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Alpeggi - Formaggi

Alpe Basso: alla scoperta di una grande tradizione di formaggi misti (caprini e vaccini)

testo e foto di Michele Corti


(24.09.10) Negli alpeggi si trovano tesori caseari ancora non conosciuti, e tanto meno, valorizzati. Un esempio dall'Alpe Basso nella Val Vigezzo (VB). Qui negli alpeggi sono custodi di pregevoli architetture 'spontanee', ma anche di una radicata tradizione di utilizzo del latte delle capre insieme a quello vaccino. Siamo andati a trovare un alpeggiatore/casaro che la interpreta in modo particolarmente interessante

Un settembre sin troppo mite; ideale per restare in alpeggio sino ad ottobre, come tradizione degli alpeggi bassi (detti anche 'mezzi alpeggi') dell'Ossola. Peccato che le bizze climatiche di questa stagione, con anticipi di caldo a maggio, poi freddo, poi ancora siccità e temperature record a luglio abbiano compromesso la condizione vegetativa dei pascoli e costretto a scarichi anticipati degli alpeggi. Qui come altrove.
Settimana scorsa, quando mi sono recato all'Alpe Basso, in comune di S.Maria Maggiore, il clima era ideale per la passeggiata a piedi sino all'alpe. Per un po' mi sono abbandonato alla piacevolezza dei luoghi, alla bellezza dei colori, dell'aria settembrina. Ho assunto, per il breve spazio di meno di un'ora, il punto di vista dell'escursionista. Dimenticando quello 'professionale', che le giornate insolitamente tiepide (e persistenti) sono probabilmente il riflesso di cambiamenti climatici poco favorevoli per l'alpicoltura. Comunque era parecchio che non mi capitava di godermi la montagna così.
All''Alpe Basso ero diretto insieme a Marco Imperiali. Marco è un tecnologo caseario, esperto di formaggi di capra e maestro assaggiatore ONAF; collabora con me al progetto di miglioramento della qualità e valorizzazione dei formaggi caprini promosso dalla CCIAA di Verbania.
Lo scopo era visitare il sig. Bruno Zani che produce un interessante formaggio misto, un formaggio che ho avuto modo di conoscere sin dall'autunno scorso. Il suo alpe si trova in territorio di S. Maria Maggiore, la 'capitale, vigezzina, ma è molto prossimo al confine con quello di Malseco e, per raggiungerlo bisogna recarsi in quest'ultima località, imboccare la strada della Val Loana e risalirla sino a oltre 1.100 m. Arrivati ad un piccolo parcheggio (con una tabella con la cartografia dei sentieri collocata dal Parco della Val Grande) si scende verso il fiume Loana dove riceve la confluenza del Rio Basso. Prima dell'attraversamento si transita per l'Alpe Crotti. Si tratta di una piccolo alpetto privato come tanti della zona. La grande stalla della foto (sotto) testimonia che in questi 'alpetti', dotati di fabbricati solidi e spaziosi (capiremo poi il perché) era caricato parecchio bestiame.

Dal bel ponte pedonale in legno si ammirano le rapide del torrente e le piscine naturali che forma tra le rocce.

Il colore dell'acqua di queste piscine è decisamente smeraldino e la foto lo rende fedelmente (sotto). Si attraversano uno dopo l'altro il Loana e il Rio Basso. Siamo a quota 990 m.

Il sentiero entra nella Valle Basso rimanendo abbastanza sopraelevato rispetto al rio. Dopo pochi minuti si attraversa un altro nucleo abbandonato. In tutta l'Ossola la tecnica di realizzazione delle coperture con lastre di pietra scistosa è molto raffinata ed è applicata anche ai fabbricati tradizionali d'alpeggio. Sotto un particolare caratteristico: un'entrata che immette direttamente al livello superiore del fabbricato (sottotetto). La montagna, la pendenza non è sempre uno svantaggio; a volte fa risparmiare (in questo caso le scale).

Purtroppo molti di questi fabbricati sono da tempo in stato di abbandono. Da lontano si stagliano le loro sagome eleganti ma, avvicinandosi, ci si accorge dei crolli determinati dal cedimento delle travi incaricate di reggere il notevole peso di queste coperture litiche.

Mi ha incuriosito il piccolo fabricato ritratto nella foto sotto. Dalle dimensioni doveva trattarsi di un ricovero per bestiame 'minuto'... o era invece un locale per la sosta del latte? E a che cosa serviva l'apertura di carico sotto la colma del tetto (a sinistra?).

