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COMUNICATO. RIPARTE LA CAMPAGNA DI AZIONARIATO POPOLARE A SOSTEGNO ALLO STORICO RIBELLE (EX-BITTO STORICO)

Dopo il cambio di statuto per divenire Società Benefit, secondo la nuova legge in vigore dal 1 gennaio 2016, la Società Valli del Bitto riapre la campagna di azionariato popolare. Società benefit è quella che non mira solo al proprio utile ma a vantaggi per la società, il territorio, l'ambiente.La Società Valli del Bitto punta solo alla sostenibilità economica e non al lucro. Senza di essa non potrebbe conseguire i propri scopi che sono in primo luogo garantire - attraverso la valorizzazione economica - la sopravvivenza del formaggio "storico ribelle" (ex-bitto storico) con tutto il suo sistema di produzione in alpeggio che rappresenta un monumento di cultura e di biodiversità. Lo "storico ribelle" è Presidio Slow Food, il presidio che - a detta di Slow Food - incarna forse al meglio il principi del cibo "buono - pulito - giusto". Tutti possono partecipare a questa Società che incarna l'ideale dell'agricoltura etica sostenuta dalla comunità che, a sua volta, sostiene il territorio. Sottoscrizione minima 150€ ( massimA 20 mila €). Ai soci viene riconosciuto un "dividendo etico" in natura pari al 2% del capitale sottoscritto. Per sapere come associarsi:

TEL. 334 332 53 66

info@formaggiobitto.com

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Articoli per argomenti 

ex-bitto storico

Il Dizionario del bitto ribelle (II)

di Michele Corti




Parte II (D-L)

D. Dediche, Difetti Dinastie, Disciplinare, Disertori, Dop

E. Expo, Esproprio


F. Funzionarie/dirigenti, Fermenti

G. Garòtt, Gerola, Gràss, Gendarmi, Giusti, Gonfiore, Grana, Grasso, Guerra, Guerriero

H. Homo selvadego

I. Inizio, Integralisti, Invecchiamento

L.  Latteria, Lavorazione, Lecco, Legno, Lesina, Livrio


VAI ALLA  PARTE I (A-C); PARTE III (M-Q) PARTE IV (R-Z)

Dediche = Le Forme migliori selezionate dalla Società Valli del bitto  possono essere acquistate e personalizzate e vengono affinate nella casèra di Gerola Alta che negli anni è diventando un vero e proprio museo o santuario (dove le dediche ricordano gli ex voto). La forme in dedica sono acquistate da privati, ristoratori, associazioni. Raggiunta la stagionatura desiderata, o in occasione di una ricorrenza importante, si ritira la propria forma in dedica. La forma viene pagata anticipatamente e ogni anno si paga un contributo per la conservazione. Tutte le forme sono 'consultabili' sul sito http://www.formaggiobitto.com/it/la-casera/forme-in-dedica

Difetti = I difetti del formaggio in molti casi sono relativi, vanno valutati in relazione al tipo di formaggio. Così è molto diverso valutare un formaggio industriale da latte pastorizzato e uno artigianale prodotto a latte crudo e senza fermenti, Ciò non significa che si deve essere 'tolleranti' nel caso dei formaggi artigianali. Anzi, nel caso dell' 'storico ribelle', destinato alla lunga stagionatura, i difetti vanno valutati con severità. Essi sono legati in larga misura al fatto che il formaggio nel primo periodo di maturazione (1-2 mesi) è conservato nelle casere d'alpeggio prima di essere avviato al Centro del Bitto in agosto, verso la fine della stagione. Non sempre queste casere, specie dopo gli interventi di ristrutturazioni eseguiti in tempi recenti sono 'macchine da stagionatura' perfette come un tempo. L'uso di nuovi materiali e l'applicazione di regole 'igienistiche' improntato ad una conformità più formale che sostanziale ai principi igienici, a volte entra in contraddizione con le esigenze di qualità del formaggio. Si aggiunga che la disponibilità di manodopera è oggi inferiore al passato (salatura, rivoltamento delle forme, pulizia e raschiamento delle stesse sono operazioni manuali che richiedono molto tempo) e l'effetto dei cambiamenti climatici. Vi sono poi circostanze imponderabili quali bruschi cambiamenti metereologici, contrattempi che possono interferire nella normale routine e incidere negativamente sulla qualità del latte o sulla lavorazione e la prima fase di spurgo del siero e maturazione. Dal momento che i difetti sono ineliminabili (e che lo 'storico ribelle' resta fedele all'assoluta naturalità delle produzione) la qualità di garantisce selezionando le forme che presentano difetti o segni di possibile manifestazione degli stessi, vendendo il formaggio con difetto fresco in alpeggio come 'grasso d'alpe' e non avviando al Centro del Bitto partite che potrebbero presentare significativa incidenza di difetti (che comportano anche un grande lavoro e forti perdite economiche per scarti).  I difetti si possono dividere in tre tipi: 1) difetti di crosta o di superficie rilevabili all'esame visivo e senza tagliare la forma; 2) difetti di struttura (o pasta) rilevabili, all'esame visivo e tattile, tagliando o tassellando la forma o - in alcuni casi, attraverso un esame del suono prodotto battendo la forma con apposito martelletto; 3) difetti  di aroma e sapore  rilevabili solo con l'esame gustativo.  In alcuni casi, però il difetto si manifesta sia sotto il profilo dell'aroma e del sapore che della pasta. Tra i difetti che possono essere riscontrati in formaggi semiduri e a crosta pulita come lo 'storico ribelle' si devono considerare: danni da acari (vedi 'acari'), spaccature e fessurazioni della crosta (vedi 'spaccature), colori anomali della pasta (vedi 'colore'), gusto amaro (vedi 'amaro'), gonfiore tardivo (vedi 'gonfiore'), sfogliatura (vedi 'sfoglia').

Dinastie = Sono quelle dei casari del bitto: orginarie della Valgerola (alcune, in origine, valsassinesi) si sono poi stabilite in gran parte nel fondovalle tra Piantedo e Talamona. Tra quelle che hanno proseguito sino in tempi recenti i Curtoni, i Fallati, i Maxenti, gli Acquistapace, gli Spandrio, i Manni, i Ruffoni, i Colli, originari di Gerola, i Mazzoni di Albaredo, i Piganzoli di Rasura e altri ai quali si devono aggiungere le dinastie della val Tartano e della val Brembana.

Disciplinare = "Galeotto fu il disciplinare". Nei disciplinari del bitto dop, quello legale, quello tutelato dalla UE, vi è l'origine della 'guerra del bitto', del conflitto in atto dal 1994. Il primo disciplinare sanciva con un falso storico clamoroso che il bitto si produceva tradizionalmente (quindi, ai sensi della legislazione comunitaria sulle denominazioni di origine, da almeno venticinque anni) in tutta la provincia di Sondrio. Pubblicazioni ufficiali di Regione Lombardia, Ersal (attuale Ersaf), Ministero dell'agricoltura, marchi come quello 'Valtellina' della Camera di commercio di Sondrio, (l'ente che in prima persona promuoveva la dop) attestavano che non era vero. Il marchio 'Valtellina' sino al 1993 attestava che "il bitto è prodotto esclusivamente nella Valtellina di Morbegno, nel resto della provincia si utilizza la denominazione 'formaggio grasso d'alpe'". Il censimento degli alpeggi della Regione Lombardia che verificò, alpe per alpe, cosa si producesse rappresenta un ulteriore documento che inchioda le istituzioni che promossero e approvarono la dop 'bitto'. Una bugia non diventa verità perché i bugiardi si mettono d'accordo tra loro. Così con un tratto di penna si decretò che il bitto, da allora in poi, si sarebbe prodotto in tutta la provincia di Sondrio. A testimonianza del 'rigore storico' si dimenticarono di inserire gli alpeggi in provincia di Lecco dove il bitto si produceva da secoli. Vennero 'recuperati' successivamente. Non solo si barava sull'area di produzione ma, con la fondazione del bitto dop, si violava l'identità storica del formaggio bitto sotto un altro riguardo: si 'tollera' nella misura massima del 10% il latte di capra che i casari storici consideravano fondamentale per conferire al bitto le caratteristiche che lo distinguono. L'esame della presenza storica delle capre sugli alpeggi indica che la percentuale di latte di capra arrivava al 20-25%. Nel 2005 il disciplinare venne modificato ( "per tener conto dell’evoluzione delle conoscenze scientifiche e tecniche”, più prosaicamente per legalizzare i mangimi (fino a 3 kg di sostanza secca al giorno per bovina) e i fermenti selezionati. Quelli che erano i 'dissidenti' che dal 1994 reclamavano una distinzione del bitto dell'area storica da quello prodotto in tutta la provincia divennero da allora i ribelli. Non accettavano che il loro formaggio, prodotto con le regole di secoli, venisse messo sullo stesso piano del 'nuovo bitto'. Di conseguenza i ribelli fissarono con rigore le loro regole nel loro disciplinare che divenne quello del Presidio Slow Food a partire dal 2003 e che non è cambiato: minimo 10% di latte di capra orobica, lavorazione entro mezz'ora dalla fine della mungitura, niente mangimi.

