(01.04.2013) Le rese delle colture agricole sono in calo, si estendono i fenomeni di degrado del suolo, il cambiamento climatico ridurrà i raccolti, la popolazione mondiale salirà a oltre 9 miliardi. È necessario cambiare paradigmi agroalimentari

 

Come garantire la sicurezza

alimentare del pianeta?

 

di Michele Corti

 

Mentre le rese agricole calano per effetto dei cambiamenti climatici, della perdita di fertilità dei terreni, dell'erosione, degli effetti boomerang delle "rivoluzioni verdi" dopate di energia fossile a buon mercato e di chimica non si arrestano l'urbanizzazione e l'aumento dei consumi di carne. A tutto ciò si aggiunge la corsa alle agroenergie e il land grabbing che rendono evidente il disegno di concentrare le risorse alimentari mondiali sotto il controllo dei gruppi multinazionali e di utilizzare l'arma della fame per esercitare un potere assoluto. La risposta è la ricontadinizzazione, la trasformazione delle aree urbane in aree agricole, il recupero di vocazione agricola delle aree "marginali" abbandonate, il recupero di un controllo delle popolazioni locali sulle fonti di cibo, la loro delocalizzazione e indipendenza sia dal punto di vista materiale (input industriali, energia) che da quello dai sistemi di conoscenza tecnoscientifici della modernità

L'aumento della popolazione (che sta rallentando) è l'ultimo dei motivi che mettono a repentaglio la sicurezza alimentare che è a rischio per altri fattori.  Le agrotecnologie industriali hanno compromesso la fertilità della terra, hanno conseguito alter rese a spese delle riserve di energia fossile, ma anche della distruzione della biodiversità, della compromissione delle riserve idriche, dell'avvelenamento degli agroecosistemi con i pesticidi. Ora le "rivoluzioni verdi" hanno esaurito la loro spinta propulsiva drogata e ci si accorge che la sicurezza alimentare è a rischio.

La cementificazione, l'espansione urbana, l'erosione (da acqua e da vento), la salinizzazione da irrigazioni inconsulte, la desertificazione, l'inquinamento, non ultime cause di perdita di terre agricole le trasformazioni per scopi di divertimento e le politiche ambientaliste di assurda "rinaturalizzazione" con la "natura" messa sotto la campana di vetro dei "Parchi". Tutto ciò fa perdere l'1% delle terre agricole all'anno.

 

L'avanzata del deserto in Africa

 

Quelle che restano sono minacciate dagli effetti congiunti del cambiamento climatico e dalle conseguenze perniciose delle monocolture, dall'insistenza di lavorazioni eccessive e troppo profonde del terreno, dall'eccessivo uso di concimi chimici. Dalla diffusione, favorita dalla globalizzazione e dalla moltiplicazione degli scambi, di parassiti privi di antagonisti naturali , dall'aumento della resistenza delle avversità biotiche "autoctone": malerbe, crittogame, insetti (un aumento di resistenza cui contribuiscono anche gli OGM). Contribuiscono al calo tendenziale delle rese agricole la distruzione della biodiversità con la progressiva scomnparsa di specie di insetti pronubi (impollinatori) e utili in quanto predatori e parassitoidi di insetti fitofagi che danneggiano le coltivazioni.

Il quadro, però, non è completo se non si aggiungono altri fattori di stress sulle risorse agricole: la criminale corsa alle agroenergie e la crescita dei consumi di carne spinta dal desiderio dei consumatori dei paesi emergenti di replicare il deleterio modello alimentare carnivoro occidentale.

 

Coltivazioni di Jatrofa da olio combustibile in Africa (su decine di migliaia di ettari)

 

Se consideriamo l'insieme di questi elementi le prospettive non sono tranquillizzanti. Per molti paesi il problema della sicurezza alimentare diventerà grave nei prossimi decenni. Anche l'Europa, specie quella meridionale, non è esente da rischi. Ad una diminuzione delle produzioni legata all'aumento della temperatura (solo in parte e solo temporaneamente compensato dalla maggior disponibilità di CO2 per la fotosintesi), al degrado dei suoli, alla perdita di biodiversità corrisponde una situazione già ora deficitaria per alcune derrate strategiche (soia in primo luogo). L'approvvigionamento alimentare internazionale di paesi come l'Italia dovrà fare i conti con la domanda sempre più sostenuta della Cina e di altri paesi alle prese con problemi agricoli ma con lo sviluppo industriale ancora in crescita..

