|   (25.10.09)   Il nuovo numero di World Watch contiene uno studio: Livestock 
                        and Climate Change (allevamenti animali e cambiamento 
                        climatico) che indicherebbe come il contributo della 
                        zootecnia all'effetto serra equivalga al 51% del totale   Il pianeta 
                        è soffocato dalle bistecche.  Intanto il business 
                        impone soluzioni costose per ridurre (un po') le 
                        emissioni di gas serra   
                        Già la Fao in un famoso report del 2006 
                                    (Livestock's 
                        long shadow) aveva indicato come le produzioni animali 
                                    incidessero per il 18%  sull'emissione 
                                    globale di gas serra (un contributo più 
                        elevato di quello del sistema mondiale dei trasporti). La 
                        cosa aveva destato scalpore anche se poi non è successo 
                        nulla.  Basti vedere come la Commissione 
                        Europea, di fronte ad un calo della domanda di latticini, 
                        abbia ripreso quest'anno a 'sostenere' il mercato 
                        ritirando latte in polvere e burro per gli ammassi (l'Italia 
                        da parte sua chiede di fare altrettanto con i formaggi 
                        tipici). Per incentivare i consumi di latte si 
                        stanno avviando campagne nelle scuole europee. Quanto 
                        alla carne - che dal punto di vista dell'impatto ambientale 
                        ha un peso ancora più forte della produzione lattiera 
                        - non si fa nulla per spingere i cittadini a modificare 
                        uno stile di consumo che è una delle causa principali 
                        della forte incidenza di malattie cardiache e cancro. 
                        Guai a danneggiare il business dell'hamburger o del 
                        prosciutto. Quanto ai paesi 'emergenti' essi non fanno 
                        altro che seguire le orme di Europa e Nord America 
                        che, almeno per ora, non danno segni di 'revisionismo 
                        alimentare'. E se la Cina raggiunge i livelli dei 
                        paesi carnivori ....     Effetto serra: l'espansione e l'industrializzazione 
                        della zootecnia imputati numero uno    Nel nuovo studio 
                                    del World Watch gli autori (Robert Goodland e 
                                    Jeff Hannlang)
                                    hanno rivisto le stime della Fao.  Queste 
                        ultime indicavano in 7.516 milioni di t di CO2e 
                        (equivalenti di CO2) le emissioni di 
                        GHGs (green house gases/gas ad effetto serra) legate 
                        alle produzioni animali. Goodland e Hannlang calcolano 
                        in ben 32.564 milioni di t tale contributo precisando 
                        che questa stima è prudenziale e che la quantità 
                        effettiva potrebbe essere ancora più elevata. Il nuovo 
                        calcolo dipende dall'aver incluso fonti di emissione 
                        precedentemente non considerate, sottostimate o attribuite 
                        erroneamente ad altri settori di attività economica. 
                        In realtà le 'riallocazioni' da un settore economico 
                        all'altro pesano per soli 3.000 t e 22.048 milioni di 
                        t rappresentano un aumento netto della stima di emissioni 
                        planetarie di GHGs. La Fao non considerava le emissioni 
                        di gas con la respirazione (dal momento che non sono 
                        considerate nel protocollo di Kyoto, ma è una classificazione 
                        legale e politica!) e computava la fissazione di carbonio 
                        nella biomassa animale un 'sequestro' simile a quello 
                        delle foreste (con la differenza che il ciclo di produzione 
                        animale è molto più breve, però). Tra le 'dimenticanze' 
                        della Fao Goodland e Hannlang considerano anche le emissioni 
                        legate all'uso di fluorocarburi per gli impianti di 
                        condizionamento dei ricoveri, quelli legati allo smaltimento 
                        dei prodotti di scarto, alle confezioni (e al loro smaltimento), 
                        alla cottura della carne (che richiede alte temperature). 