Disertori = vedi Traditori

Dop = La vicenda del bitto è figlia della dop (la normativa europea sulla tutela delle produzioni a denominazione di origine). La dop doveva 'salvare' il bitto da una triste sorte di imitazione. Sembrava che senza la dop in tutta Italia vi fossero caseifici pronti a produrre bitto. Probabilmente il retropensiero dei 'padri della dop' correva già a un bitto prodotto tutto l'anno (la sorte occorsa a tutti gli altri formaggi d'alpe compreso il Formai de mut dell'alta Valbrembana, fratello minore del bitto stesso). Certo sarebbe stato più facile imitare un bitto invernale anche se l'esempio della Fontina ci racconta dell'altro: che, nonostante il crollo della qualità del formaggio valdostano (prodotto tutto l'anno in quantità  crescenti che hanno raggiunto le 400 mila forme) non è solo il nome a differenziarla dal Fontal (quasi sempre distinguibile anche da un consumatore non particolarmente esperto). In ogni caso la vicenda del bitto non rappresenta un caso isolato: è solo quello che ha innescato una conflittualità più forte e che è rimasto aperto per oltre vent'anni contribuendo a mettere in evidenza le gravi contraddizioni del sistema delle Dop caratterizzato dall'ambigua convivenza di un obiettivo puramente economico e da quello di tutela dei valori rappresentati dalla qualità e dalla tradizione produttiva. Le Denominazioni di origine nascono in realtà molto prima della formazione della Comunità europea. Subito dopo la fine della seconda guerra mondiale, con la ripresa del commercio diversi paesi si avvertì l’esigenza di tutelare quelle produzioni casearie che in forza di un reputazione internazionale erano oggetto di imitazione in altri paesi. Evidente quindi che le DO nascono in un contesto di commercio internazionale e riguardano prodotti di ampia produzione, prodotti che, per fare fronte all'esigenza di rifornire ampi mercati si sono gradualmente allontanati dalle tecniche artigianali originali (quelle si legate au preciso contesto) dipendendo sempre meno da  fattori 'unici' legati ad un territorio ben definito e a quelle procedure produttive 'locali, leali, costanti' che dalle origini delle DO ad oggi, rappresentano la giustificazione 'ideologica' di un sistema di protezione che, in realtà, è diventato spesso solo una forma di differenziazione del mercato, una barriera artificiale alla concorrenza.  Tutto risale alla conferenza di Stresa del 30, 31 Maggio e 1 Giugno 1951 cui aderirono Italia, Francia, Belgio, Svizzera, Austria, Danimarca, Svezia, Olanda e Norvegia. Nella conferenza fu adottata una classificazione dei formaggi che prevedeva due categorie: nella categoria A i formaggi a Denominazione d’Origine, cioè “quelli prodotti tradizionalmente, osservando usi locali, leali, e costanti, in zone di produzione geograficamente delimitate, dalle quali traevano le loro caratteristiche”; nella categoria B i formaggi a Denominazione Tipica, ovvero “prodotti osservando usi tradizionali, leali e costanti, che traevano la loro caratteristica dal metodo di produzione”. Va notato che inizialmente, in forza dell'applicazione di un principio meno 'rilassato', un prodotto come il Taleggio nel 1955 era stato classificato come Tipico accedendo alla Denominzione di origine solo nel 1988. Il Regolamento vigente ( CE 510/2006 ) definisce così la Denominazione di origine protetta: " il nome di una regione, di un luogo determinato o, in casi eccezionali, di un paese che serve a designare un prodotto agricolo o alimentare originario di tale regione, di tale luogo determinato o di tale paese e la cui qualità o le cui caratteristiche siano dovute essenzialmente o esclusivamente al particolare ambiente geografico comprensivo dei fattori naturali ed umani e la cui produzione, trasformazione ed elaborazione avvengano nell’area geografica delimitata". Le Dop in termini di spinta alla standardizzazione e alla industrializzazione delle produzioni  hanno comportato un drastico allontanamento dei prodotti 'tutelati' dagli 'usi costanti' non solo in termini di tecniche di produzione ma anche delle stesse caratteristiche. Basti pensare alla scomparsa del Granone lodigiano ma anche del Reggiano, formaggi molto diversi (per forma, trattamento della superficie, caratteristiche organolettiche) dagli attuali Grana padano e Parmigiano Reggiano. Ciò che  spesso comportato non solo un 'esproprio patrimoniale' ai danni di piccoli produttori e delle aree di montagna. Le comunità (di produttori ma anche territoriali) che avevano costruito una strategia di tipicità in termini di immagine, di saperi, di tecniche, di modalità di commercializzazione, nel corso di lunghi e faticosi processi, si sono viste, quasi all'improvviso, la propria produzione annegata e confusa con un prodotto banalizzato ottenibile a costi meno elevati. Spesso è anche venuto meno l'appeal di destinazioni turistiche per le quali il prodotto 'raro',  rappresentava l'unico o principale attrattore. Consapevoli di ciò che comporta il riconoscimento della Dop parecchie produzioni evitano oggi di rincorrerlo (e c'è persino chi pensa a come 'recedere' dala Dop).  Per non cadere in una condizione in cui il 'pallino' finisca per sfuggire di mano agli attori locali a vantaggio degli industriali e della pianura.
I danni delle Dop non finiscono qui. le Dop e Igp hanno monopolizzato le denominazioni territoriali. Per tutelare questo monopolio, basato su un riferimento territoriale ambiguo e spesso ingannevole, la Ue esercita un'arcigna vigilanza circa l'uso di marchi collettivi riferiti ad una qualsivoglia entità territoriale, danneggiando le produzioni realmente ancorate al territorio. Il riferimento delle Dop spesso riguarda 'pezzi' interi di stati, se non stati interi, e quindi grandi filiere produttive che non presentano alcun ancoraggio a un 'terroir' (l'ambito concreto in cui la relazione tra caratteristiche geografiche legate a fattori umani e ambientali è efficace). Dove, come nel centro-nord Europa l'industria e l'igienismo hanno fatto tabula rasa di filiere locali artigianali di produzione la Dop non ha potuto produrre danni. In Francia, Spagna, Italia, invece, da tempo la componente meno industrializzata del settore agroalmentare spinge per una revisione del sistema che non penalizzi più le 'nicchie' come avviene nell'attuale quadro normativo.

