori 
                        che qua e là hanno ripopolato villaggi fantasma ( sarebbero 
                        di più se sostenuti da una volontà politica e da una 
                        clima culturale favorevole). Bonomi nella sua per altri versi lucida analisi non rinunciava 
                        alla tentazione di avventurarsi sul terreno vischioso 
                        della sociologia politica e di mettere in relazione 
                        'aree tristi' e fenomeni politici notando una forte 
                        correlazione tra 'tristezza' e voto 'leghista'.  Una 
                        linea di stigmatizzazione politico-ideologica delle 
                        espressioni di identità culturale o politica da parte 
                        delle comunità alpine che, purtroppo, ha avuto diversi 
                        emuli. Bianche vette, verdi alpeggi, camicie brune (!?) E' il titolo di un saggio di Stefano Fait (2009). Una provocazione 
                        eccessiva e dichiarata ma indicativa di un atteggiamento 
                        diffuso tra gli intellettuali liberal. Fait ha il merito 
                        della 'trasparenza', dichiarando apertamente la sua 
                        propensione cosmopolita, la sua devozione senza se e 
                        senza ai valori borghesi  dell'individuo. 
                        Così come non dissimula la sua avversione per qualsiasi 
                        cosa che abbia vago sentore di 'comunitarismo', 'etnicismo', 
                        'diritti collettivi', 'identità'.  I suoi strali 
                        sono contro la 'proporzionale etnica' (il clima di presunta 
                        apartheid imposto a Bolzano dallo statuto di autonomia) ma l'analisi si 
                        estende al 'populismo alpino' (dichiaratamente contro 
                        Heider, implicitamente contro la Lega).  Ci sarebbe molto da dire sui precedenti storici che hanno portato 
                        allo statuto autonomistico. La rigida difesa attuale 
                        della propria identità, lingua, cultura da parte della 
                        locale maggioranza di lingua tedesca è motivata da interessi 
                        politici ed economici ma non è comprensibile 
                        se non si fa riferimento al drammatico tentativo 
                        di 'pulizia etnica' intrapreso dal fascismo contro il 
                        popolo sudtirolese (per chi non ricorda l'alternativa 
                        era: assimilazione sino alla italianizzazione del cognome 
                        o espulsione verso la Germania; era il 1938, poi c'è 
                        stato altro cui pensare).  Per i 'liberal' come Fait questi sono dettagli; contano solo 
                        i sacri principi della libertà individuale : la memoria 
                        storica collettiva è 'invenzione', l''identità' una truffa. 
                         Ma la tanto venerata libertà  si è storicamente 
                        tradotta nella trasformazione dei piccoli produttori 
                        (contadini e artigiani) in salariati sottoposti 
                        ad un controllo personale senza precedenti sull'insieme 
                        della vita delle persone in forza di un « volume 
                        senza precedente di repressione»  e «per 
                        disporre liberamente del loro lavoro i lavoratori dovevano 
                        essere privati quindi della loro libertà» (lo dice  il noto sociologo di sinistra Bauman  - 
                        2005 -  distaccandosi non poco dalle 'classiche' 
                        analisi marxiane).  Parallela alla 'liberazione del lavoro' che significò la semi-schiavitù 
                        degli operai fu la 'liberazione' dei beni e dei diritti in 
                        possesso delle comunità rurali e alpine (due processi 
                        interrelati: senza beni collettivi il montanaro è spinto 
                        all'emigrazione definitiva e alla proletarizzazione). 