Nell'abbandono dei fabbricati (nella foto sotto un'altra bella costruzione con la copertura crollata) i prati sono ancora 'mangiati'. Merito dei pochi che ancora caricano gli alpeggi.

Siamo arrivati al limite dell'alpeggio. Una barriera molto bella, con un sistema di pertiche scorrevoli, delimita l'ambito pascolato dal bestiame dell'Alpe Basso. Civiltà del legno.

Prima di arrivare all'alpe, però, rimane da attraversare ancora un po' di bosco. Il betulleto della foto sotto indica chiaramente che qui il bosco è di neoformazione e che solo di recente ha potuto 'riconquistare' il pascolo.

Finalmente il bosco si dirada e si apre alla vista la Valle del Basso mentre appaiono anche le baite. In prossimità dell'alpe il Parco della Val Grande ha collocato un tavolo da pic-nic e una tabella didattica.

"I segni dell'alpe che vive" è il 'tema' dellla tabella. Nel testo si fa riferimento alle capre e  all' "ottimo formaggio misto prodotto anche grazie a loro".

Un giusto riconoscimento. Però suona un po' strano per un Parco  che si promoziona come "la più grande area wilderness - ovvero selvaggia - d'Europa" (vedi la foto sotto scattata al parcheggio dove parte l'itinerario). Come ci dirà poi Bruno (l'alpeggiatore) in sede di definizione dei confini del Parco, facendo forza sul fatto che l'alpe è proprietà privata, i 'consorti' si sono ben guardati dall'accettare di farla rientrare nell'area protetta.

L'Alpe Basso, come la gran parte degli alpeggi vigezzini e delle vallate ossolane (tranne l'alta Formazza), sono alpeggi-nucleo, costituiti da diverse baite appartenenti a numerose famiglie. Per via dell'effetto perverso delle successioni ereditarie i proprietari dellAlpe Basso sono oggi un centinaio. Una situazione che non facilita il recupero e la rifunzionalizzazione del patrimonio. Tra le varie costruzioni una spicca tra le altre per i segni evidenti di una recente ristrutturazione. Il fascino delle lastre di pietra naturale sovrapposte le une alle altre è sostituito dalle regolarità delle linee della copertura convenzionale. Le pesanti lastre irregolari sono sostituite da leggere tegoline spaccate a macchina in modo regolare in cava. Nelle foto che seguono si nota l'effetto stridente del confronto tra nuovo e vecchio.

Superata la 'coppia dicotomica' dei due fabbricati, un tempo identici, di cui sopra ci avviciniamo al nucleo centrale dell'alpe. Il fumo azzurrognolo che esce dal camino (che si poteva scorgere anche in lontananza) (foto sotto a destra) ha un che di confortante e rassicurante. C'è ancora vita ... a dispetto della wilderness! Ad accoglierci una piccola vedetta vigezzina: una vispa capretta che, per non smentire la predilezione della specie per tutto quello che sa di roccia e di 'cima', è lì a scrutare dalla sommità di uno scuro masso tondeggiante.

Il fumo proviene da questa splendida costruzione in cui si riprende anche la tipologia della copertura a 'padiglione interrotto'. Immaginiamolo con la copertura di paglia di segale (utilizzata in passato). Questo 'cottage' non rimanda a paesaggi nordici? Bella anche la steccionata, rappresentazione di una montagna ordinata bella nella semplicità dell'uso sapiente dei materiali (legno e pietra) che mette a disposizione dell'uomo (anche senza stuprarla con mezzi industriali).

Il fatto è che, a parte i paesaggi da europa celtica, questo 'quadretto' mi sembra famigliare. Tornato poi a casa, nel disordinato archivio fotografico personale (messo insieme in non pochi anni di frequentazione e di studio delle montagne) pesco la foto riportata sotto. E' stata scattata nel settembre 2003 da una mia laureanda (Teresa Clericò, di Domo) nell'ambito di una tesi sulla 'qualità visuale delle componenti del paesaggio dell'alpeggio' (il numerino indica che fa parte di una serie di fotocolor sui quali i turisti erano richiesti di esprimere un apprezzamento attraverso un punteggio). Questa foto era tra le più 'gettonate'. Notiamo dal colore chiaro della pietra che il fabbricato al centro è stato ristrutturato 'a regola d'arte' utilizzando le tecniche tradizionali. Intervento costoso, ma non impossibile. Questo fabbricato è il caseificio 'autorizzato ASL' che vedremo nelle foto successive. Sì un bel contrasto. Ma è anche la dimostrazioe che si può 'adeguare' senza massacrare la storia, l'dentità  dei luogi (e l'estetica). Almeno all'esterno.

