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Coltivare la terra, mangiare, cucinare sono atti politici. Se ne diventiamo pienamente consapevoli può nascere una nuova (vera) democrazia

 

 

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(03.09.14) Dalle Alpi alla conurbazione milanese la tendenza è a trasformare il territorio in qualcosa incapace di produrre cibo. Il biocapitalismo ammette solo aree urbanizzate con annessi di agricoltura iperindustrializzata. Ma ci può essere una reazione sociale e politica. Tra le forme della resistenza c'è l'agricoltura civica

 

La ricchezza dell’agricoltura,

le radici di una comunità

Proposte per un’agricoltura civica


di Michele Corti - Ruralista


Intervento al Convegno  “Una Villa ricca di storia, un Borgo ricco di vita” tenutosi Domenica 22 giugno 2014  presso la Villa Arconati – Castellazzo di Bollate (Milano)

Sul Castellazzo si sono dette molte cose, la vocazione agricola di questo complesso rappresenta però un aspetto fondamentale. Nella storia il Borgo è un tutt’uno con la Villa (Arconati) e rappresenta - nell’ambito della storia dell’agricoltura milanese e lombarda - un elemento di per sé importante e interessante.

Se prendiamo in considerazione quello che c’è oggi intorno alla Villa (così come risulta dall’immagine satellitare) ci accorgiamo che questo minuscolo spazio agricolo rappresenta una specie di oasi in mezzo alla coltivazione... del cemento e dell’asfalto.

Conservare e valorizzare il Castellazzo con il Borgo come sfida quindi per fare di questo lembo di campagna sopravvissuta qualcosa d’importante (considerato che è ormai da escludere un’ulteriore follia speculativa si accanisca a cancellare quest’ultimo lembo di residua campagna). Già si è accennato, lo faceva prima Pucci, alla funzione educativa di questa realtà che sopravvive nel contesto di una conurbazione massiccia. L’agricoltura civica incarna questa funzione di conservazione attiva ed educativa.

 

Il senso dell'agricoltura civica

 

Qualè la funzione dell’agricoltura civica (un concetto e un movimento nati, come spesso succede, negli Stati Uniti)? Si può sintetizzate in una parola: “rilocalizzare” il cibo e, aggiungo, salvare il territorio, che sia un’area metropolitana, o un’area 'marginale' di collina o di montagna dove l’agricoltura, sino a pochi anni fa fiorente, è stata abbandonata. Si tratta in ogni caso di ricreare il nesso tra l’abitare e il coltivare, di rendere il territorio qualcosa di fertile per l’uomo. Purtroppo noi siamo in un sistema che è ormai lanciato senza freni su un binario che ci conduce verso la separazione totale dell’abitare, del vivere dal produrre cibo.

Un tempo, fino a non molti secoli fa, anche all’interno della città, si cercava di coltivare il più possibile; all’interno delle mura di Milano fino all’ottocento si produceva (c'erano ortaglie, frutteti, vigneti) e, appena al di là delle mura, c’erano le cascine, i campi. Entro un raggio di non molte miglia si coltivava una significativa quota di quanto la città consumava.

 

 

Lo spreco di suolo e di territorio aumenta

 

Larealtà attuale è invece quella di esonerare il territorio dal produrre cibo, ma quando noi esoneriamo un territorio dal diventare supporto edule della popolazione che vi è insediata, corriamo dei rischi molto forti. Un territorio esonerato dal produrre cibo può essere utilizzato per le peggiori speculazioni. Purtroppo questi rischi non sono finiti; abbiamo la TEM (tangenziale esterna est di Milano), la Pedemontana, la Tav. Opere che costano decine di milioni di euro al chilometro, spesso del tutto inutili, che sottraggono risorse a iniziative molto più utili e sostenibili come può essere la cura del patrimonio culturale, il ripristino dei paesaggi, di un’agricoltura produttiva non intensiva, senza chimica. Consideriamo che abbiamo la metà dei giovani disoccupati e che non saranno le grandi opere che offriranno loro posti di lavoro duraturi.