 

L'avanzata dell'urbanizzazione

 

In questo contesto un paese serio (ma sappiamo che non è il caso) cercherebbe di invertire al più presto lo smantellamento dell'agricoltura che ha caratterizzato la politica italiana da mezzo secolo in qua, con la corsa sfrenata ai consumi di suolo e - da qualche decennio - anche la concomitante corsa alla "rinaturalizzazione". La canalizzazione del sostegno agricolo all'agroindustria e una pervicace aggressione burocratica alla piccola produzione rurale (sotto le spoglie dell'igienismo e di un malinteso "ambientalismo" e animalismo di matrice urbana), ha determinato anche la disordinata trasformazione di boschi coltivati, prati, pascoli, campi in incolto. I contadini hanno assistito impotenti a queste opposte, ma complementari, trasformazioni che concorrono a metterli fuori gioco. Non hanno mai mancato di profetizzare che queste arroganti politiche sono foriere di funeste conseguenze.

 

La stagnazione delle rese agricole e la volatilità del mercato

 

Che le promesse dell'agricoltura scientifico-industriale fossero ingannevoli i contadini e gli agrononomi non allineati ai paradigmi industrialisti lo hanno sempre sostenuto. Quando le rese continuavano a crescere, però, era facile far passare queste voci come quelle di "cassandre", "nostalgici", personaggi snobistici o dropouts. Le cose sono cambiate e stanno cambiando rapidamente e drammaticamente. I dati empirici, la siccità in Ucraina nel 2005, la crisi dei prezzi del 2007-2008, legata ai cattivi raccolti, le non brillanti annate successive, le perduranti tensioni sui mercati (acuite dalla cancrena finanziaria, dalla trasformazione di derrare indispensabili per sfamare l'umanità in "strumenti finanziari" su cui "giocare" come con i titoli di borsa) non inducono all'ottimismo. La speculazione più che una causa è una conseguenza di una situazione di volatilità anche se la sua dimensione si è fatta impressionante come testimonia il fatto che le transazioni finanziarie sulle derrate agricole principali sono passate da 13 a 205 miliardi di Euro tra il 2002 e il 2010 tanto da far ritenere necessaria al G20 l'esigenza di un controllo della volatilità di mercato (1).

Dopo il disastroso biennio 2007-2008, quando i prezzi dei cereali erano saliti del 43%, c'è stato sì il raccolto record di frumento del 2011 ma anche la siccità in Australia nel 2009 e gli incendi in Russia nel 2010.  Il 2012 ha visto un nuovo calo a livello mondiale e lo spettro della siccità si è materializzato anche nella Pianura padana dove ha compromesso come mai in precedenza il raccolto del mais con le importazioni che hanno superato per la prima volta il 20% e 350 mila ton. contaminate da micotossine cancerogene come conseguenza dello stress da siccità. I dati empirici delle produzioni e delle superfici investite dalle principali quattro colture mondiali: frumento, mais, riso e soia indicano che le rese unitarie stagnano mentre le superfici crescono solo per soia e mais.

Perché la soia è il propulsore proteico, delle fabbriche (non chiamiamoli allevamenti) di carne e latte e perché il mais è il propulsore delle fabbriche di bioetanolo, bioplastiche, biogas. Il diretto intereste del bussiness in queste due materie prima fa si che in diversi paesi le rese di queste colture continuano a salire in forza di un investimento massiccio in ricerca. Al bussiness del frumento e del riso interessa meno visto che è più interessante alimentare serbatoi e biodigestori piuttosto che gli stomaci degli umani. Però riso e frumento insieme rappresentano il 57% dell'apporto calorico di cui ha bisogno la popolazione umana mondiale. L'evidenza empirica di un arresto della crescita delle rese agricole emerge dai semplici dati dell'andamento delle produzioni mondiali forniti dalla Fao. Si tratta, però di dati aggregati a livello mondiale che risentono molto delle fluttuazioni delle singole annate.

 

Uno studio recente eseguito un team di ricercatori dell' Institute on the environment dell'università del Minnesota e della McGill University di Montreal  pubblicato nel dicembre 2012 (2) ha catalizzato un notevole intreresse non tanto per le indicazioni emerse sulla progressivo raggiungimento dei "picchi" delle erese agricole (che risulta anche da parecchi studi precedenti) quanto per la sistematicità della ricerca che ha preso in esame 2,5 milioni di statistiche sulle produzioni unitarie (per ettaro) in tutto il mondo nel periodo tra il 1961 e il 2008. I risultati dicono che sul 24-39% delle superfici destinate alla quattro principali colture (mais, frumento, riso e soia) le rese sono stagnanti o in declino. La considerazione vale principalmente per il riso e il frumento, colture destinate all'alimentazione umana. Vaste aree dell'India e della Cina, fondamentali per la produzione di riso (ma anche di frumento) vedono rese stagnanti (nella figura sotto il quadro delle rese del frumento con in giallo le aree con rese stagnanti. Il problema riguarda anche l'Europa e l'Italia e deve farci riflettere sulle sue conseguenze per la sicurezza alimentare.