 

La moglie di Bruno, intanto, ci dice che il marito è ancora su alla stalla (distante poco più che un centinaio di metri) dove c'è anche la cantina del formaggio. La temperatura è ancora abbastanza elevata e gli animali (capre e asini) se ne stanno a riposare all'ombra. la mancanza di strada impone di usare ancora l'asino per i piccoli trasporti da qui alla strada (per il carico di formaggi si usa l'eliservizio).

Non posso fare a meno di notare anche l'eleganza della barriera 'anti-capre' che impedisce loro di esercitare il loro sporti preferito (l'arrampicata sui tetti); uno sport che si traduce in inevitabili spostamenti delle lastre di pietra che non sono fissate ma restano al loro posto in forza del loro peso e della sovrapposizione delle une alle altre. Altrove ho visto brutte barriere proteggi-tetto in filo spinato. E' piacevole essere in un posto vero e bello come questo e mi ritengo un privilegiato.

Per gli appassionati delle razze autoctone sarà un po' una delusione vedere che in un contesto così 'pittoresco' le capre autoctone (le forti Alpine comuni di ceppo Vigezzino) sono state rimpiazzate dalle globalizzate Camosciate e Saanen (peraltro incrociate tra loro come indica inequivocabilmente la tonalità rosea del mantello di alcuni soggetti). Il fatto è che qui, a detta di Bruno, la CAEV (artrite encefalite caprina, retrovirus della famiglia dell'agente della 'vacca pazza') picchiava duro e, grazie ad un programma sostenuto dalla CCIAA di Verbania, si è proceduto a un 'risanamento'.

Peccato per le solide e generose capre vigezzine ritratte nel bel volume: La capra campa (FALCINI L, FERRARI E., 2000. La capra campa. A cura della Comunità Montana Valle Vigezzo, stampa Tipografia Saccardo Carlo e Figli snc, Ornavasso (Vb), pp. 95.) In ogni caso Bruno è sin troppo soddisfatto della produzione di latte dlele sue 80 capre. "Queste faccio fatica ad asciugarle". Nonostante siano capre 'gentili' quest'estate hanno avuto modo di mettere in evidenza la loro capacità di trovare comunque la 'pastura'. Le vacche (in alpe sono caricate anche 20 mucche Brune) hanno avuto bisogno di fieno e mangime di soccorso per rimediare ai danni della siccità sulla 'pastura', le capre no (trovano sempre qualcosa da mangiare da qualche parte). E hanno continuato a fornire buon latte.

Nella cantina sono allineate le forme prodotte qui all'Alpe Basso. Quelle prodotte sull'alpeggio alto (di proprietà comunale a 1.800 m) sono già state trasportate a casa, a Buttogno (una frazione di S. Maria Maggiore). Sono belle forme, regolari, con la crosta pulita, del peso di una quindicina di kg.


Per i piccoli trasporti dalla stalla alla sottostante casera (e abitazione) Bruno usa la tradizionale cáula, attrezzo tipico dell'area lombarda e di alcune zone della svizzera (foto sopra). E' il tradizionale telaio di legno che serve anche al trasporto delle grosse forme di formaggio (vedi pubblicità televisive dell'Emmenthaler).

E' ormai mezzogiorno e ci chiediamo a che punto sia la lavorazione del latte. Seguiamo Bruno che rientra nel caseificio dove ha lasciato il latte a cagliare. Il pregevole fabbricato tradizionale all'interno presenta tutto un altro aspetto. Entriamo in un corridoio dove si affacciano una serie di porte (frutto di quegli 'adeguamenti igienici-sanitari' che, interpretati a volte in modo un po' rigido, si traducono in una suddivisione 'spinta' degli spazi in sgabuzzini a volte di dubbia utilità e praticità pomposamente e burocraticamente  definiti: locale filtro, locale sosta, locale vendita, servizio igienico, spogliatoio). La 'sala latte' per fortuna risulta ancora spaziosa. Troneggia un lavello in acciaio inox  di sufficiente profondità e altezza.

La coagulazione (un'ora abbondante a 35°C) è insolitamente lunga (come un po' tutto i procedimento). Dopo questa prima visita al caseificio siamo invitati a trasferirci nella cucina di casa dove ci viene offerto pane, formaggio, mortadella (non la 'Bologna' ma quella di fegato che in Lombardia e nel Piemonte nord-orientale è la 'mortadella' tout court). Ovviamente anche due bicchieri di vino.