Oggi si pensa che un territorio possa essere utilizzato, sprecato per svariate funzioni, tanto il cibo lo producono le aree più specializzate, ci arriva con le navi, ci viene da oltre mare. Gli scrupoli ad aggredire il territorio non sono aumentati, sono diminuiti. Noi abbiamo in Italia territori che sono trivellati, come in Basilicata, dove stanno estraendo petrolio e inquinando le falde acquifere; abbiamo l’agricoltura degradata a produzione energetica: di biocarburanti, chimica verde, biogas.

Non è finita, siccome abbiamo esonerato il territorio dal produrre cibo possiamo ritornare alla natura selvaggia; abbiamo questa folle forma di contraddizione: da una parte un territorio sempre più ridotto destinato ad una produzione agricola super industrializzata con lo sfruttamento intensiva del terreno, la sua degradazione (biologica, chimico-fisica) e l'esaurimento della fertilità di lungo periodo (dove si riversano fiumi di pesticidi e si usano gli OGM), dall’altra parte o territori cementificati o territori destinati a una cosiddetta “wilderness”.

 

 

Terra, cibo, comunità

 

L’agricolturacivica nasce soprattutto come esigenza di chi vive in città disumane, dove non c’è più il contatto con la terra, con quelle manualità che facevano parte dell’esperienza, della condivisione, e che formavano l’intelligenza umana. Nel 2000 una signora americana iniziò a parlare di “agricoltura civica” proprio per questo scopo, riconnettere alimentazione, cibo e comunità; tre termini che una volta erano indissolubili, ma che oggi sono staccati, uno contrapposto all’altro. Non solo non si produce più il cibo nelle città, nelle conurbazioni come il Nord-milanese, ma non si produce più cibo neppure in quelle aree di collina, di montagna, italiane, dove si è coltivato per millenni. Si vogliono fare i parchi, tipo Yellostone sulle Alpi ci sono anche le bioenergie, la speculazione delle biomasse, a peggiorare il tutto.

Oggi si è staccata la produzione di cibo dall’agricoltura raggiungendo gli estremi degli impianti di bioetanolo o degli inceneritori di piante legnose a rapidissimo accrescimento della short rotation forestry) che utilizzano (ciascuno) migliaia di ettari di terreno. E' un fenomeno presente anche in Italia, in Lombardia ci sono 400 centrali a biogas con 350 Megawatt installati, e per ogni Megawatt di questa produzione di energia consuma, se la biomassa utilizzata è il mais, 400 ettari di terreno agricolo. Senza contare il consumo di acqua che queste coltivazioni no-food assorbono, i pesticidi utilizzati senza risparmio (e la forte tentazione di usare Ogm).

 

Non è una raffineria ma un mega impianto a biogas che mangia migliaia di ettari di mais

 

La risposta dell'agricoltura civica è una risposta politica al sistema di consumo di suolo, al consumismo

 

Inalternativa a queste disastrose tendenze noi dobbiamo ovunque cercare di produrre cibo a km 0, di conservare o ripristinare un ambiente vario, un ambiente che ricordi, che racconti culture. Il territorio italiano, come ben sappiamo, è ricco di paesaggi, culture agricole connesse alla produzione, alla trasformazione, al consumo di alimenti di ogni tipo. Esso, però, quello lombardo in particolare, è stato sottoposto ad una trasformazione spesso brutale dei luoghi. Li abbiamo (li hanno) trasformati in quella che la sociologia ha definito con fortunata espressione “non-luoghi”.

Quando vediamo i non-luoghi dove si coltiva l’asfalto e il cemento dobbiamo pensare che ai vantaggi che direttamente e indirettamente il sistema produttivo delle multinazionali consegue con la loro proliferazione. Essi implicano una serie di bisogni surrogati e alienati che alimentano i cicli del consumismo.