 

 

Secondo lo studio in discorso in Italia le rese sono stagnanti sul 60% della superficie a mais  25% della superficie investita a frumento, sul 5% di quella a riso. L'effetto della selezione di ibridi di mais sempre più produttivi è evidentemente azzerato (almeno nella pianura padana) da una serie di fattori negativi in larga parte legati agli effetti boomerang della monocoltura. Nella figura sotto si vede come, relativamente al frumento, il picco delle rese sia già stato raggiunto in larghe zone di Cina, India ed Europa (oltre che nel Mid-west degli Usa).

 

Un altro studio molto interessante pubblicato nel 2011 (3) prende in esame l'effetto del cambiamento climatico sulle rese delle solite quattro colture. Lo ha fatto per un periodo tra il 1980 e il 2008. Esso ha utilizzato serie di dati storici su temperatire e precipitazioni e rese produttive agricole. Il riusultato è che l'effetto del cambiamento climatico ha contato globalmente per un -3,8% di rese del mais e per  -5,5% nel caso del frumento mentre riso e soia gli effetti climatici si sono in qualche modo annullati tra loro. In alcuni paesi l'effetto negativo del cambiamento climatico pregresso ha annullato gli effetti dei migliramenti tecnologici, dlel'aumento della concentrazione di CO2 e di altri fattori.  Come mostra la figura sotto riportata il cambiamento climatico negli scorsi decenni ha compotato significativi aumenti delle temperature medie. Non si può non notare come la Cina e l'Europa siano le più interessate a questo preoccupante fenomeno che riguarda aree densamente popolate e con importanti risorse agricole. La stagnazione della produttività agricola in Europa è fatta risalire al periodo tra il 1992 e il 1995 con variazioni da un paese all'altro (4)

L'immagine e la tabella di seguito, tratte dalla stessa pubblicazione, mostra la distribuzione degli effetti del cambiamento climatico sulle rese di mais e frumento sull'agricoltura dei diversi paesi. Si osserva un effetto molto forte sulle rese di frumento in Russia, su quelle del mais in Brasile e della soia in Paraguay. Dalla mappa si nota come, ancora una volta, l'Italia sia tra i paesi più interessati al fenomeno.

 

Cosa ci riserva il futuro?

Fin qui abbiamo esaminato quanto già avvenuto. Ma cosa è in atto?. Cosa ci si deve aspettare? A cosa bisogna prepararsi operando i necessari adattamenti? L'Agenzia Europea per l'Ambiente nel 2012 ha pubblicato nel 2012 dei dati previsionali che confrontano le rese delle colture agricole previste per il 2050 con quelle del periodo 1961-1990. Sono stati utilizati 12 diversi modelli di previsione climatica utilizzando lo scenario A1B (5) per le emissioni. Lo scenario non si presenta molto favorevole per l'Europa meridionale compreso un granaio come la Francia.

Fonte: European Environment Agency www.eea.europa.eu/data-and-maps/figures/projected-changes-in-water-limited

Le previsioni che si spingono oltre il 2050, però, sono nettamente più allarmanti (6). Le colture primaverili-estive come il mais inizieranno ad essere penalizzate da subito dalle elevate temperature e dalla siccità mentre, in funzione della disponibilità idrica e degli scenari di aumento (A2 = fortissimo aumento inarrestabile della concentrazione CO2 o B1 = rapido raggiungimento di un picco nel 2050 e quindi discesa delle emissioni di CO2) (7). Le patate andranno incontro subito a cali di resa che si estenderanno anche al Nord; dopo le patate sarà la volta delle delle bietole. Il ruolo dell'irrigazione sarà sempre più cruciale e senza un aumento dei consumi di acqua le rese caleranno drasticamente.  Va precisato che lo scenario più favorevole alle produzioni agricole (aumento rapido e inarrestabile delle emissioni di CO2) è, sotto il profilo ecologico, catastrofico.

Il cambiamento climatico interagisce con le pratiche agronomiche

In uno studio condotto in Francia sugli effetti della stagnazione delle colture del paese transalpino e, in particolare, sul ruolo di altri fattori oltre a quelli climatici nel determinare questo fenomeno (8).

I risultati mettono in evidenza la forte vulnerabilità dell'agricoltura basata su elevati input al cambiamento climatico. Tra i fattori risultati concorrere alla stagnazione delle rese e in grado di controbilanciare il "miglioramento" genetico (ma si può ancora chiamarlo così?) oltre al clima è emersa solo l'importanza tecnica agronomica e, in particolare, la modificazioni delle rotazioni che ha visto un progressivo ridimensionamento del ruolo delle leguminose a favore della monocoltura e dell'altenanza tra cereali e oleaginose (tra cui la colza da biodisel). La semplificazione delle rotazioni, tendenza largamente invalsa in Europa e nel mondo come conseguenza della pressione del mercato e della internazionalizzazione interagisce negativamente con il cambiamento climatico mettendo in discussione le ipotesi sulle quali si basano le previsioni dello SRES (Special Report on Emission Scenarios) dell'IPCC (9) ovvero che l'aumento dell'intensificazione produttiva consente di tradurre in maggiori rese l'aumento di potenziale genetico (10).