 Al contrario del caseificio la cucina dove si preparano i pasti ha un aspetto del tutto tradizionale. Non manca la pentola sul fuoco (da qui proveniva il fumo azzurrognolo che scorgevo in lontananza).

La proverbiale curiosità delle capre si manifesta nelle sbirciatine di una capretta bianca che incolla in naso alla finestrina (una 'colega faceva lo stesso all'altra). Saranno incuriosite dalla presenza di estranei che fanno merenda o è un vezzo abituale?

Torniamo in caseificio. In tempo per assistere alle fasi salienti della lavorazione. Bruno usa la lira in modo molto preciso, graduale e delicato. La cagliata ben rassodata viene tagliata in modo molto regolare (come dimostrano le foto sotto).

Dopo la rottura la cagliata si presenta ridotta a minuscoli grani (molto più piccoli del famoso 'chicco di riso'), molto asciutti ed adesivi. Come ogni buon artigiano del latte Bruno si affida allo 'sguardo della mano', alla sensibilità tattile per capire quando è arrivato il momento di sospendere l'operazione. I granuli anche se la mano viene rovesciata rimangono saldamente adesi.

Il lento procedimento si avvia verso la conclusione. La caldaia torna sul fuoco: una cottura a bassa temperatura (42°C) ma molto prolungata. Cotto a bassa temperatura, ma a lungo, il formaggio assume caratteristiche intermedie tra semicotti e cotti. Una delle tante peculiarità di questo formaggio che 'fonde' culture casearie diverse. Avendo lavorato a lungo sugli alpeggi della limitrofa Svizzera Bruno ha assorbito molti aspetti dello stile caseario 'svizzero'.  Una delle caratteristiche 'svizzere' è la pezzatura (formaggi così grandi non sono comuni da queste parti; anche lo stesso Bettelmatt, re dei formaggi ossolani, è di soli 4-5 kg).

Ma oltre alla dimensione di 'svizzero' questo formaggio ha anche i buchi, non cosi grossi e regolari come l'Emmenthaler ma... pur sempre di tutto rispetto. Nulla a che vedere però con le forme 'a pallone', la pasta 'spugnosa'  e tutti i  difetti (muffe, spaccature, sfogliature) legati al permanere di residui di siero negli 'occhi'  (con tutto quello che comporta in termini di alterazioni microbiologiche).

Nonostante l'elevata percentuale di latte di capra (privo di pigmenti gialli), nonostante anche l'integrazione con alimenti 'secchi' dell'alimentazione delle bovine, il formaggio dell'Alpe Basso presenta un colore giallo pronunciato, che basta di per sé a denunciare la sua provenienza 'sotto il cielo'.

Sempre con grande lentezza e cura si procede all'estrazione della cagliata. La massa è costituita, come abbiamo visto, da particelle molto adesive e viene raccolta con le mani nel cestello di plastica (forma più piccola) o nella 'regolamentare' fascera. Mi ha colpito il tempo apparentemente interminabile con il quale Bruno resta con le mani e gli avambracci a mollo nel siero ormai acido. Apparentemente immobile (se osservato al di sopra della superficie del siero), ma con le mani in movimento sul fondo della caldaia.

Sono ormai passate le due del pomeriggio. Anche per una lavorazione che si esegue una sola volta al giorno un bel record. La 'colpa' è delle capre che in quest'ultimo scorcio di estate se la prendono comoda. Di giorno fanno le pigre. Alla sera partono tardi per il pascolo e altrettanto tardi tornano alla mattina. D'altronde Bruno ha da mungere e governare  le mucche e non può permettersi di andare in giro a cercarle. Deve adattarsi al loro ritmo. Sono animali generosi e lui, meglio di tanti altri, lo sa bene e si guarda dal maledire le 'pelandrone' ( come accade invece a certi caprai).

Merita una notazione anche un altra particolarità del formaggio: il latte della sera non viene tutto parzialmente scremato: metà è conservato intero, metà è leggermente scremato. Alla mattina la metà di latte intero della sera, la meta parzielmente scremata e il latte intero appena munto vengono mescolati tra loro.  Alla fine questo formaggio è un quasi-grasso!

Nonostante l'andamento negativo della stagione (che ha comportato l'impiego dell'elicottero per portar su fieno e mangime) Bruno non si lamenta più di tanto. Sbotta, però, quando riferisce che "Hanno fatto una riunione: l'ASL, il Parco, il comune, la forestale, non vogliono che l'anno prossimo vada su più all'Alpe del comune, là dove l'erba  è migliore, a parte quest'anno, che è stato un disastro". Chiediamo il perché. "Per la solita storia degli adeguamenti, delle mattonelle; ci sarebebro spazi più ampi di qua, ma al comune non interessa". Prendo atto dello sfogo di Bruno ripromettendomi di approfondire la vicenda. Perché chiudere un alpeggio comunale in una posizione strategica rispetto agli itinerari escursionistici del Parco? E' così che si mantiene la montagna viva?