Privati del paesaggio, privati di una comunità, isolati nel proprio individualismo abbiamo bisogno di natura, di tradizione, di ruralità. Ci pensa il sistema consumista a fornircele ma a modo suo, in forme surrogate. Ci inondano di documentari naturalistici, si inventano le fattorie didattiche, i parchi di ogni tipo, ma tutti uniti dall'artificialità, compresi quelli “naturali”. Tutto per farci andare da qualche altra parte e non farci vivere a casa nostra, nel nostro territorio. Non ci fanno vivere esperienze autentiche né nei luoghi adibiti a divertimento, evasione, immersione nella Natura, né a casa nostra. Perennemente insoddisfatti cerchiamo nel consumo consolazione.

Così ci slegano dalle relazioni con chi abita assieme a noi il nostro territorio (che è difficile da riconoscere come 'nostro' quando è un ammasso informe di volumi edilizi), così recidono quel legame affettivo che spingerebbe la gente a ribellarsi agli stupri del paesaggio, alle speculazioni legate al consumo di suolo. “Cosa vale struggersi per contrastare altri scempi quando il territorio è devastato?”

 

 

Dietro a tutto questo c’è una serie di speculazioni che si auto alimentano, che si intrecciano: la speculazione energetica che deve creare una domanda fittizia di energia favorendone lo spreco (per 'evadere dalla giungla d'asfalto' devi fare 100 km, per fare la spesa devi usare la macchina, per stoccare le carrellate degli iper devi usare freezer e sempre più capienti frigo). Per 'cercare la natura' devi usare le autostrade che non servono. Per far viaggiare le merci a 200 all'ora 'serve' la TAV. Per controbilanciare i danni all'agricolura prodotti dalla monocoltura (vedi diffusione di patologie e parassiti) 'servono' gli OGM. Per 'divertirti' devi andare in un parco tematico; se vuoi respirare aria pulita e immergerti nella natura 'incontaminata' devi imboccare ancora una volta l'autostrada e 'consumare' una 'natura sotto campana di vetro'. Tutto viene trasformato in una merce, commodificato. E per consumare una cosa ne devi consumare altre.

L’agricoltura civica intende ribaltare tutto questo. Siamo in un luogo (qui a Castellazzo) dove possiamo usufruire di natura, paesaggio, cultura, agricoltura, di questo scambio tra uomo e natura. Non dobbiamo essere costretti a fare centinaia di chilometri (usando autostrade a quattro corsie, bruciando benzina) per andare a visitare un parco. Possiamo entrare in contatto con la nostra storia e le nostre tradizioni senza recarci a 'consumare' qualche finta tradizione folkloristica riesumata chiedendo – con blandizie di sviluppo turistico – a popolazioni locali in Italia o in qualche altra del mondo di giocare alla comparsa turistica.

 

 

Ogni abitante di questo pianeta sta diventando un consumatore e un produttore (molte popolazioni vivono la loro vita, le loro relazioni sociali e il loro scambio con la natura senza neppure conoscere queste categorie, ma sono sempre meno). La prospettiva, però, può anche essere un’altra; quella di ritornare a stabilire un rapporto con la propria terra, con il proprio paesaggio, con il proprio passato, con quello che rappresenta la memoria, dove non siamo più solo consumatori, produttori, imprenditori agricoli “professionali” (come se chi coltiva per passione, per procurare il cibo per sé e donarlo agli altri fosse un minus habens).

Creare situazioni dove il cibo non è più solo più merce, che diventa qualcosa che ha a che fare con le persone concrete e non con i 'consumatori', per una condivisione con gli altri, per fare esperienze può fare solo che bene (alla società e agli ecosistemi) perché riduce drasticamente l'impronta ecologica della produzione agricola con le catene del freddo, i viaggi intercontinentali della merce, l'uso massivo di prodotti chimici per proteggere le derrate nelle lunghe filiere di una rete di trasformazione e consumo che abbracciano il pianeta.