                         Dove è arrivato Napoleone alle comunità sono stati sottratti 
                        boschi, pascoli e altri beni di cui disponevano 
                        quale proprietà collettiva (privata) trasferendole 
                        al comune politico, articolazione dello stato, e 
                        divenendo quindi di proprietà pubblica. Quando non vennero 
                        ceduti a speculatori. A Zermatt, dove Napoleone e la 
                        liberté non sono arrivate la Bürgergemeinde (collettività degli antichi originari, corrispondente ad istituzioni 
                        ovunque presenti sull'Arco Alpino) ha mantenuto la proprietà 
                        dei pascoli. Così oggi gli impianti da sci e gli alberghi 
                        appartengono alle famiglie originarie del posto 
                        . Dove è arrivata la libertà (ovvero la dissoluzione dei vincoli 
                        che tenevano 'schiavo' l'individuo rispetto alle organizzazioni 
                        comunitarie) gli impianti di risalita e gli alberghi 
                        sono di società di capitali con sede nelle città ('colonialismo 
                        economico').    La 
                        montagna ha sempre torto   E' interessante notare che, laddove le comunità montanare subiscono 
                        l'assimilazione alla cultura urbana,  viene loro 
                        rinfacciata la 'perdità di valori e identità', si parla 
                        di 'spaesamento' e di 'anomia' (che condurrebbe a disagio 
                        sociale e psichico ecc.). Quando, invece, le comunità 
                        cercano in modo più o meno coerente di far valere una 
                        propria autonomia (ricorrendo, in mancanza di meglio, a 
                        immagini convenzionali che indulgono a rappresentazioni 
                        stereotipate della montagna) gli si rinfaccia o di voler 
                        riproporre visioni anacronistiche, inautentiche, 'per 
                        i turisti' o - in alternativa - di peccare di esclusivismo 
                        etnico, populismo, chiusure egoistiche.  Poco ci manca che chi non si conforma al paradigma della 
                        'montagna triste' e 'osa' entusiasmarsi per i  'verdi 
                        alpeggi' sia etichettato dai custodi liberal del politically 
                        correct come 'camicia bruna' (dimenticando che il socialismo 
                        nazionale aveva come riferimenti il militarismo, lo 
                        stato, le masse, l'industria e che la il folkish e il ruralismo erano accessori). Per i difensori dei sacri principi dell'universalismo, delle 
                        libertà individuali, della nazione dei cives (apparentemente 
                        forniti di uguali diritti e doveri)  ogni accenno 
                        a far valere particolarità linguistiche evoca lo spettro 
                        della 'balcanizzazione' delle 'pulizie etniche' delle 
                        fosse comuni. Non è difficile dimostrare che così facendo 
                        essi difendono lo status quo e una situazione in cui molto spesso si difende l'egoismo 
                        di 'maggioranze etniche' e l'esclusivismo degli stati 
                        nazionali.  Con i 'sacri principi' di 'una testa un voto', inserendo la montagna 
                        in collegi elettorali in cui è minoritaria, facendo 
                        valere la massa (che è il contraltare dell'individuo 
                        atomizzato), si è 'elegantemente' tolto peso e potere 
                        politico alla montagna ('colonialismo politico'). Ma 
                        la vera egemonia si ottiene stabilmente solo esercitando 
                        il potere culturale. Gli schiavi devono applicarsi da 
                        soli le proprie catene ed essere consenzianti a portarle. 
                           Una 
                        inferiorità storicamente determinata e reversibile   Che la montagna sia 'inferiore', 'segregata dal consorzio civile', 
                        'triste', 'chiusa nell'immobilismo, nelle gelosie e 
                        nella diffidenza reciproche' deve affermarsi come assioma, 
                        dato indiscusso, tanto da influenzare l'autorappresentazione 
                        degli stessi montanari e paralizzarli. Ottenuto lo scopo 
                        e definitivamente convinti dei loro cronici limiti i 
                        montanari non oseranno esprimere qualcosa di diverso, 
                        di autonomo, e si conformeranno ai valori e agli 
                        interessi urbani dominanti. Un meccanismo culturale 
                        che ci sembra pertinente definire 'colonialismo culturale'. Tutto ciò è basato sull'assolutizzazione del punto di vista 
                        della pianura, delle città. La segregazione della montagna 
                        è frutto dei confini politici moderni, dello sviluppo 
                        delle moderne reti di comunicazione in funzione degli 
                        interessi urbani dominanti. Nella storia millenaria 
                        delle Alpi vi sono state epoche in cui le montagne erano 
                        solcate da vie di transito mentre le pianure erano 'segregate', 
                        spezzate dai fiumi che scendevano dalle Alpi, divise 
                        da paludi impraticabili. I traghetti (chiamati 'porti' 
                        esistevano ma c'era un dettaglio, costavano parecchio 
                        e i fiumi che scendono dalle Alpi sono tanti). Quando ci si spostava a piedi o, al massimo, a dorso di mulo 
                        la differenza tra pianura e montagna era meno evidente. 