"L'anno prossimo sarò costretto a restare qui a basso. Per fortuna che a casa stiamo costruendo  la stalla nuova e che abbiamo anche il progetto per il caseificio autorizzato" (vi è anche il figlio Fabrizio che ora lavora a part-time nell'azienda). Bene, ma speriamo che questo non significhi abbandonare o ridimensionare l'alpeggio.

Può apparire strano che un'azienda abbia un caseificio autorizzato in alpeggio e non a 'casa' ma bisogna pensare che, ancora oggi, nell'Ossola tra alpeggio e 'mezzo alpeggio' non poche aziende trascorrono più di metà dell'anno in montagna. Un tempo questi alpeggi 'bassi' erano abitati tutto l'anno. Ce lo racconta Bruno "La gente stava qui tutto l'anno sino agli anni '60". Era una vita polarizzata sulla montagna non sul fondovalle. Ci si può chiedere, però, come passassero l'inverno quando l'inverno era lungo, nevoso. Il pane? Il companatico? Le "vitamine"?

La risposta la troviamo negli spaccati di vita ruralpina usciti dalla penna di uno scrittore locale: Benito Mazzi. Una lettura che consiglio no solo perché piacevole ma anche ricca di spunti interessanti sulla vita ruralpina tradizionale (B. Mazzi, 2001, Quando abbaiava la volpe. Un secolo di vita alpina nel racconto dei protagonisti , Interlinea, Novara, p. 187).

“Al Croso il sole andava via a ottobre e tornava a febbraio […] la mattina regolavamo [lombardismo per "governare", "accudire"]  le bestie nelle stalle, sette o otto vacche, una quarantina di capre, maiali [..] D’inverno gelava tutto, dalla polenta al caffè. Quando s’ammazzava una bestia, per conservare la carne la bagnavamo con un secchio d’acqua e l’appendevamo. Si manteneva tutto l’inverno meglio che in un freezer. Certi anni trascorrevamo tre, quattro mesi prima di rivedere una persona […] Solitamente si mangiava polenta. La sera, minestra nera: un pugno di riso con patate e un cucchiaio di sugna. Oppure tartiful e càura, patate e carne di capra. Niente pane. Tutto l’inverno era così”. «D’inverno gelava anche la polenta». Testimonianza di Caterina Barbieri, Craveggia, in: B. MAZZI, op. cit., p. 82-83.

La capre rappresentravano una 'scorta viva' che, all'occorrenza si convertiva in cibo. La sorte della macellazione era ovviamente riservata alle capre più vecchie che rivelavano di non essere gravide o manifestavano altri problemi. Poi qualcuno si chiede perché i montanari erano così legati alle capre!

Siamo intanto giunti alle battute finali della lavorazione. Ecco la messa in forma (foto sopra). La cagliata è sistemata nella fascera senza esercitare alcuna pressione (non è necessario e sarebbe un errore perché i grani finissimi e adesivi sono già 'compattati' osserva Marco).

Quando chiediamo di acquistare il formaggio Bruno ci dice di andare a casa dove c'è quello più stagionato. Durante la piacevole passeggiata di ritorno verso la macchina ci confermiamo l'un l'altro (io e Marco) che il tempo speso all'Alpe Basso è stato speso bene. Abbiamo visto come nasce uno dei tanti tesori caseari ancora sconosciuti degli alpeggi. E' anche una bella soddisfazione farlo conoscerlo e operare per la sua valorizzazione.

E così, prima di prendere la strada della Val Canobbina, ci dirigiamo a Buttogno. L'anziana madre mi avvista quando sono nella piazzetta e mi fa strada verso la cantina. Ero venuto a luglio a comprare il formaggio e mi riconosce. La signora è molto anziana e Marco, esperto tranciatore professionale, si offre di aiutarla nel tagliare la forma. Il prezzo è di soli 10 € al kg e, considerata la professionalità di Bruno, la lavorazione interminabile e accurata, la percentuale inusualmente alta (per un 'misto'), di latte caprino sarete d'accordo con me che il lavoro di valorizzazione di questo formaggio è opera meritoria (voi non l'avete assaggiato ma io e Marco vi assicuriamo che è da mettere sul piano di Bitti e Bagossi) . 


 

 

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