Al posto del consumatore, del produttore “imprenditoriale”, entrano in gioco, nell’agricoltura civica, le persone concrete, in comunità, con le loro vite, i loro corpi. Non più solo con il portafoglio, non più solo con la testa. Siamo in molti oggi a ritenere, anche grazie alle posizioni antesignane di Pucci e di pochi altri, come la scissione tra la mente e la manualità, abbia rappresentato una delle peggiori forme di alienazione della nostra società industriale e consumistica.

 

Superare le dannose separazioni tra natura e società, tra mente e corpo, tra saperi pratici e teorici con un programma non elitario

 

Praticarel'agricoltura civica significa riappropriarsi della produzione del proprio cibo, significa ricollegarsi non solo agli altri ma anche alla propria mente, al proprio corpo. Abitare un luogo significa coltivare nel senso più ampio della parola coltivare, che implica l'abitare, il venerare.

Fare agricoltura all’interno del Parco delle Groane non ha molto senso, però, se si continuano a coltivare le stesse cose che si producono nella bassa Lombardia, nel Lodigiano, ossia il mais, una delle grandi merci internazionali (commodities), punta dell'agrobusiness mondiale, che alimenta il mercato dei pesticidi e l'industria sementiera (in mano alle stesse poche enormi corporation).

All’interno di un Parco, su una superficie che è in qualche modo sopravvissuta all'alluvione del cemento e dell'asfalto, in questo lembo di terra dove sopravvive, molto in piccolo una trama di paesaggio agricolo che mantiene una sua coerenza, conviene coltivare qualcosa che non sia solo merce, ma rappresenti valori alimentari, ma anche condivisione, convivialità, rigenerazione di paesaggio, biodiversità, tutta una serie di elementi che assumono importanza per la comunità locale, non solo per chi partecipa direttamente (anche se si spera che siano in molti) a queste iniziative.

 

 

Intorno a qui si estende un territorio ad alta densità abitativa, ci sono dei comuni molto grossi. Non guardiamo, come fanno troppi 'ambientalisti' malthusiani che disprezzano e svalutano gli uomini e le donne nostri fratelli e sorelle solo perché 'troppi'. Chi si lascia afferrare da questi ragionamenti non si rende conto di porsi su un piano inclinato e molto sdrucciolevole; il piano antropologico delle derive eugenetiche e razzistiche. Nel 'troppi' non si includono mai coloro che, assurgendo all'autocoscienza dell'imperativo ecologico, condannano le masse dei loro simili (ma non certo sé stessi) alla svalutazione di chi è in soprannumero, di chi toglie spazio alle tigri, agli elefanti, produce troppa CO2, troppe scorie.

Coinvolgere, promuovendo anche l'educazione alla riduzione dell'impronta ecologica i tanti abitanti di questo territorio in un programma di agricoltura civica significa arricchirlo con le tante creatività e sensibilità personali. Chiarendo che agricoltura civica non è qualcosa di esoterico per adepti ma qualcosa aperto a tutti, comprensibile a tutti. Il 'tanti' può anche essere declinato come valore positivo.

Tolti di mezzo equivoci elitaristi, fondamentalistici va anche chiarito che questo lembo di terra, qualora decollasse un progetto di agricoltura civica, non deve diventare un campo giochi per chi lo frequenta ma deve essere qualcosa che assuma una funzione pubblica, collettiva. Con lo scopo di mantenere la memoria, mantenere il paesaggio, coinvolgere le scuole, i comuni, le associazioni i gruppi di giovani, anziani, famiglie che sono intorno a Castellazzo. Ecco questo è il senso civico, comunitario di un progetto di agricoltura in un contesto come questo.