Elogi = Difficile trovare un formaggio che sia stato oggetto di così numerosi elogi nell'arco di un periodo di cinque secoli 

1550. Franca Prandi  in una  pubblicazione del 2014 cita un documento di recente acquisizione (1). Dal documento notarile si deduce che il 5 luglio 1550 Gio. Pietro de Cataneis di Valleve vendeva a Castellino Beccaria le alpi di val Cervia e val Madre. Il Beccaria era  subito investito a livello per un fitto annuo di libbre 100 di “formaggio grasso, salato e stagionato”, per il primo anno e successivamente: "... in bono caxeo bene sucto et salato et bene ordinato qui sit […] pinguedinis et bontatis melioris caxei pingui, sucti, salati Vallis Biti [in formaggio buono, ben stagionato, salato e ben curato, che sia per qualità e per bontà del migliore formaggio grasso, stagionato e salato della valle del Bitto] . Dal che la Prandi conclude che: "Il formaggio grasso prodotto nella valle del Bitto  era già affermato, quindi e soprattutto riconosciuto come prodotto di alta qualità, molto apprezzato dai buongustai e non solo, che già allora veniva smerciato a prezzi piuttosto alti. 

1553. Ortensio Lando, nel XVI secolo, cita il formaggio della valle del Bitto nel suo “catalogo” delle “cose che si mangiano e beveno” in Italia. (O. Lando, Commentario delle piu notabili, & mostruose cose d'Italia, & altri luoghi: di lingua Aramea in italiana tradotto. Con vn breue catalogo de gli inuentori delle cose che cose che si mangiano et beueno, nouamente ritrovato, Cesano Bartolomeo, Venezia, 1553). A proposito dell’attuale provincia di Sondrio, allora dominio dei Grigioni avverte: “ Non ti scordar... anche i maroni chiavennaschi, non il cacio di melengo [Valmalenco], et della valle del Bitto".
1629. Nel secolo successivo in un registro dell’ Hosteria granda di Tirano - forse il più qualificato esercizio alberghero della Valtellina – in data 1629 si rinviene un’annotazione relativa alla vendita di alcune forme di “formaggio di Val del Bitt”. Nel 1629 e nel 1671 figurano annotazioni relative all’acquisto di alcune forme di «formaggio di Val del Bitt» a prezzi – 11-13 lire il peso – nettamente superiori al generico «formaggio grasso» di verosimile origine locale, acquistato a 5 lire, ma anche al «formaggio grasso» tedesco (9 lire). La discrepanza di prezzo – che la dice lunga sulla differente considerazione goduta dal formaggio della valle del Bitto rispetto al «formaggio grasso» valtellinese grazie alla Dop equiparato al primo – è principalmente dovuta alla diversa capacità di invecchiamento. È probabile che quello che arrivava sulle tavole dell’Hosteria granda fosse un bitto di due o tre anni, il che giustificherebbe la differenza di prezzo rispetto al formaggio locale, senz’altro dell’ultima stagione di alpeggio.(D.Zoia, "L'Hosteria granda di Tirano. Approvvigionamenti, arredi, servizi di un albergo nel sec. XVII", in Bollettino società storica valtellinese, n.49, 1996, pp.,143-174).
1813.  "I soli cantoni di Sondrio, Morbegno e Ponte abbondano di formaggi e butirri. Le qualità migliori dei primi sono somministrate dalle loro vallate secondarie, come dalla Valle del Bitto, Val Venina, Val Madre, Val Tartano, Val del Viori e Val del Masino, dalle quali è diffuso nella Bergamasca e Milanese, ed assai poco se ne smercia nel dipartimento".
(A. Del Majno, «Memorie sull’agricoltura del dipartimento dell’Adda», in: Re Filippo, Annali dell’agricoltura, Tomo XVIII, Milano 1813).
1823. “[…] tra gli ammucchiati macigni il fiume Bitto. Precipitano le acque sue dalla Valle che gli dà il nome, celebre d’altronde per gli squisiti formaggi che produce"(Descrizione della Valtellina e delle grandiose strade di Stelvio e dello Spluga, Milano, Societa Tipografica de' Classici Italiani, 1823).
1834.  "Le vacche somministrano generalmente molto latte, specialmente quando pascolano sui monti, per l'ottima qualità delle erba, e si ha quindi buona copia di eccellente butirro che si spedisce nell'estate anche fuori di provincia, e si fanno dei buoni formaggi, tra i quali è distinto e ricercato quello del Bitto. Gli stracchini di Bormio sono grassi, piccantissimi ed assai desiderati dai bevitori. L. Balardini «Notizie statistiche intorno alla Provincia di Sondrio (Valtellina)», in: Bollettino di statistiche economiche italiane e straniere, Annali Statistica, XL, 1834, 241-280 (p. 254) .
1837ca "Il formaggio grasso si conserva assai bene e migliora in bontà riposto per alcuni mesi nei magazzini entro la città di Como, per cui da taluni si pratica di lasciarvelo stagionare e quindi spedirlo altrove in commercio. È osservabile eziandio, che il formaggio destinato a smerciarsi nella provincia di Berga­mo vien preparato collo zafferano per colorirlo a foggia di quello Lodigiano, mentre all'in­contro non usasi zafferano per quello da smerciarsi nelle provincie di Milano e di Como. I migliori pascoli alpini trovansi nelle vallate del Bitto, Tartano, Masino, di Cervia, Venina, ove fabbricansi i migliori formaggi grassi, paragonabili almeno se non forse migliori degli svizze­ri" (Regione Lombardia, Settore Cultura e Informazione, Servizio biblioteche e beni librari e documentari, Agricoltura e condizioni di vita dei lavoratori agricoli lombardi: 1835-1839. Inchiesta di K. Czoernig, Editrice bibliografica, Milano, 1986, pp.721-722.)
1844. "Bormio e Chiavenna invece, che alpeggiano le loro vacche nell’estate, danno buon buttiro, e buoni cacci, ma forse non tanto quanto l'ottima pastura ripromette, assai migliori riescono nella valle del Bitto sopra Morbegno, credo per il migliore metodo dì prepararli" .
1853. “...gli eccellentissimi formaggi del Bitto e qualche capo di bestiame che suol incontrarsi nel Territorio di Bormio bastano a mostrare cosa la Valtellina sarebbe in grado di offrire" (
S. Jacini, Sulle condizioni economiche della Provincia di Sondrio. Memorie di Stefano Jacini, Stabilimento Civelli Giuseppe 1858 , Milano 2^ ed., p.32.
1875. "Nella valle del Bitto e di Tartano in confine della provincia di Bergamo si fabbricano eccellenti formaggi" Statitica del bestiame equino, bovino, ovino, caprino e suino, Ministero di agricoltura, industria e commercio, Roma, Cenniniana, 1875, p. LXXXVII
1931 [tra i formaggi della Valtellina] è assai rinomato il bitto, formaggio grasso fabbricato specialmente nella valle del Bitto, che sbocca a Morbegno, centro del commercio di questo formaggio, e nelle valli del Tartano e del Màsino” Touring club italiano, Guida gastronomica d’Italia, Milano, 1931, p. 92.
1936. Il formaggio Bitto […]  ha preso il nome dalla Valle del Bitto, affluente di sinistra del fiume Adda, che sgocia in territorio del Comune di Morbegno, dalla quale vallata proviene la produzione migliore. (G. Melazzini, Il bitto. Formaggio grasso tipico, Società anonima arte della stampa, Roma, 1936).

Esproprio = Attilio Tartarini, esponente della Coldiretti, (Rassegna economica della provincia di Sondrio n. 9, 1995, p. 59) in qualche modo ammetteva che  "Quelli della Valgerola si sono sentiti, anni fa, quando è iniziata l'estensione della produzione di Bitto in tutti gli alpeggi, un po’“derubati”". Per giustificare quello che appariva a molti come un esproprio senza indennizzo di un patrimonio di secoli di una valle, di una comunità di pratica di caricatori, stegionatori doveva sostenere una bugia: "Nella realtà non si sarebbe mai ottenuta la denominazione di origine del formaggio con una così limitata produzione". Bastava guardare oltre il Passo di San Marco dove al "Formai de mut dell'alta Valbrembana" era stata accordata una dop con una produzione che era una frazione dei quella delle valli del Bitto. La vicenda della dop bitto rappresenta un esempio di un esproprio patrimoniale

Expo = Sono due le Expo del bitto: quella del 1906 e quella del 2015 (entrambe a Milano). Nel 1906 venne conferito un premio ai produttori del formaggio 'detto del Bitto' (nel 'santuario' - vedi - è incorniciata una copia) . L'Expo 2015 non ha invece portato molto di buono, anzi. In vista dell'Expo fu siglata nel novembre 2014 la 'pace' del bitto (vedi) che si rivelò presto un bidone. Collocato in fondo al decumano (lungo 2 km) lo stand di Slow Food dove si è parlato in qualche occasione dell'ex bitto storico e dove venivano offerti gli assaggi è stato pochissimo frequentato perché metropolitane e ferrovia rigurgitavano i visitatori dalla parte opposta. 