 

La biodiversità (su varie scale) è fondamentale per affrontare il cambiamento climatico  e garantire la sicurezza alimentare

 

Le considerazioni sul danno della monocoltura nell'impedire l'adattamento ai cambiamenti climatici possono essere estese alla biodiversità in generale. L'agricoltura industriale punta a ridurre al massimo il numero di specie vegetali e animali (domestiche e "selvagge"). In un campo di mais si vorrebbe che l'unica pianta presente fosse il mais e si utilizzano i biocidi per distruggere altri "intrusi". Così facendo si distruggono anche specie utili e si tende a trasformare il suolo da un ambiente pulsante di vita in un substrato inerte cui si addizionano concimi chimici. La semplificazione degli agroecositemi si realizza a livello di specie coltivate (che si riducono nello spazio e nel tempo sullo stesso spazio) e a livello della stessa specie: i mais ibridi sono geneticamente identici. Prima degli ibridi c'era un notevole grado di diverità da una pianta all'altra e se è vero che le produzioni erano inferiori e non omogenee da pianta a piuanta e anche vero che, in caso di avversità, una parte degli individui resisteva meglio e una produzione minima era garantita anche in caso di siccità, di colpi di calore ecc. La diversità è stata distrutta anche a livello di sistemi agricoli e non solo di specie coltivate e di campi. L'uso di varità diverse (come avveniva nei frutteti) garantiva maturazioni scalari ma rappresentava anche una sorta di "assicurazione" contro le avversità biotiche e non. Con l'aumento della instabilità climatica e la maggior frequenza di fenomeni "estremi" la biodiversità dovrebbe essere l'obiettivo prioritario dell'agricoltura non non solo per assicurare una varietà di caratteristiche delle produzioni agricole ma come base necessaria di agroecosistemi più resilienti in grado di fronteggiare i previsti cambiamenti e per mantenere ed incrementare la fertilità dei terreni agrari mitigando l'impatto delle avversità e delle patologie delle coltivazioni (11).

 

Non c'è solo il cambiamento climatico

La minaccia del cambiamento climatico non è la sola che deve preoccuparci. In tutti i continenti le terre agricole sono sottoposte in misura più o meno accentuata a fenomeni di degrado. Essi sono legati all'erosione (eolica, idraulica), all'alterazione di caratteristiche fisiche (perdità di porosità, di struttura glomerulare) e chimiche (perdita di sostanza organica, salinizzazione, accumulo di inquinanti e componenti fitotossiche come i metalli pesanti). Dietro molti di questi fenomeni si scorgono le conseguenze del paradigma industrialista: spingere sempre avanti la selezione per le rese, la specializzazione, l'uso di input chimici, energetici e meccanici.

Le varie dimensioni della degradazione dei suoli agrari

 

La maggior parte dei suoli agrari del mondo è interessata, sia pure in molti casi in modo limitato, a fenomeni di degrado. Il degrado presenta vari aspetti ed è causato da vari fattori e viene definito come la perdita di funzioni e di produttività di un ecosistema causato da fattori di disturbo che non possono essere spontaneamente compensati dal sistema (12). Nel 2003 gli esperti del Global Assessment of Human-induced Soil Degradation (GLASOD) stimavano che il 24% delle terre agricole fosse interessato a fenomeni di grave degrado contro il 15% nel 1981, indicando un rapido peggioramento (12). In alcuni paesi questi fenomeni sono preoccupanti e spiegano la stagnazione o il declino della produttività agricola.

fonte: www.fao.org/docrep/u8480e/U8480E3z.jpg

Ancora una volta è necesario sottolineare che dobbiamo guardare con grande preoccupazione  quello che avviene a casa nostra. I fenomeni di degrado delle terre agricole non riguardano - come superficialemnte si puà essere indotti a pensare sulla base delle suggestioni mediatiche - il margine del Sahel o le steppe centro-asiatiche e il Mid-West degli Usa. Gravi fenomeni - legati principalmente all'erosione idraulica (13) - si verificano anche in Europa come indica la mappa riportata di seguito dell'European Soil Bureau. L'Italia è il paese maggiormente a rischio in un continente dove l'erosione (insieme alla contaminazione chimica) è il più grave fattore di perdita di quella risorsa che, al di là della scarsa consapevolezza di questo fatto, rappresenta un bene scarsamente rinnovabile. Di qui la necesità di monitorare e di tenere sotto controllo il fenomeno (14).

Vanno male le cose anche sotto il profilo della compattazione del suolo legata alle eccesive lavorazioni e all'uso di mezi agricoli (trattrici, rimorchi) sempre più pesanti. In Europa, in alcune regioni, sin dagli anni '70 si stimava una perdita di produttività dei terreni agricoli del 25-50% a causa del compattamento del terreno (15).