Va benissimo realizzare gli orti in comune o altri tipi di esperienze, ma sono esperienze riduttive. Possiamo metterci a coltivare biologico, fare permacultura, eccetera. Ma un conto è farlo in una dimensione collettiva, che valorizzi la trasmissione intergenerazionale, il coinvolgimento delle scuole, che sia finalizzata consapevolmente a mantenere questo scampolo di campagna nord-milanese evitando l’aggressione della speculazione, un conto è farlo in modo privato o da “circol ”. Ottima cosa praticare l’agricoltura biologica nella propria azienda, a livello imprenditoriale, ma in un territorio come questo, così particolare, ha un senso se c'è qualche valore in più del puro e semplice biologico (specie se interpretato come “faccio il minimo richiesto dai regolamenti per ottenere un bollino”). Qui qualsiasi nuova iniziativa agricola che abbia un senso deve rivestire anche una funzione pubblica, entrare in una dimensione civica.

 

 

Coltivare e trasmettere le memorie e le nuove idee

 

Unaporzione di territorio come questo (di Castellazzo), scampata alla cementificazione, deve divenire una scuola di comunità. Una scuola di comunità, è una scuola che consente la trasmissione da una generazione all’altra. Gli anziani hanno ancora delle memorie, i giovani hanno bisogno di questo passaggio di testimone perché vivono un grande disorientamento. I nonni si devono rendere utili invece di essere emarginati o fare le baby sitter senza alcun ruolo educativo.

La scuola di agricoltura deve essere una scuola di partecipazione. In un progetto molto complesso come questo dove ci sono grandi spazi fisici da utilizzare, paesaggi da recuperare, da ripristinare, da far tornare produttivi nel senso più pieno e fecondo. Ci saranno idee diverse, emergeranno capacità diverse, però lavorando non solo sui progetti, con le parole, ma anche con le mani, assieme, si deve, si può cercare di rilanciare le proprie aspirazioni, i propri punto di vista rendendoli compatibili e complementari con quelli degli altri. Da qui una crescita comune.

Agricoltura civica è educazione ambientale concreta, educazione reciproca nella prassi. Il contatto con la terra, con il cibo, con le piante, con gli animali, evita quell’ambientalismo ideologico di cui parlava Pucci. Noi abbiamo (particolarmente in Italia) un ambientalismo ideologico distorto che ci ha insegnato che una cosa è la natura, una cosa sono gli uomini. Ma un rispetto vero per l’ambiente, una vera empatia per gli animali, per le piante, si produce solo attraverso la simbiosi, una simbiosi che si sperimenta nella pratica agricola che si prolunga in un consumo consapevole. Prime destinataria di tutto questo sono le scuole.

Un lavoro fatto qui sul campo (in senso letterale e non metaforico), sugli orti, sui frutteti, sui vigneti, potrebbe essere lo spunto per molte idee. Le scuole possono essere coinvolte anche se i prodotti che vengono coltivati in questi spazi, valorizzati, vengono poi consumati nelle mense, vengono poi consumati anche a casa, con il coinvolgimento dei genitori e dei nonni.

 

 

Non è un'agricoltura giocattolo

 

Agricolturacivica significa solo orti, solo giardini? No, secondo me bisogna avere una visione più ambiziosa, l’agricoltura civica può anche recuperare grandi spazi agricoli. Può riguardare gli ambiti, i pori, della conurbazione milanese ma anche i deserti che vengono abbandonati. I deserti non sono solo quelli dell'Africa e dell'Asia ma anche, in piccolo, tutte quelle terre di montagna e di collina che non si possono meccanizzare, trasformare in un'agricoltura super meccanizzata, super competitiva, super specializzata e che quindi, secondo una linea di pensiero che – non casualmente – mette d'accordo multinazionali e verdi (che dalle fondazioni delle corporation sono finanziati), vanno abbandonati alla natura selvaggia. No. Tutti questi territori, che in un sistema governato dalle multinazionali diventano territorio 'di scarto', marginale, possono essere recuperati utilizzando l’agricoltura civica. Pensate a tutti i pascoli sulle Alpi, sugli Appennini, da millenni e di fatto sono una forma di agricoltura comunitaria civica. I primi statuti dei comuni, del XIII-XIX sec., si occupano moltissimo dell’uso dei pascoli, dei boschi, dell’uso del territorio come qualcosa da gestire saggiamente in comune per produrre cibo e altre utilità per la vita umana (ben consapevoli che la proprietà privata in questi ambiti non funziona).