Fermenti = Rappresentano, forse ancor più del mangime, il termine di scontro (anche simbolico) tra i tecnici e l'industria da una parte e i produttori storici e ribelli dall'altra. Generazioni di tecnici hanno predicato che la qualità di un prodotto artigianale potesse migliorare solo con l'adeguamento ai progressi della tecnologia industriale. Solo in anni recenti la 'necessità' di imporre ambienti di lavorazione simil-industriali e i famosi 'fermenti' , ovvero colture di laboratorio di poche specie batteriche poi liofilizzate e distribuite in bustine da aggiungere al latte. I 'fermenti' rappresentano un argomento scopertamente ideologico da oltre un secolo. Cosa c'entrano i 'fermenti' e altri 'miglioramenti' con la politica, con l'ideologia si chiedono  ancora oggi, cadendo dal pero, certi accademici? Come se non fosse evidente che dietro la scelta di una razza da parte degli zootecnici, di una tecnologia non ci fossero le spinte alla trasformazione dei rapporti sociali e di potere nell'ambito dell'agricoltura, come se i 'tecnici' fossero creature angeliche slegate da interessi nella società. Lo Scalcini, direttore della Cattadra ambulante di agricoltura delle valli bergamasche, nella relazione sull'attività della Cattedra stessa nel periodo 1906-1913 (Bergamo,1913) non nascondeva la sua poca simpatia per i bergamini che qualifica: "allevatori quanto mai primitivi" e vedeva nell'azione illuministica di 'innalzamento intellettuale' della Cattedra un mezzo per facilitare la loro sedentarizzazione o al piano o in montagna. Il formaggio doveva essere 'migliorato' come il bestiame (si sono viste le conseguenze, nell'ambito della razza bruna, della 'svizzerizzazione' prima e della 'americanizzazione' poi) , anche se il bitto/branzi aveva un ottimo mercato e un'ottima fama e quindi tanto scadente non era.  Eppure lo Scalcini ci informa che:  "...sempre per il miglioramento del branzi la cattedra ha coadiuvato il chiarissimo professor Gorrini della regia scuola superiore di agricoltura di Milano in una sua esperienza di semina di fermenti selezionati, eseguita, nel 1909, sull'Alpe Ponteranica in comune di Mezzoldo. L'esito di queste prove è stato soddisfacente, in quanto che ne formaggi fabbricati con i fermenti si riscontrò una perfetta conservazione della pasta e un sapore delicato ed ottimo; mentre le forme di confronto, lavorati nelle stesse condizioni, ma senza fermenti, presentavano varie pecche". Si ammetteva che si trattava solo di una prova preliminare. Dopo quella prima prova passarono ottant'anni prima che il bitto tornasse ad essere oggetto di prove sull'uso dei fermenti per opera dei tecnici dell'Istituto lattiero-caseario di Lodi. Quelle prime prove non sempre fornirono esiti favorevoli (dosi e adattamento dei parametri di lavorazione dovevano essere messe a punto). L'uso delle 'bustine', intanto si diffuse dopo che il riconoscimento della dop 'bitto', nel 1995, aveva esteso la produzione a valli dove era ignota la sua tecnica di lavorazione. Le 'bustine' facilitavano indubbiamente i casari che iniziavano a produrre bitto senza avere una scuola di generazioni di casari del bitto alle spalle (la scuola dell'imparar guardando e facendo da pastorelli). Ma erano le 'bustine' di fermenti industriali (prodotte dalle ditte specializzate Sacco e Csl) che venivano utilizzate anche per la produzione di altri formaggi. Gli stagionatori  (Colavev, Carnini, Latteria di Delebio) 'caldeggiavano' l'uso delle 'bustine' per nulla autoctone pena il mancato ritiro delle forme. La banalizzazione era palese ed è storia. In occasione della modifica 'modernizzatrice' del disciplinate del 2005 con una formula tartufesca o forse solo furbesca si proclamava una specie di ossimoro:  "È consentito l'utilizzo di fermenti autoctoni che valorizzino la microflora casearia spontanea". Come era possibile 'valorizzare' la microflora spontanea e biodiversa, selvaggia ma proprio per questo capace di rendere il formaggio di un alpe diverso da un altro (insieme, ovviamente ai fattori pascolo e 'mano' del casaro? Ed ecco il secondo falso storico della dop (dopo quello clamoroso sull'area di produzione). Quali fermenti 'autoctoni' vennero approvari con la modifica del disciplinare? La sperimentazione finalizzata ad individuare i 'fermenti autoctoni'  (dopo una campagna di prelievi nel 2007) iniziò nel 2008-2009 e i risultati furono raggiuti nel 2010 e pubblicati nel 2011 (“I formaggi DOP valtellinesi: miglioramenti tecnologici nel rispetto della tipicità” (Programma regionale di ricerca in campo agricolo 2007 - 2009). E prima che 'bustine' venivano usate? Quanto ai 'fermenti autoctoni' si tratta di ceppi selezionati di Streptococcus thermophilus ('selezionati' non è in sé una parolaccia, significa che su un insieme di ceppi isolati nei campioni di latte se ne scelgono alcuni e li si fa moltiliplicare in laboratorio.  Lo Streptococcus t. che è la specie 'casearia' che viene normalmente 'allevata in caldaia' in ragione della tecnica di lavorazione del bitto che prevede la cottura della cagliata a 48°C e più gradi. Cosa cambia con i 'fermenti', selezionati (e, in alcuni casi geneticamente modificati in laboratorio? Quando sono necessari? Innanzitutto va osservato che la necessità universale proclamata dai tecnici, specie di certe scuole, non è dimostrabile. Non pochi disciplinari di produzione di prodotti dop (quindi non di casari 'trogloditi' e ignoranti, visto che le dop sono riconoscimenti ufficiali passati al vaglio dei competenti organi istituzionali) escludono qualsiasi tipo di fermento affermando che questo comprometterebbe le caratteristiche uniche di produzioni artigianali. Capire il perché si devono aggiungere gli 'starter' è utile per non lasciarsi ingannare. La necessità deriva dall'impronta che il sistema agroindustriale governato dalle multinazionali dell'alimentazione, della chimica, dalle mega coop, dall'industria dei mezzi tecnici, delle attrezzature, della 'genetica animale'. I fermenti sono figli, innanzitutto, della refrigerazione e della pastorizzazione del latte che ha consentito all'industria di eliminare la concorrenza dei piccoli caseifici locali movimentando enormi masse di latte su lunghe distanze e sfruttando le economie di scale. Non solo il latte pastorizzato è morto ( i microrganismi utili per la caseificazione e la produzione del formaggio sono stati uccisi) ma esso può essere contaminato con microflora anticasearia. Di più, anche quando il latte non è pastorizzato, nelle attuali condizioni dell'industria zootecnica, a causa della sosta in tank di refrigerazione, dell'eccesso di pulizia, dall'eccesso di uso di disinfettanti e prodotti chimici per la pulizia il latte è dismicrobico, ovvero è caratterizzato più dalla presenza di microrganismi anti caseari (microrganismi psicrotrofi derivanti da acqua, suolo e attrezzature, clostridi e propionibatteri, derivanti dal suolo o dagli insilati, microrganismi patogeni, derivanti dagli animali e dagli operatori) che di microrganismi utili.
In queste condizioni senza aggiungere i fermenti anche il latte crudo, non termizzato è un latte 'spento', un o' malato che non evolve naturalmente in formaggio. Utilizzare gli 'starter, per i formaggi artigianali, specie quelli prodotti in alpeggio è giustificato dal desiderio di ridurre l'incidenza di difetti sapendo che il prezzo che si paga è un appiattimento (più o meno grave in relazione a tanti fattori) del gusto del formaggio. Lo studio finanziato dalla regione scopriva l'acqua calda, ovvero che l'aggiunta degli 'starter' (termine tecnico per riferirsi ai 'fermenti' selezionati aggiunti al latte in fase di lavorazione ) riduce il rischio di uno spurgo insufficiente, con tutte le conseguenze in termini di fermentazioni anomale (favorite dal substrato favorevole rappresentato dal siero trattenuto nella pasta). Ma il casaro 'di tradizione' sa che applicando la regola della mancanza di fretta, dello scrupolo, dell'attenzione a variare in funzione della variabilità da un giorno all'altro del latte anche di poco i parametri (un grado in più, un zic di caglio in meno, qualche minuto in più di un passaggio) si può e si deve evitare uno spurgo insufficiente. Se il latte non sosta troppo, se non è stoccato in condizioni inidonee (bidoni sotto il sole) quella microflora naturale di cui il buon latte d'alpeggio è ricco, convenientemente 'allevata' in caldaia consentità di far proliferare i batteri caseari e di ottenere un'acidificazione graduale e sufficiente senza la stampella degli 'starter'.
Un formaggio destinato a stagionare anni non può permettersi di nascere in condizioni ottimali. Ovvero in condizioni in cui il casaro è in grado di padroneggiare la variabilità accidentale. Se, per qualche motivo, le condizioni ambientali sono così avverse da non consentire di effettuare una lavorazione al meglio (per sempio come quando crolla la tenperatura ambientrale) non c'è nessun problema in un formaggio come lo 'storico ribelle' venduto giovane a 40 euro il kg. Diventano 'storico ribelle' solo le forme selezionate che sono passate al vaglio dei primi mesi di stagionatura. Che senso avrebbe in un prodotto che vuole rappresentare un vertice qualitativo, smussare questa qualità. Lasciamo che lo faccia il bitto dop. Prodotto in alcuni alpeggi raccogliendo il latte da numerosi produttori e lavorando in caseifiuci sociali d'altura 70 q.li di latte al giorno.  Quello che i tecnici non amano ricordare è che se  gli 'starter' riducono il rischio di spurgo insufficiente, dall'altra possono aumentare quello di un'acidificazione troppo rapida con la conseguenza di un'eccessiva asciugatura della pasta (cui corrisponde un grado indesiderato di demineralizzazione della pasta che diventa meno elastica, più friabile) (Cavallotto G., Giangiacomo R., Carini S. Il formaggio Bitto: tecnologia, composizione e caratteristiche reologiche e di colore in il Latte, 13 -1988 -726-733). Il 'fermento' viene poi percepito dal casaro (estraneo alla cultura tradizionale e contaminato dalla mentalità industriale) come un salvagente che consente di allentare gli scrupoli, di tagliare sui tempi di lavorazione, di essere più sbrigativi. Lavorando più 'in automatico' può succedere che - circostanza che nei convegni non verrà mai ammessa  - in alcuni anni anomali, persa la capacità da parte dei casari di adattare i parametri alle circostanze, il bitto dop prodotto con gli starter presenti difetti palesi (e incidenza di scarto elevata) perché di fronte a gravi problemi di contaminazione non ci sono 'starter' che tengano e il formaggio... si gonfia. Oggi i 'tecnici' hanno in parte dovuto far fronte a diverse conseguenze negative derivanti dall'uso dei fermenti. Le selezioni 'spinte' con pochissime specie erano esposte all'alea dei virus batteriofagi e la perdita di gusto dei formaggi è evidente. Così di fronte alla crescente simpatia per la 'biodiversità' i 'tecnici' hanno parzialmente ( in apparenza) fatto dietro-front: eccoli allora spiegare che i  'fermenti' sono stati isolati negli alpeggi, che servono solo a dare uno 'spunto' senza alterare il ruolo della microflora 'selvaggia'. Ma tutti usano gli stessi 'fermenti autoctoni' e la lavorazione tende ad omolgarsi riducendo (poco o tanto) il ruolo dell'esperienza, sensibilità, intelligenza del casaro. Ma senza tener deste al massimo queste qualità non si arriva alla vera eccellenza. Autoctoni o meno i 'fermenti' se li tengano. E non ci sarà mai uno 'storico ribelle', un bitto della tradizione con i fermenti.