Per quanto riguarda la povertà di sostanza organica dei suoli l'Italia compete con la Spagna e la Grecia per la "maglia nera" con un problema che non riguarda solo il Sud ma anche la pianura padana dove l'intensificazione agricola, unita ad un clima che in estate non sfugge a fenomeni di aridità stagionale, sta depauperando un capitale di fertilità costruito con paziente e faticoso lavoro di generazioni, attraverso le concimazioni organiche e l'uso di colture foraggere permanenti o di erbai poliennali. Dove oggi c'è solo mais e ... mais. E dove la sostanza organica (reflui zootecnici, paglie, residui) invece che ritornare al terreno viene trasformata in CO2 e metano per speculare sulla produzione di energia elettrica super-sovvenzionata.

fonte: eusoils.jrc.ec.europa.eu

 

Anche sul fronte della contaminazione dei suoli con metalli pesanti la realtà italiana si presenta preoccupante (sotto a sinistra lo zinco, a destra il rame). In entrambi i casi la situazione peggiore è nella Pianura Padana da mettere in relazione alla presenza di allevamanti intensivi.

fonte: eusoils.jrc.ec.europa.eu

 

Popolazione umana in frenata ma si assesterà su un livello di 9 miliardi di esseri umani

 

La popolazione umana ha già iniziato la frenata demografica da tempo. Oggi la crescita è dell'1% mentre vent'anni fa era del 2%. Secondo uno studio delle Nazioni Unite (16) nel 2025 il numero di figlie per donna scenderà sotto 1 e nel 2075 la popolazione inizierà a declinare dopo aver conosciuto un picco di 9,2 miliardi di individui da confrontare con i 7,1 attuali.  Il net reproduction rate non è altro che il numero di figlie per donna. Un tasso equivalente a 1 comporta una situazione di stabilità ovvero di perfetto rimpiazzo della popolazione esistente.

 

La strumentalità delle politiche neomalthusiane imperialiste

 

Che la crescita demografica, per quanto imponente, non rappresenti il fattore determinante dello squilibrio tra capacità di produzione agricola e domanda alimentare appare evidente se solo si considera che più di 2/3 delle terre agricole sono destinate a produrre alimenti per il bestiame mentre solo l'8% servono per l'alimentazione umana. Con la prospettiva di destinare 20-30% delle terre alle agroenergie risulta evidente che non è la crescita demografica il fattore che può determinare il rischio di carestie. Già nel secolo scorso alla crescita demografica è stata attribuita strumentalmente la responsabilità principale del sottosviluppo. Gli Stati Uniti propagandavano le campagne a sostegno di contraccezione, sterilizzazione e aborto (campagne tutt'ora finanziate da varie organizzazioni) perché temevano che la crescita demografica di alcuni paesi avrebbe compromesso la loro egemonia imperialista.

Tale motivazione non poteva essere dichiarata ma è stata resa nota con la rimozione del segreto di stato sul  “Memorandum 200 per la Sicurezza Nazionale: crescita della popolazione mondiale, cosa comporta per la sicurezza e per gli interessi degli Stati Uniti all’estero” (NSSM 200)(17), uno studio che il Consiglio Nazionale della Sicurezza americano, diretto da Henry Kissinger, completò nel 1974. Kissinger suggeriva di presentare le campagne antidemografiche come strumenti per l'affermazione dello sviluppo economico e dell'emancipazione individuale ma suggeriva di utilizzare gli aiuti alimentari quali mezzo per conoscere le capacità di produzione di cibo dei diversi paesi e per costringerli ad adottare politiche di contenimento demografico. Oggi l'utilizzo del cibo come strumento di potere mondiale è sempre più attuale. Rispetto ai tempi di Kissinger passano per le mani delle multinazionali del commercio granario molte più derrate e i "padroni del cibo" (18) hanno esteso il loro controllo diretto e indiretto su molte più terre attraverso la produzione sementiera, le biotecnologie, la fornitura di mezzi e assistenza tecnica, l'imposizione di sistemi di regolazione ad essi favorevoli e tesi a spiazzare i contadini. Non c'è più bisogno della CIA per minacciare o provocare crisi alimentari.In realtà non è la crescita demografica a mettere a rischio la sicurezza alimentare. tra il 1992 e il 2009 la produzione alimentare mondiale è cresciuta ad un tasso medio annuo del 2,8 per cento mentre il tasso annuo di crescita della popolazione è stato in media 1,4 per cento (19).

 

 

La carne e le bioenergie mettono a repentaglio la sicurezza alimentare e sono causa di fortissimi impatti ambientali

 

Le tensioni sul mercato e l'assottigliamento delle riserve di cerali sono legate al rallentamento della crescita della produzione alimentare (come abbiamo visto in precedenza) ma, sioprattutto, alla crescita dei biocarburanti e della quota dei cereali destinati alla produzione di carne per sfamare le nuove middle class urbane dei paesi emergenti.