Detto questo, l’agricoltura civica, è solo un’agricoltura no-profit, educativa come forse qualcuno potrebbe essere indotto a ritenere? No. Per gestire superfici che vanno al di là dell’orticello, del giardino, bisogna in qualche modo coinvolgere dei produttori agricoli (esperti e magari dotati di strumenti tecnici, ma sopratutto di competenze). Non certo, però, dei produttori agricoli che intendano imitare i metodi di coltivazione industriale dei grandi spazi, ma produttori agricoli che entrino in forme di cooperazione con il consumatore, con il cittadino, con gli agricoltori civici. L’aiuto di un produttore agricolo competente (non necessariamente un imprenditore agricolo professionale) può essere utile in alcune fasi di lavorazione del terreno, può essere utile per passare delle esperienze in scala ridotta a quella a tutto campo.

Non vediamo quindi l’agricoltura civica come un’agricoltura giocattolo. Può essere largamente basata sul volontariato e privilegiare le finalità sociali ed educative, ma in essa possono inserirsi anche i produttori che già operano sul territorio, possono inserirsi i consumatori, quelli già organizzati per l’acquisto solidale (Gas) in particolare. Non siamo all’anno zero. Ci sono una serie di aggregazioni in embrione in cui, ciascuno a modo suo, si pone il problema dell’uso del territorio del cibo, della convivialità (pensiamo a Slow Food ma anche ad altre esperienze locali).

Fondamentale deve rimanere l'obiettivo di mantenere un paesaggio di valore culturale e storico, la conservazione della biodiversità agricola. Su superfici piccole si possono coltivare contemporaneamente anche tante varietà, tante specie di vegetali. Molte più su pochi ettari condotti con forme di agricoltura civica che sulle decine di migliaia di ettari della squallida (non era così) Bassa Lombardia degradata a landa agroindustriale, con rari alberi, livellata al laser. Altra dimensione fondamentale è quella della fruizione pubblica. Ci tengo a ripetere che se facciamo qualcosa per piccoli gruppi, circoli, e non potenzialmente allargato ai cittadini, non possiamo parlare di agricoltura civica e rischiamo il fallimento perché ci circondiamo di invidia e diffidenza.

 

 

Ci sono esempi parziali anche a pochi km

 

Qualche esempio embrionale, anche se molto parziale, discutibile esiste. A Tradate il Comune ha promosso, con le ovvie polemiche tra maggioranza e opposizione, un vigneto civico e le scolaresche sono state coinvolte nella vendemmia: È una risposta parziale, però è già un primo passo.

I vigneti comunali fanno scuola, ce ne sono già diversi in Lombardia, nel vicino Canton Ticino, e anche in altre regioni italiane. Il vigneto, la vendemmia, la produzione del nuovo vino, è qualcosa che coinvolge in modo collettivo molto forte. Nella fascia a Nord di Milano i vigneti erano molto sviluppati, poi c’è stata la filossera che, nella seconda metà del XIX sec. ha fatto fuori la viticoltura della Brianza e dell’Alto Milanese.