Formai de mut (dell'alta Valbrembana) = Tradotto dal bergamasco non è nient'altro che il formaggio d'alpeggio. La sua origine viene fatta risalire al periodo tra le due guerre mondiali , quando i bergamini che caricavano gli alpeggi dell'alta Valbrembana, iniziarono a stabilizzarsi in pianura e ad inviare in alpe solo le manze. Ciò portò ad un crollo della produzione di bitto/branzi che, all'inizio del secolo era realizzata in 33 alpeggi (gli altri producevano stracchini, formaggi magri, formaggini)(vedi Brembana, valle). La riduzione del carico di bestie lattifere incoraggiò la produzione di forme di piccola dimensione utilizzando anche il latte di due mungiture  (una prassi ammessa dal disciplinare di produzione). Esse persero anche la caratteristica dello scalzo concavo mentre non veniva più praticata l'aggiunta del latte di capra. Il numero di capre, che si era mantenuto elevato verso la fine del XIX secolo (oltre 4000 risultavano quelle allevate in alta Valbrembana nella Statistica del bestiame del 1875) e che aveva 'tenuto' sino all'inizio del nuovo secolo, crollò, specie nelle valli bergamasche, con l'introduzione, con il Regio decreto legge del 16 gennaio 1927 n. 100, di una tassa speciale (progressiva) sulle capre. La dop del Formai de mut ha però preceduto di dieci anni quella del fratello maggiore, il bitto, grazie all'interessamento di un ministro dell'agricoltura bergamasco, Pandolfi, che è ricordato dai più per gli errori commessi in materie di quote latte. Il Formai de mut divenne  dop con il Dpr 10 settembre 1985 e ottenne il riconoscimento europeo con il Reg. n. 1107/96 del 12 giugno 1996. Inizialmente il Formai de Mut era prodotto solo in alpeggio, poi di fronte all'esiguità della produzione il Consorzio costituito nel 1997  'aprì' alla produzione invernale che è contrassegnato da una serigrafia rossa impressa sul piatto (quello d'alpeggio, de mut, presenta una serigrafia blu). La produzione è realizzata per lo pià in alcuni caseifici cooperativi e non arriva a 6 mila forme, di cui circa 1200 d'alpeggio. 