Nel 2010/2011 la quota di cereali destinati a usi energetici e all'industria zootecnica è arrivata al 54%con una crescita degli usi non direttamente alimentari del 5,8% mentre quella per uso alimentare di solo il 2,5%(20). Che il consumo di carne sia alla base della domanda di cereali lo siega bene il confronto tra l'India e gli Stati Uniti. In India il consumo annuo di carne è pari a 4 kg pro capite, negli Stati Uniti è pari a 120 kg (in leggera diminuzione da qualche anno). Ciò spiega perché il consumo (diretto e indiretto) di cereali per ogni statunitense è di 725 kg, per ogni indiano di soli 120 kg (21).  Il punto è che mentre l'India per ragioni culturali non intende utilizzare il maggior reddito per seguire il modello alimentare occidentale la Cina che mezzo secolo fa aveva consumi di carne pari a quelli del Burtundi (2 kg e rotti pro capite all'anno) sta avvicinandosi ai consumi di carne dei paesi ricchi (vedi figura sotto)(22)

Il punto è che mentre l'India per ragioni culturali non intende utilizzare il maggior reddito per seguire il modello alimentare occidentale la Cina che mezzo secolo fa aveva consumi di carne pari a quelli del Burtundi (2 kg e rotti pro capite all'anno) sta avvicinandosi ai consumi di carne dei paesi ricchi (vedi figura sotto)(23).

Tra chi consuma carne in modo smodato ci sono gli italiani. Nella poco invidiabile graduatoria della figura sotto figuriamo all'ultimo posto dei "drogati da carne" ma va rilevato che in termini assoluti il nostro consumo (5,44 milioni di ton.) si piazza tra i primi al mondo preceduto solo, oltre che dagli Usa da Brasilile, Russia e Germania.

L'aumento del consumo di carne e quello concomitante di biomasse agricole destinate a scopi energetici determinano scenari preoccupanti. Se si insiste sulla strada delle colture energetiche senza ridurre i consumi di carne l'effetto ILUC (indirect land utilization change) sarà imponente. Gli alimenti per il bestiame non più prodotti localmente per far posto alle colture energetiche dovranno essere compensati da crescenti importazioni che comporteranno la sostituzione di pascoli con seminativi e di savane e foreste con pascoli seguendo un effetto domino già presente in Sudamerica e in Africa. I pesanti effetti ambientali e sul clima di questi cambiamenti sono stati messi in luce già da alcuni anni (24).

Meno contadini, più cittadini, meno terra da coltivare. Una prospettiva sostenibile?

All'inizio di questo secolo la popolazione urbana ha superato nel mondo quella rurale. Verso la fine del secolo i rurali saranno meno di oggi (caleranno da 3,5 miliardi a 2) i "cittadini" cresceranno da 3,7 a 7 milardi. I fabbisogni di ciba, acqua, cibo delle magalopoli di decine di milioni di abitanti diventeranno insostenibili se le aree metropolitane non riusciranno a divenire in larga misura autosufficiente, a ridurre i rifiuti a riciclare le loro scorie metabiliche. L'agricoltura urbana e suburbana deve diventare parte di questo metabolismo.  Non è che un ripercorrere la storia dell'umanità dal momento che le città per buona parte della loro storia hanno ricavato buona parte della propria sussistenza da orti, frutteti, piccole coltivazioni e mantenimento di animali da bassa corte all'interno delle mura cittadine.

La rinascita dell'agricoltura urbana consente di valorizzare i "pori" che l'urbanizzazione spesso disordinata ha lasciato come isolotti ra l'edificato. Isole troppo piccole per praticare una coltiuvazione di larga scala con le grandi macchine agricole ma adatte ad una coltivazione manuale, con aninali, con l'ausilio di una meccanizzazione leggera. La stessa cosa può avvenire nelle aree rurali "marginali" che soffrono problemi speculari a quelle delle conurbazioni ma che, come queste ultime possono "rimettere a frutto" le terre che il mercato globale ha decretato "fuori mercato" perché lontane dai centri di consumo, troppo frammentate, in pendenza. L'incontro di diversi fattori fa rientrare in circuiti di economia sociale (ma altamente produttiva) risorse che l'internazionalizzazione lascia inoperose: la terra e gli uomini. La specializzazione, l'aumento della produttività, la tecnologia, l'uso dell'energia fossile a buon mercato hanno provocato alti livelli di disoccupazione e grandi estensioni di terre incolte o mal coltivate. A questi fattori se ne sta unendo un terzo che, sino ad oggi nei paesi "ricchi" era sconosciuto: l'aumento della povertà, la riduzione di reddito reale, la perdita di capacità di acquisto che si ripercuote sulla difficoltà a sostenere le spese per l'abitazione, l'alimentazione, il vestiario. Non si tratta più di rinunciare alle vacanze ma di contrarre anche i consumi primari.