                        Gli autori stimano che se buona parte delle superfici 
                        di foresta tropicale destinate al pascolo e alla produzione 
                        di alimenti per il bestiame fossero destinate alla rigenerazione 
                        della foresta le emissioni antropogeniche (legate alle 
                        attività umane) di gas serra si ridurrebbero della metà. 
                        La cosa ci riguarda direttamente perché la soia 
                        brasiliana e argentina ottenuta disboscando le foreste 
                        serve per produrre carne e latticini in Europa (compresi 
                        i prodotti tipici Dop quali Parmigiano Reggiano, 
                        Prosciutto di Parma ecc.).      Mangiare meno bistecche o rincorrere sofisticate 
                        tecnologie e operare ingenti investimenti in 'energie 
                        rinnovabili' spesso di dubbia efficacia   La riduzione delle emissioni conseguibile 
                        attraverso il ridimensionamento delle attività zootecniche, 
                        oltre che di grande entità, è anche rapida. La Fao stimava 
                        che il 37% delle emissioni di GHGs fosse legata al metano. 
                        Questo gas ha un effetto serra pari a 23 volte tanto 
                        la CO2 ma un'emivita di soli 8 anni 
                        in atmosfera (da confrontare ai 100 anni della CO2 
                        Una riduzione degli animali allevati comportarebbe 
                        una rapida diminuzione del metano in atmosfera. Peccato 
                        che le proiezioni della Fao indichino come nel 2050 
                        (se non si cambia rotta e se il prezzo del petrolio 
                        non fa finire la festa) gli allevamenti animali del 
                        pianeta raddoppieranno! Alla luce di queste considerazioni 
                        appaiono  assurdi gli ingenti investimenti previsti 
                        per ridurre 
                                     le emissioni dell'industria e dei trasporti  e altrettanto 
                        assurda le  destinazione di enormi risorse per 
                                    spesso dubbie soluzioni nel campo delle 'energie rinnovabili'. 
                        Assurde, benintesi,   se - nel frattempo - 
                                    ci si continua ad ingozzare di carne come 
                        se nulla fosse. 
                                    E'abbastanza evidente che dietro le proposte 
                        di veicoli un po' meno inquinanti c'è principalmente 
                        il desiderio di rivitalizzare l'industria automobilistica. 
                        Le riduzioni di emissioni ottenibili, per quanto significative, 
                        devono tenere conto dei maggiori costi energetici, 
                         emissioni, consumo di materie prime non rinnovabili causato 
                        dall' accorciamento del 'ciclo di vita' delle vetture 
                        (smaltimento dei vecchi modelli e produzione di nuovi). 
                        Quanto alle 'energie alternative' - pur nelle debite 
                        distinzioni tra biomasse, solare, eolico ecc. - sappiamo 
                        quanto poco efficienti risultino molte soluzioni proposte 
                        tenendo conto dei costi di impianto e smaltimento (senza 
                        considerare gli impatti delle centrali eoliche e di 
                        altre soluzioni). Sappiamo anche come questo comparto 
                        si stia sviluppando  in larga misura grazie 
                        al mercato drogato dei 'certificati verdi' e stia attirando 
                        interessi speculativi oltre che di imprese e intelligenze 
                        'innovative'.  Riducendo le produzioni animali e 
                        destinando i terreni risparmiati alla produzione 
                        di vegetali per l'alimentazione, alla riforestazione 
                        (non in Europa dove le foreste avanzano sin troppo, 
                        ovviamente, ma nei paesi sub-tropicali) e - qualora 
                        si raggiungesse una maggiore efficienza energetica 
                        rispetto alle condizioni attuali -  alla produzione 
                        di biocarburanti, il risparmio di combustibili fossili 
                        e di emissioni in generale sarebbe enorme. Una riduzione 
                        senza costi e senza investimenti.      Cibi 'cammuffati' sempre più artificiosi 
                        o cultura del buono e della varietà alimentare?   Ovvio che la parte politica - legata 
                        ai business - non intraprenderà mai simili scelte. Tali 
                        cambiamenti possono  venire solo dai consumatori 
                        e dall'industria stessa. Essi  potrebbero 
                        essere imposti dall'aumento del prezzo del petrolio 
                        legato ai sempre maggiori costi di estrazione e all'esaurimento 
                        dei giacimenti di più facile sfruttamento. L'industria 
                        alimentare, però, potrebbe beneficiare di una 'transizione 
                        alimentare' consistente nel proporre ai consumatori 
                        cibi 'alternativi' a quelli a base di prodotti animali 
                        più facili da preparare, più sani e meno costosi che 
                        assicurerebbero comunque buoni profitti agli innovatori. 