Funzionarie/Dirigenti = Nella loro storia i ribelli del bitto hanno incontrato delle 'simpatiche' funzionarie/dirigenti di enti pubblici che hanno manifestato un'avversione viscerale nei loro confronti, tanto da figurare più avverse dei politici. Ricordiamo la dott.ssa Laura La Torre del Ministero delle politiche agricole e la dott.ssa Donatella Parma della Regione Lombardia (entrambe con competenza alle dop), che difesero dagli 'usurpatori ribelli' come una lupa che tutela i propri cuccioli. La Latorre è famosa per aver chiesto a Paolo Ciapparelli durante uno degli incontri a Roma se il bitto si produceva anche in inverno. Nel novembre 2012 mentre il dr. Paolo Baccolo (il direttore denerale della D.G. agricoltura della Regione Lombardia) si era dimostrato interessato a capire le ragioni dell' ex bitto storico, la dott.ssa Donatella Parma - oltre a manifestare apertamente la sua ostilità - durante una pausa della discussione secondo la testimonianza di alcuni di loro avrebbe preso in disparte alcuni produttori e li avrebbe 'consigliati' a non credere al presidente e ai rappresentanti della Società valli del Bitto che, secondo la funzionaria, avrebbero 'doppi fini' e perseguirebbero loro interessi particolari di natura commerciale.  Un vero insulto per persone che hanno impegnato (e perso) soldi propri, tempo ed energie per sostenere un patrimonio collettivo che le istituzioni stavano gettando al vento per assecondare i poteri forti locali (mentre le stesse istituzioni trasferivano denari pubblici per finanziare tente iniziative inutili e perdenti con i soldi dei sudditi contribuenti). La dott.Parma è stata 'allevata' dal punto di vista accademico nel laboratori di microbiologia dove, sul piano applicativo, si studiano i famosi 'fermenti' selezionati.(vedi 'fermenti'). Un caso o  i 'fermenti' sono un elemento catalizzante di un programma ideologico e politico? Può aiutare la risposta constatare che, a livello locale  la dott.ssa Giulia Rapella, responsabile dell'ufficio agricoltura e foreste della Comunità montana di Morbegno si comporti da 'allieva' della Parma e - circostanza ancora più interessante, abbia avuto lo stesso imprinting universitario . La Rapella è famosa per aver pubblicamente (su facebook) esortato i produttori dello 'storico ribelle' a ribellarsi a... la loro associazione (come si vede si tratta di una strategia che vede la burocrazia agire politicamente per far trionfare il 'progresso' e le proprie visioni e, in definitiva, il proprio potere.  Ovviamente non vedrete mai pubblici funzionari esortare gli agricoli a 'incalzare' le organizzazioni professionali, le cooperative, i consorzi 'istituzionali'. Tantomeno li vedrete sobillarli contro di essi. Finirebbero trasferiti e soggetti a misure disciplinari .

Garòtt  (pl. garòcc) = contenitori (secchielli) in legno per contenere la maschèrpa garòtt è bucherellato sia sul fondo che sulle pareti per favorire lo spurgo della scòcia (siero). Il legame con il bitto ribelle consiste nel fatto che, grazie al mantenimento della tradizione di produzione della maschèrpa "a la moda vègia" , vi sono ancora artigiani che continuano a produrli.

Gerola = Comune (nome esatto Gerola alta) delle valli del Bitto dove ha sede il Centro del bitto e la Società valli del bitto. Capitava in contesti locali (un po’ campanilisti,) che al bitto storico ci si riferisse come ‘bitto di Gerola’. Con lo 'storico ribelle' questo riferimento è diventato anacronistico. Infatti il numero degli alpeggi di Gerola aderenti al gruppo dei 'ribelli' è sceso a soli tre. Oggi su tre alpeggi comunali, in relazione alla politica dell'amministrazione comunale, che osteggia i 'ribelli' (le ragioni emergono dalla voce 'ribaltonisti'), solo uno conferisce al Centro del Bitto. Lo 'storico ribelle', volente o nolente, guarda quindi al di là di Gerola e della valle, dove vi siano casari disponibili ad osservarne il metodo e la filosofia. Gerola, però, rimane il cuore della storia e della cultura del bitto. Un'ascendenza che è forte e riconoscibile anche se in inverno a Gerola non ci sono quasi allevatori.   Mentre i bergamini della val Brembana si sono fissati nella pianura lombarda recidendo quasi del tutto i legami con i paesi di origine, e provocando una forte crisi del sistema alpicolturale e della produzione casearia in alpeggio, a Gerola le famiglie si sono si trasferire altrove ma a breve distanza, mantenendo un forte legame con la tradizione del bitto anche quando caricano alpi in altri comuni. Essi hanno potuto, dalla seconda metà del XIX secolo, approfittare delle bonifiche e della regimazione dell'Adda per acquistare terreni adatti alla produzione foraggera. In piccolo hanno realizzato delle aziende zootecniche moderne (sia pure più piccole di quelle dei bergamini che si sono fissati alla bassa), hanno ingrandito le mandrie e continuato così, grazie alle acquisite dimensioni imprenditoriali, continuare a caricare gli alpeggi e a produrre bitto.

Giusti = Espressione più 'impegnativa' per definire gli 'amici' (vedi) del bitto ribelle. Ma è irriverente paragonare i 'giusti' del bitto (ai quali è stata dedicata una 'galleria' con forme ad essi dedicate, vivi o scomparsi che siano)?Se i Giardini dei Giusti ricordano persone che si sono esposte personalmente per contrastare i crimini contro l'umanità e i totalitarismi, i 'Giusti del bitto' hanno comunque preso posizione contro l'ufficialità, le norme europee, il conformismo, le bugie del potere che hanno espropriato una comunità di produttori storici di un loro patrimonio, banalizzandolo e monetizzandolo a favore delle filiere agroindustriali. Un 'crimine' piccolo rispetto ai genocidi e ai delitti perpetrati dalle multinazionali ai danni dei popoli indigeni, ma un crimine della stessa natura. La differenza è solo di grado.

Gràss = area di pascolo nei pressi del calécc (vedi) e delle baita (vedi). L’accumulo di fertilità per lo stazionamento della malga determina una produzione di erba abbondante.  Per evitare un eccesso di concimazione che favorisce lo sviluppo di piante invasive quali il Rumex alpinus (slavazz) i calécc , nel sistema tradizionale sono utilizzati a rotazione, lasciando passare almeno due anni tra un utilizzo e l’altro

Gendarmi = 'Gendarmi del gusto' o 'gendarmi del bitto' sono in senso stretto i funzionari dell'ufficio repressione frodi che nel 2009 sanzionarono la Società valli del Bitto (colpevole di lesa dop) per 20 mila euro (poi ridotti con il ricorso a 5 mila). In senso più ampio i politici e burocrati valtellinesi che hanno ricorrentemente minacciato i ribelli del bitto (la repressione frodi era stata invocata pochi mesi prima delle sanzioni dall'assessore provinciale all'agricoltura, De Stefani). Non più tardi che un anno fa l'assessore regionale all'agricoltura  Fava consigliava caldamente la rinuncia al nome 'bitto', perché in Valtellina, a sua detta, erano pronti a denunciare i ribelli e non riusciva più a tenerli fermi.

Gonfiore = Nei formaggi si distingue il gonfiore precoce e quello tardivo. Il gonfiore precoce non interessa lo 'storico ribelle' perché si presenta entro pochi giorni dalla lavorazione. Quello tardivo è un grave difetto a caroco dei formaggi a lunga stagionatura perché emerge dopo mesi. Porta anche allo 'scoppio' delle forme dei formaggi duri. All'interno delle forme compaiono ampie cavità cavernose mentre all'esterno le forme (se non si spaccano, appaiono fortemente rigonfiate). La causa è da rintracciarsi nella persenza nel latte di spore di Clostridi (Clostridium tyrobutiricum e Clostridium sporogenes) , batteri anaerobici che riprendono l'attività vegetativa anche dopo mesi dalla produzione del formaggio fermentando il lattato di calcio e producendo CO2, acido acetico, acido butirrico, idrogeno. Ne consegue un sapore alterato (verso il rancido) e un odore sgradevole di acidi acetico e butirrico. La pasta è meno consistente e più elastica rispetto al formaggio privo di difetti. Molto spesso la causa è legata all'utilizzo di insilati (e fasciati) e alla loro cattiva conservazione e pertanto non riguarda i formaggi d'alpeggio e quelli che (come parecchie dop) vietano l'uso di insilati e fasciati. La contaminazione del latte con feci rappresenta un'altra delle cause del difetto. L'aggiunta di antifermentativi (lisozima) e particolari starter in grado di produrre sostanze inibenti i clostridi rappresenta una scelta inaccettabile per formaggi di qualità alterando profondamente la microflora del latte. La prevenzione consiste nell'attenzione alle condizioni igieniche della mungitura e della manipolazione del latte. La professionalità dei casari degli alpeggi dove si produce 'bitto storico' rappresentano una garanzia rispetto all'insorgenza di un difetto che, se non legato a cause fortuite occasionali, compromette più di altri la reputazione del casaro.