Vi sono quindi consumatori che vedranno sempre di più nell'autoproduzione una prospettiva per mantenere un adeguato livello di consumi. L'orto come passatempo e al massimo piccola integrazione del reddito è un aspetto tutto sommato secondario della nuova agricoltura. I contadini urbani operano in modo collettivo e all'interno di schemi di collaborazione con contadini in condizione professionale. L'agricoltura urbana (ma anche quella che recupera le "aree marginali") riscopre e attualizza le forme dell'uso collettivo della terra. Tanti francobolli e ritagli di terra non possono essere gestiti se non uniti in nuove forme di conduzione collettiva secondo un modello che inverte il processo secolare di privatizzazione delle terre. È la community supported agriculture in cui il ruolo del consumatore e quello del produttore si confondono uno nell'altro.

Il "ritorno dei contadini", l'affermazione dell'agroecologia contrapposta all'agroindustria, sta del resto avvenendo anche in altri modi, anche attraverso la trasformazione genetica degli stessi "imprenditori agricoli" che hanno compreso che la spirale dell'aumento della produttività e dell'intensificazione produttiva è come il lavoro di Sisivo: ti ingrandisci, aumenti le rese (quando riesci ancora), introduci nuove tecnologie meccaniche, informatiche, biologiche, ti affidi alla tecnoscienza ... con il risultato che i margini di produttività se li accaparrano gli altri: Gdo, burocrazia, industria di trasformazione, esperti e consulenti e l'agricoltore che si è ridotto a gestire un segmento sempre più piccolo di una grande filiera resta con meno valore aggiunto di prima (quando non viene espulso dal mercato).

 

La svolta presuppone la trasformazione del consumatore

 

Così a un certo punto si cambia paradigma, si punta a prodursi in azienda quanti più input possibile, a operare la trasformazione e la commercializzazione dei prodotto anche le aziende imprenditoriali delle aree agricole competitive localizzate in ambiti densamente abitati (ma tutta la pianura padana lo è!). Una scelta, però, che presuppone che ci siano delle scelte convergenti da parte del consumatore. Quest'ultimo può limitarsi ad acquistare presso le aziende agricole alcuni prodotti come in un negozio. Questo consente al produttore di spostare dalla filiera lunga agroindustriale a quella corta in tutto o in parte la sua produzione ma difficilmente consente una trasformazione dell'indirizzo colturale. Solo se i consumatori si aggregano ed entrano con i produttori in accordi stabili, o quantomeno si impegnano nell'acquisto anticipato del prodotto, il produttore può impegnarsi a investire la sua terra in quelle produzioni "fuori mercato", ma magari un tempo praticate, che possono sostituire alla monocoltura o a rotazioni semplificate in cui entrano 2-3 colture in tutto la policoltura. Così si possono reintrodurre anche i cereali minori o vecchie varietà di frumento ma anche praticare l'orticoltura di pieno campo e impiantare vigne e frutteti. Le possibilità di un approvvigionamento a km 0 sono molto più ampie di quanto si tenda a pensare, alla luce della semplificazione e desertificazione degli ordinamenti agricoli imposta dall'agricoltura industriale. Anche nel caso della trasformazione agroecologica di aziende già inserite nelle filiere agroindustriali il consumatore può diventare coproduttore, non solo attraverso gli acquisti anticipati, le decisioni condivise sulle varietà da seminare e le qualità da ottenere ma anche partecipando attivamente a quelle fasi di produzione (raccolta) che, in coltivazioni non specializzate e scala non meccanizzabile, inciderebbero in modo insostenibile sui costi.

 

La variegate forme dell'agricoltura neocontradina o del coproduttore

 

In un sistema economico capitalista che non "concede" più il "tempo libero" ma lo impone e che concederà sempre meno reddito per riempire in modo piacevole questo tempo vuoto non può che apparire allettante la prospettiva di partecipare al lavoro agricolo, verificando di persona la qualità di ciò che si consuma, socializzando, recuperando conoscenze e rapporto con un "naturale" fuori dalla virtualità e dalle ideologie.

Le forme di coproduzione possono spingersi anche alla conduzione di piccoli campi. Sui quali alcune lavorazioni più impegnative possono essere realizzare dagli agricoltori e che per il resto possono essere lavorati da neo-coloni che trattengono per sé la maggior parte della produzione riservando all'agricoltore (conduttore e/o proprietario del fondo) una parte o un equivalente in denaro.

Non si tratta che di riscoprire le infinite varietà di rapporti agrari sperimentati dalla storia. Tutti quei rapporti "misti" che la modernità ha esecrato in quanto "residui arcaici, feudali" perché tendeva ll'ideale dell'agricoltura capitalistica in cui ci sono solo proprietari, imprenditori e salariati. Tra queste forme contrattuali c'era la ben nota mezzadria ma anche quelle forme che al salariato fisso della cascina lombarda concedevano non solo l'orto ma anche dei campi da coltivare autonomamente.