 

 

A Mezzago in Brianza, c’è un’altra esperienza che risponde solo parzialmente a criteri di agricoltura civica ma molto interessante. Stava sparendo l’asparago rosa di Mezzago (in Italia ci sono solo due località che lo producono). Il Comune ha promosso (e finanziato) una cooperativa di volontari per il rilancio dell’asparago. Dopo si sono inseriti anche dei coltivatori privati, anche delle aziende professionali. Il Comune di Mezzago, attraverso questa iniziativa, ha frenato la cementificazione. Ma la Pedemontana (l’autostrada che dovrebbe attraversare la zona nord della Lombardia) ha trovato questo spazio verde e vuoto facile dove passare, dove erano necessari espropri e la virtuosità è stata punita. Mezzago, questo piccolo Comune, viene massacrato da questa autostrada che passerà in mezzo ad una delle aziende protagoniste del rilancio dell'asparago rosa. L' asparago tiene in vita la “Sagra dell’asparago” che rappresenta un momento fondamentale per l’associazionismo e per tutte le associazioni di volontariato di questo piccolo comune della Brianza che con la Sagra e l'asparago si autofinanziano sostenendo iniziative avanzate di servizio e assistenza sociale sostenute dalla comunità (e non dai bilanci e dagli apparati pubblici). Vengono anche attività, culturali. I nessi tra produzione agricola e produzione di comunità a Mezzago sono efficaci.

 

 

Qui vicino, a Nova Milanese c’è un progetto che sta decollando, conosco chi se ne occupa e che da anni si batte con grande entusiasmo. A Nova c’è una gran voglia di creare una filiera ripartendo da quei mais (varietà Marano) che erano coltivati prima degli ibridi 8delle multinazionali americane). Oggi si parla di OGM, ma prima dell’era degli OGM c’è stata l’era dei mais ibridi che hanno sostituito tutte le varietà, sicuramente meno produttive ma che davano un mais di qualità molto pregiata per fare polenta e per uso pasticceria. In Brianza oltre al Marano c'erano varietà ancora più 'arcaiche' di mais rostrato. Tutte ottime per la produzione di polenta anche se a Nova l'obiettivo è quello della creazione di una filiera di pan gialt che si è già candidato per la Deco. Queste iniziative non sono solo ideate per passare il tempo, per chi ha voglia di fare un po’ di attività all’aperto, di stare insieme e ricordare il ben tempo andato. Sono iniziative che hanno un senso sociale e anche politico (nel senso più puro del termine beninteso. Sempre in Brianza a Burago, ci sono le famiglie di un GAS (Gruppo di Acquisto Solidale) che partecipano al progetto “Spiga e madia”, sostenuto dal Parco della Molgora e dal Distretto di Economia Solidale. Di recente hanno realizzato una siepe a delimitare un campo di grano. Dove si coltiva il grano che viene utilizzato per produrre la farina che viene utilizzata per produrre il pane. La siepe rappresenta una barriera simbolica ma per cercare di fermare la TEM che deve asfaltare questo campo. In che senso l'agricoltura civica sia azione di resistenza politica mi pare che questi esempi lo chiariscano eloquentemente. Un'azione che non delega ad istituzioni sempre più sorde al bene comune, che non si isterilisce nella protesta fine a sé stessa ma che pratica collettivamente, concretamente un progetto alternativo.

 

 

Aldilà e oltre il biologico

 

Negliultimi anni si è parlato di agricoltura biologica, etica, responsabile, sostenibile, biocompatibile. Però molto spesso queste forme di agricolture 'alternative' sono state digerite dal sistema, e poi tradotte in campo giochi, in qualcosa per i balocchi (un po' come le 'fattorie didattiche' dove spesso è incoraggiata la finzione, la cartapesta che nasconde la realtà dell'agricoltura industriale.

Invece l’agricoltura civica, se viene praticata nel senso che abbiamo visto, aperta alla cittadinanza con l’obiettivo di salvaguardare il territorio, con forti obiettivi educativi per promuovere e salvaguardare la biodiversità, con l'obiettivo politico di evitare ulteriori aggressioni ed esproprio di territorio, diventa qualcosa che non è affatto un giochino, un dopolavoro, un vezzo.