                        Su un sentiero si va alla stessa velocità. Se invece 
                        confrontiamo lo spostamento a piedi con lo sfrecciare 
                        in auto su un'autostrada le cose cambiano. Vi sono state epoche, non lontane (parliamo del XIX secolo) in 
                        cui le percentuali più elevate di persone in grado di 
                        leggere e scrivere si trovavano sulle Alpi, in cui l'apertura 
                        al mondo era maggiore da parte dei montanari. Essi giravano 
                        l'Europa come maestranze specializzate, artisti, commercianti. 
                         Quanto alla noia, al 'non succede niente' non è tanto difficile 
                        dimostrare che è l'uomo di città che, spostato dal suo 
                        habitat, non si accorge di cose che non rientrano 
                        nella dimensione del suo mondo artificiale. Ma è la 
                        sua 'inferiorità' a cogliere la variabilità ambientale 
                        che è in gioco. Oggi con una dimensione di vita trascorsa troppo spesso 
                        in casa, davanti alla TV, o comunque alle prese sempre 
                        con qualche 'elettrodomestico', la vita montanara si 
                        è appiattita in una dimensione spazio-temporale che 
                        non conosce la ricca successione di eventi del passato, 
                        scanditi dai prevedibili ritmi del sole e della luna, 
                        dai ritmi biologici di animali e piante ma anche da 
                        eventi non prevedibili, da momenti di socializzazione, 
                        riti, pellegrinaggi. Ma questa involuzione, forse positiva dal 
                        punto di vista della fatica fisica, deprivante 
                        da punto di vista degli stimoli emozionali e cognitivi, 
                        è qualcosa di insito nella montagna? Per nulla. Alla 
                        noia, al vuoto è possibile reagire, innescare dinamiche 
                        di aggregazione, mobilitazione sociale intorno ai tanti 
                        problemi della montagna. Non è facile, ma è possibile. Esperienze come il recupero di vecchie coltivazioni in forma 
                        'civica', l'attività degli ecomusei, il coinvolgimento 
                        di scuole e anziani in progetti culturali insegnano 
                        che l'apatia, l'immobilismo, la noia non sono una condanna 
                        definitiva e irreversibile per la montagna. Quanto poi alla letteratura portata a supporto della tesi 
                        della  'dimensione immobile' e 'triste' della montagna 
                        viene da dire: ma Rigoni Stern l'avete letto?   Bibliografia   C. Arnoldi  (2009a),Tristi 
                        montagne. Guida ai malesseri alpini Priuli e Verlucca 
                         Pavone Canavese, TO   C. 
                        Arnoldi a (2009b) 
                        Bontà e cattiveria della montagna. Visioni e rappresentazioni 
                        contemporanee delle valli trentine in: 
                        SM Annali di San Michele, 22, 21-42.   Z. 
                        Bauman (2005) Classi e potere in Z. Bauman Globalizzazione 
                        e glocalizzazione, Armando Editore, Roma, 88-149.   A. 
                        Bonomi (1997) Il capitalismo 
                        molecolare. La società al lavoro nel Nord Italia Einaudi, 
                        Torino.   M. 
                        Corti (2009) Riti del fieno e del latte. Alpi, 
                        inizio del XXI secolo  in: 
                        SM Annali di San Michele, 22, 249-284.   M. 
                        Corti (2005) Contadini e allevatori del Nord nelle 
                        transizioni rurali del XX e XXI secolo in: SM Annali 
                        di San Michele, 18, 135-174).   S. 
                        Fait (2009) Bianche vette, verdi alpeggi, camicie 
                        brune. La commercializzazione di un'utopia in: SM 
                        Annali di San Michele, 22, 59-88.   N. Gagliardi (1974) 
                        La
giostra e i larici d'oro Sasga, 
                        Como. P.Heady 
                        (2001) Il popolo duro. Rivalità, empatia e struttura 
                        sociale in una valle alpina Forum libreria editrice 
                        universitaria ,Udine, 2001. A. 
                        Mariani, Geografia economica e sociale dell’Italia, 
                        1910, Hoepli, Milano |