Grasso = Grasso d'alpe Valtellina era il nome cui poteva aspirare il formaggio grasso degli alpeggi valtellinesi che non si trovavano nella comunità montana di Morbegno prima della 'magica' estensione (retroattiva) a tutta la provincia di Sondrio della produzione del bitto.

Guerra = La 'guerra del bitto' è stata evocata innumerevoli volte sulla stampa valtellinese. Si è spesso fatto alla metafora della guerra per indicare il conflitto che ha preso origine nel 1994, quando emerse chiara la volontà di varare una dop estesa a tutta la provincia di Sondrio. La 'guerra' è durata, con fase alterne (tregue, accordi, ripresa delle ostilità) sino al 2016 anche se la fase virulenta risale al 2005/6, anni della modifica del disciplinare di produzione (con la legalizzazione del mangime e dei fermenti selezionati). Formalmente la 'guerra' è finita nel 2016 perché è cessata la contesa sul nome 'bitto' (che i ribelli hanno deciso di abbandonare). La conflittualità, in ogni caso, persiste.

Guerriero = 'guerriero del bitto' è il titolo che si è meritato Paolo Ciapparelli, il fondatore dell'Associazione valli del Bitto (poi Consorzio salvaguardia bitto storico) e della Società valli del Bitto. Ciapparelli non era un allevatore, né era un operatore del settore caseario. Questa circostanza ha rappresentato una grande fortuna per il bitto della tradizione perché da outsider e da self made man Ciapparelli è stato immune sia dalle pressioni che avrebbero facilmente condizionato un 'addetto ai lavori' (promesse di finanziamenti, 'visite' di autorità sanitarie, prospettive di vantaggi economici). È titolare, anche se la ditta oggi è gestita prevalentemente dai famigliari, di un'azienda di commercializzazione di piastrelle e laterizi a Cosio valtellina (il comune che, con la frazione Sacco, si estende anche alla Valgerola e dove risiedono molti, allevatori e non, di origine gerolese). Ciapparelli era nato a Sondrio, ma è di origine gerolese per parte di madre, e la molla che l'ha portato ad occuparsi di bitto era rappresentata dal desiderio di rilancio della montagna, delle valli laterali come la Valgerola, di rivitalizzazione di economie (quelle legate agli alpeggi)  un tempo cardine della vita locale ma che avevano perso molta della loro importanza. Intuiva che dietro la 'cultura del bitto' c'erano patrimoni importanti che era doveroso non solo conservare per la memoria ma anche cercare di valorizzare economicamente. Accusato spesso di 'smania di protagonismo', Ciapparelli nel 1994, eletto come consigliere di opposizione nella lista Lega Nord con un programma tutto centrato sul bitto e gli alpeggi, lasciò il posto al primo dei non eletti, Fabio Acquistapace (vedi alla voce Ribaltonisti ). Con Nel 1996, alla costituzione dell'Associazione valli del Bitto, Ciapparelli, che godeva della stima e della fiducia dei produttori - che ne riconoscevano il carisma - rinunciò alla presidenza invitando ad eleggere Angelo Ruffoni, un esponente leghista locale. Quando, però, nel 1997, il Ruffoni - che era il rappresentante dell'Associazione nel consiglio del Consorzio ufficiale bitto - si manifestò incline al compromesso, Ciapparelli non esità a sfiduciarlo assumendo la presidenza. Al 'guerriero del bitto' viene rimproverato di essere stato brusco sia con Angelo Ruffoni che con Ettore Del Nero. Quest'ultimo, che rappresentava la Coldiretti, fungeva da segretario e fu indotto, senza troppi complimenti, al lasciare la carica e la documentazione quando Ciapparelli si rese conto che la strada del compromesso e la 'linea morbida' avrebbero portato solo alla sconfitta della causa. Anche le rotture con Patrizio Del Nero (vedi alla voce Ribaltonisti ) e con l'amico Attilio Manni si spiegano con la necessità di difendere la causa e non certo con la smania di Ciapparelli di non avere intorno nessuno che gli faccia ombra. Patrizio Del Nero nelle cariche pubbliche che ha ricoperto è stato per anni un aperto nemico dei ribelli del bitto. Attilio Manni  si dimise da consigliere della Società valli del Bitto dopo che, nel 2011, Fabio Acquistapace, sindaco di Gerola e azionista della Società, aveva tentato di sfiduciare Ciapparelli e di sostituirlo con lo stesso Manni. In seguito Manni ha condiviso le posizioni di 'dissidenza' di Fabio Acquistapace e del fratello Daniele in occasione delle assemblee (cruciali) della Società valli del Bitto. In seguito alla conquista della presidenza della provincia di Sondrio da parte della Lega Nord (nel giugno 2009) e del successivo totale voltafaccia rispetto ai 'ribelli del bitto', Ciapparelli si è completamente staccato dalla politica partitica. Sostiene, a ragione, che la politica - intesa come conflietto e convergenza su temi che riguardano il bene comune - sc'entri più con il movimento a sostegno del bitto della tradizione che con i partiti e con le istituzioni (che si distinguono poco dai comitati d'affari dlele lobby). Così parla un guerriero. E si capisce perché in certi ambienti sia poco popolare.

Homo selvadego =A più riprese l’homo selvadego è stato proposto come simbolo da associare al Bitto storico stesso quale difensore dei nostri ribelli. La sua clava dovrebbe indurre pagura agli accaniti nemici dell’eroico formaggio ma va anche sottolineato come nella sua connessione ad antiche tradizioni il bitto ribelle non può non  guardare con simpatia al 'selvatico' portatore di antica saggtezza. Nelle valli del Bitto l’homo selvatego è (ri)entrato nell’immaginario collettivo grazie al restauro della Camera Picta di Sacco, la frazione di Cosio Valtellino. Qui c'è la Casa dell'uomo selvatico che è diventata nel un Museo nel 1994. Tra gli affreschi quattrocenteschi spicca un uomo barbuto e totalmente coperto di peli sino ai piedi che brandisce con entrambe le mani, tenendola aderente al petto, una clava nodosa. La figura ‘parla’ attraverso un cartiglio: "Ego sonto un homo salvadego per natura, chi me ofende ge fo pagura".  L’autore dell'affresco è Angelo Baschenis di Averara (in alta val Brembana).  A seconda delle regioni, le popolazioni alpine hanno attribuito al 'selvatico'  diversi appellativi: Salvanèl, Om Pelòs, Salvàn, der Wild Mann, Sambinello, Om Selvadech, Òm da l bòsch, e via discorrendo. La leggenda del 'selvatico', che probabilmente rappresenta la trasposizione di antiche divinità, è - cosa che più conta per noi - una leggenda casearia. Il ‘selvatico’, portatore di profonda saggezza (e conoscenze magiche), avrebbe per benevolenza verso gli uomini consegnato loro i segreti dal caglio, della burrificazione e produzione di ricotta. In alcune versioni il segreto della ricotta restò tale perché gli uomini avendolo deriso o avendogli giocato brutti tiri lo avrebbero indotto a sparire per sempre.