A Castellazzo ci sono già valori agri culturali, qui non ci sono i campi enormi livellati col laser come da altre parti. Il contesto si adatta bene anche ad una coltivazione non specializzata. Siamo all’interno di un Parco, quindi almeno sulla carta, il Parco – ma qui occorre essere dubitativi - dovrebbe vedere con piacere delle attività agricole senza pesticidi, senza concimi chimici, con l’uso della trazione animale. Qui ci sono campi talmente piccoli che si può per diverse operazioni usare il cavallo in modo efficiente, per certi versi competitivo con i mezzi meccanici.

Il cavallo può essere mantenuto per far conoscere che per secoli, millenni, l'agricoltura si è basata sulla trazione animale. Ma al tempo il cavallo, come tutti gli elementi 'storici' che verranno utilizzati e non solo messi in mostra in questo museo vivente, non devono diventare un presepe ma essere funzionali e occasione di dimostrazione, sperimentazione, didattica.

Se c’è un cavallo deve lavorare in campagna, se c’è una capra deve fare latte (che poi deve trasformarsi in formaggio), se c'è la vigna ci può essere un torchio … e via di seguito. È quasi illimitata la una serie di attività che possono essere attivate (piante tintorie, piante tessili, piante medicinali). Ci sono (se recuperati) enormi spazi fisici disponibili nel Boro. Certo non si può e non si deve fare solo agricoltura. Non avrebbe senso. Però questo tipo di visione agricola è non solo compatibile con altre attività (educazione, turismo, socialità) ma sinergica. Turismo non deve significare trasformare tutto in un campo da golf, perché così non avremmo salvato niente, perché il campo da golf usa un sacco di pesticidi è anch'esso una forma di monocultura e si consumo di suolo. Anche il turismo può essere attratto da queste attività sociali ricreative, che possono essere anche “vendute” all’esterno. È chiaro che chi abita qui intorno a Castellazzo è il fruitore privilegiato, ma non è detto che con questi spazi, con queste risorse, si possa anche aprire queste attività ad un “utente” che viene da Milano, un 'turista' che può anche stabilire relazioni non occasionali e venire da cittadino di un territorio in cui la città si (ri)conosce – ribaltando la percezione affermatasi con l'espansione urbana – parte, alla pari, in uno scambio che rigetta le gerarchie urbane.

 

 

Sembra utopia, ma è concreta

 

Primadi chiudere vorrei ricordare che nel paesaggio nord-milanese un ruolo importante era rappresentato dai gelsi. Oggi non si allevano più i bachi da seta, però le foglie del gelso sono dell’ottimo foraggio anche per animali da latte (una specie di pascolo aereo, ma si possono anche portare le frasche in stalla ed essiccarle come foraggio per l'inverno). I moroni possono essere usati per preparare delle confetture. I vigneti del Nord Milano come già ricordato c’erano e possono essere ripiantati, fatti rivivere. Poi nella storia dell’agricoltura di questo territorio si sono usate tante piante coltivate, lino, miglio, segale... Piccoli campi di queste coltivazioni assumono una funzione dimostrativa, consentono alla gente di vedere come si producono questi raccolti, di manipolare il prodotto (oggi esistono mulinetti elettrici casalinghi per la molitura dei cereali e se si recuperano i forni del Borgo si può... chiudere la filiera). L’importante è che, per quanto piccole siano queste produzioni, esse si trasformino in cibo che viene mangiato qui, che ci sia anche un mulino antico ma ancora in funzione che utilizzi questi cereali (in Brianza ve ne sono) e i fornai che utilizzino la farina. E veramente in conclusione vorrei mostrare l'immagine di un comune in Germania che ha deciso di mettere a coltura un terreno abbandonato; gli abitanti, tutti insieme, si sono attrezzati con le zappe e si sono dati da fare. Non sono cose impossibili da realizzare.

 

 

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