Oggi questi rapporti agrari non sarebbero più presupposto di sfruttamento. Una nuova "mezzadria" potrebbe tradursi in una concessione da parte dei proprietari (spesso da raccogliere in associazioni a causa della frammetazione fondiaria) dei terreni in cambio di una "partecipazione" in natura ai frutti della terra. I giovani che si impegnerebbero a coltivare i terreni abbandonati ricaverebbero il 90% del frutto. Una soluzione (propugnata da Giannozzo Pucci che da sempre sostiene l'importanza di "riabilitare" i contratti di mezzadria e simili) al problema delle terre abbandonate, della disoccupazione, della sicurezza alimentare che non implicherebbe alcun intervento burocratico. La società può trovare da sè le soluzioni ai problemi.

Un tempo certi rapporti agrari potevano presupporre forme di sfruttamento. Oggi le cose sono totalmente diverse. Superare la rigidità dei rapporti agrari moderni e la concezione dell'agricoltura come attività escusivamente imprenditoriale per il mercato (di qui il disprezzo per gli "hobbysti") è necessario per disporre ancora di cibo e di cibo più sano. Il modello di agricoltura basato su 2 addetti in condizione professionale che sfamano 98 altri abitanti del "mondo sviluppato" è un modello drogato dalla dilapidazione dell'energia fossile a buon mercato, dalla dilapidazione del capitale naturale a partire dalla fertilità della terra.

Quello che appare come un modello sostenibile è quallo in cui larga parte della popolazione (necessariamente anche quella delle aree urbane) partecipa in varie forme alla produzione del proprio cibo. I contadini del futuro (se vogliamo evitare foschi scenari) saranno tanti anche se non saranno solo contadini. Tante mani, occhi, cuori che si occupano della terra garantiranno un ritorno ad una coltivazione più amorevole della nostra madre. Garantiranno il recupero dei terreni abbandonati e la sostituzione delle monocolture con la varietà di un'agricoltura neocontadina, senza pesticidi e concimi chimici, il più possibile "sinergica".  Un'agricoltura che cessa la lotta contro la natura per operare al massimo con essa, sfruttando l'attenta osservazione e la minuta esperienza, ridimenensionando l'arroganza di un sistema scientifico moderno che è nella sua parabola discendente e rivalutando in armonia con una nuova scienza le forme di conoscenza che hanno accompagnato la storia dell'umanità.

Presupposto della sostenibilità dei sistemi agricoli del futuro è comunque il drastico ridimensionamento dei consumi di prodotti di origine animale che moltiplicano l'impronta ecologica dei consumatori. Le risorse liberate dalla produzione di carne, latte e uova possono consentire di sviluppare (o recuperare) produzioni vegetali scarsamente apprezzate dal mercato globale delle commodities per la la scarsa produzione o per problemi tecnologici nella conservazione e trasformazione. Le proprietà nutrizionali delle tante specie e delle varietà storicamente coltivate può compensare il consumo di prodotti animali (oggi peraltro eccessivo e causa di forte incidenza di patologie cardiocircolatorie e oncologiche) limitando l'allevamento all'utilizzo di risorse foraggere che si rendono disponibili in condizioni (estremi climatici) dove non è possibile alcuna coltivazione, alla coltivazione di foraggere (in primis leguminose) all'interno di rotazioni al fine dell'arricchiento e del miglioramento del terreno, ai sottoprodotti . Infine, grazie al riavvicinamento delle filiere di produzione e consumo alimentare, si può recuperare in modo semplice il massimo della sostanza organica e dei principi nutritivi degli scarti alimentari (evitando la creazione di fliere lunghe del rifiuto organico con i problemi legati ai grandi impianti di compostaggio e trattamento).

Lo "smantellamento" dell'agricoltura italiana

 

Una cosa è certa. La tendenza alla perdita di terra coltivabile e di riduzione delle aziende agricole va fermata e invertita. Non ci si può permettere di mettere ulteriormente a rischio l'autosufficienza e la sicurezza alimentare. Il consumo di suolo per avanzata del bosco, infrastrutture, urbanizzazione, attività commerciali, e ricreative deve essere bloccato. Ai giovani deve essere data la possibilità di tornare alla terra non solo in forza di superamento di ostacoli economici ma anche di una dtrastica deburocratizzazione.

Note

(1) G20 (2011): Action Plan On Food Price Volatility And Agriculture. Meeting of G20 Agriculture Ministers Paris, 22 and 23 June 2011. Ministerial Declaration.

http://agriculture.gouv.fr/IMG/pdf/2011-06-23_-_Action_Plan_-_VFinale.pdf.