                        Ovviamente i consumatori meno 'eterodiretti' non 
                        avrebbero neppure bisogno di aspettare queste soluzioni 
                        industriali perchè, come indica  il buon senso, 
                        basterebbe un semplice ritorno all'alimentazione tradizionale 
                        ricca di legumi per operare un forte 'riequilibrio' 
                        nel rapporto tra prodotti animali e vegetali nella dieta. 
                        L'esaltazione della soia come 'alternativa' alla carne 
                        proposta dagli autori peraltro non ci convince affatto. 
                         La soia (con il mais) è la coltura 
                        più industrializzata e legata agli interessi delel multinazionali 
                        (dei pesticidi, degli OGM, della trasformazione in materie 
                        intermedie per l'industria alimentare). Dietro la presunta necessità 
                        di 'camuffare' le preparazioni alimentari a base di  prodotti 
                        vegetali c'è una cultura americana del cibo che - per 
                        fortuna - non è la nostra. I prodotti 'analoghi' - sostengono 
                        gli autori di WW- sono indistinguibili da quelli a base 
                        di prodotti animali una volta macinati, cotti, speziati, 
                        conditi con salse e processati in altro modo. E' la 
                        cultura dell'alimento artificiale che rinuncia al gusto 
                        e al buono come dimensioni di una pratica del cibo e 
                        che si affida all'industria (magari 'organic' ma cambia 
                        molto?). E'anche la cultura dell'irriconoscibilità alimentare 
                        e quindi della non consapevolezza e della 'delega' a 
                        mamma industria. Crediamo, invece, che la politica 
                        del 'buono' sia la leva principale per operare il cambiamento 
                        necessari da una dieta a base di troppa carne, latte, 
                        uova a una più sostenibile. Dimostrare che una cucina 
                        con meno carne (ma di migliore qualità), con meno latticini 
                        (ma di migliore qualità), con più legumi, più verdure, 
                        preparati nelle forme varie e appetitose della tradizione 
                        (nostra, ma non solo), fa bene al corpo e alla mente 
                        non è poi così difficile.    Non c'è agricoltura sostenibile 
                        senza allevamento   In realtà non sono gli allevamenti 
                        animali il nemico numero uno del pianeta. Allevati nel 
                        contesto di sistemi pastorali sostenibili e di agricolture 
                        miste (rotazione, concimazione oprganica, lavoro animale, 
                        multiutilità ) gli impatti negativi dell'allevamento 
                        animale sono più che compensati da quelli positivi. 
                        E' l'assurdità delle fabbriche della carne (e in certa 
                        misura delle fabbriche del latte) che pone la zootecnia 
                        sul banco degli imputati, le porcilaie con l'aria condizionata, 
                        gli allevamenti di polli riscaldati, l'enorme consumo 
                        di combustibili fossili per far arrivare i prodotti 
                        animali nel piatto (concimi chimici per coltivare 
                        i cereali fornitio al bestiame, pesticidi, energia 
                        imopiegata nei ricoveri per gli animali,  trasporti 
                        di alimenti zootecnici da una parte all'altra del globo, 
                        trasporti di animali e prodotti a lunga distanza, 
                        catene del freddo, packaging).    |