Inizio = Tutto inizia nel 1994 con la costituzione del Comitato per la salvaguardia del Bitto prodotto nelle zone di origine (Valli del Bitto). Ne erano animatori Paolo Ciapparelli e Angelo Ruffoni (quest'ultimo fu anche il primo presidente dell'Associaizone valli del Bitto, costituita nel 1997, ma venne quasi subito sfidiciato). Il Comitato si era costituito dopo che si era tenuta nello stesso anno a Sondrio,  l'audizione pubblica di rito presso la Camera di commercio. All'audizione non vi f alcuna contestazione. I produttori storici di fidavano, a torto, della Coldiretti e, in ogni caso, tendevano a non attribuire alcun peso ai rumors che parlavano di un 'nuovo bitto'. Erano talmente convinti che la storia del bitto non potesse essere ribaltata e che non fosse possibile staccare il bitto dall'area storica di produzione che si mossero solo in ritardo, a fatti compiuti. Anche successivamente, dopo decenni di delega in bianco alla Dc e alla Coldiretti, non erano in grado di superare la sudditanza psicologica e la subalternità a queste organizzazioni. Il 'miracolo' della nascita della contestazione sul bitto, che poi prenderà il connotato dell'aperta ribellione si spiega con la coincidenza di due circostanze: la caduta del potere democristiano a seguito di Tangentopoli (anche se in Valtellina esso tenne per un po' anche oltre il crollo a livello nazionale), l'emergere di una nuova forza politica che, per ottenere consensi, si presentava con toni anti-sistema e anti-establishment (salvo poi gestire il potere locale in forme anche peggiori della Dc). Fu una 'finestra' breve ma nella quale seppe infilarsi Ciapparelli. Il blocco delle istituzioni (le lobby) impedì che le istanze dei produttori storici trovassero il ben che minimo ascolto ma, d'altra parte esse non sono più riuscite ad estirpare il seme della ribellione, che riuscì a germogliare in circostanze favorevoli, e che poi si sviluppò capendo che doveva agganciarsi a movimenti esterni alla Valtellina (dal 2001 iniziarono i contatti con Slow Food) dove rischiava il completo accerchiamento.

Integralisti = Insieme a 'duri e puri' (vedi) un'altra definizione, tutt'ora utilizzata dai media per indicare i ribelli del bitto è quella di 'integralisti del bitto'. Ai ribelli tutte queste definizioni fanno solo onore perché veicolano l'immagine (corrispondente alla realtà) di chi si ribella all'ingiustizia, di chi è 'integralista' a fronte di tendenze a 'disintegrare' un sistema tradizionale di storia e di cultura per imporre l'omologazione industriale.

Invecchiamento = Lo 'storico ribelle' della stagione d'alpeggio precedente viene messo in vendita 'novello' a novembre. Ma se le forme non presentano difetti tali da pregiudicare la sua stagionatura è una specie di 'infanticidio' consumerlo così presto. Certo è buonissimo, pastoso, butirroso, pieno. Ma non è a questo stadio che si esprime lo 'storico ribelle'. Una maturazione minima dovrebbe essere di sei mesi anche se è dopo l'anno che iniziano a manifestarsi le sue caratteristiche organolettiche. Per la maggior parte degli estimatori esperti le buone forme raggiungono il loro meglio a 2,5-4 anni di età. Poi, come per i grandi vini ci sono forme che continuano ad 'evolvere' ma altre si 'spengono'. Accostarsi allo 'storico ribelle' significa provare e confrontare tra loro forme di diverse annate per confrontare lo 'storico ribelle' nelle diverse età: bambino (fino a sei mesi); adolescente (da sei a  diciotto mesi), giovane (da diciotto a trentasei mesi), maturo (da 3 mesi a 5 anni), senior (oltre 5 anni). Ogni anno il prezzo sale di 1-2 euro all'etto non tanto per il calo peso, ormai poco influente anche se ancora presente, quanto per l'incidenza del lavoro di pulizia delle forme che continua per tutta la vita. È interessante sapere che dopo aver compiuto un anno le forme non vengono mantenute più appoggiate di piatto ma verticalmente in scansie su dei supporti che consentono di imprimere loro un quarto di giro (come con lo spumante fermentato in bottiglia in una pupitre).


Latteria = 1) La Latteria Alpi del Bitto di Albaredo, inaugurata nel 2006, ha sancito la frattura tra comune di Albaredo e produttori storici consumata l’anno precedente con la presa di posizione del sindaco Patrizio del Nero a favore del Ctcb. e il rifiuto di seguire i ribelli del Bitto (sostenuti allora dal comune di Gerola) nella loro uscita dal Consorzio. È gestita dall' industria casearia Latteria sociale Valtellina, ‘azionista di riferimento’ del Ctcb. 2) 'Latteria' è il nome del formaggio prodotto dalla fine del XIX secolo nelle (allora) nuove latterie sociali. Si tratta di un nome radicato ancora oggi (sia localmente che tra gli addetti ai lavori del settore caseario lombardo. "Stagiono 'latteria' che acquisto in Valtellina" vi diranno note aziende della Valsassina che riforniscono il mercato regionale). La Società valli del Bitto commercializza il 'latteria' dei suoi soci (e di altri conferenti 'storico ribelle' in ogni caso aderenti al Consorzio salvaguardia bitto storico) prodotto in inverno. Trattasi di formaggio semigrasso spesso di ottima qualità, prodotto con fieni locali e poco (o niente) mangime. Questi 'latteria' artigianali, prodotti nei caseifici aziendali in inverno non vanno condusi con il casera dop, formaggio pan-sondriese inventato di sana pianta (almeno quale denominazione) dalle stesse menti che partorirono il 'nuovo bitto'. Il casera dop è, nella maggior parte dei casi, un formaggio industriale. La Latteria sociale valtellina lo produce con moderne tecnologie industriali di coagulazione in continuo.

Lavorazione = Il latte appena munto, quando si lavora nel calecc' o, come avviene oggi più spesso, in una baita,  viene versato direttamente dai secchi di mungitura nella caldaia (culdéra) Se la mungitura avviene ad una certa distanza dalla baita dove si lavora il latte o se lo si trasporta direttamente alla casera, si usano dei bidoncini muniti di spallacci (brentèl) per il trasporto a spalla o i normali bidoni del latte (capacità 50 l) laddove è possibile utilizzare mezzi meccanici (motocarriole, fuoristrada).
 Nelle valli del Bitto tutte le caldaie sono ancora quelle di tipo tradizionale in rame a forma di campana rovesciata.  Le caldaie hanno una capacità variabile tra i 150 e i 500 litri di latte e sono ricavate per martellatura di un’unica lastra, con il bordo avvolto su un cerchio di rinforzo; da questo sporgono delle “orecchiette” forate che servono per fissare il manico. Per filtrare il latte e rimuovere le inpurità solide il latte viene filtrato versandolo in un grosso imbuto (cuul) provvisto di una rete metallica. Il cuul viene appoggiato su un telaietto di legno (cabrèta) posto di traverso sopra la caldaia e può essere di plastica, di alluminio, acciaio inox o anche di rame. In passato anche il cuul era in legno. Oggi il cuul è provvisto di una reticella metallica mentre una volta si usavano in funzione di filtro del rametti di abete.
Una volta terminata la mungitura, il latte vaccino e caprino (quest’ultimo rappresenta il 10-20% del totale) è riscaldato direttamente mediante fuoco a legna, fino a una temperatura di 35-38°C.  Il casaro, sino al raggiungimento della temperatura desiderata, mantiene continuamente in agitazione il latte con la "rotella" (rudèla), un’asta di legno leggero munita all’estremità di un disco di legno di betulla. La rudèla è l’attrezzo che resta più a lungo a contatto con il latte in varie fasi della lavorazione e questo spiega l’uso di un’essenza particolare che non rischia di conferire al latte caratteri organolettici estranei. I fermenti lattici (termofili e favorevoli alla caseificazione) che restano nei pori del legno dopo la pulitura con la 'scotta' calda e acida (l''ultimo siero residuo della lavorazione della ricotta) agiscono  da starter naturale. L’agitazione in questa fase è importante in modo da riscaldare uniformemente tutto il latte contenuto nella caldaia. La temperatura del latte è molto importante perché influenza la consistenza del coagulo, e quindi la qualità del formaggio. Il controllo della temperatura avviene mediante un apposito termometro; in passato i casari la valutavano immergendo il gomito in quanto, in corrispondenza di esso, la pelle è più sottile, e quindi più sensibile. Una volta raggiunta la temperatura di coagulazione, si allontana la caldaia dal fuoco mediante facendo girare il braccio girevole (la  marna, o turnér,  una  gru in legno o in ferro). In alcuni calecc' si osservano ancora le modalità antiche di funzionamento della marna.  Essa era incernierata alla base in un bocc' costituito da una pietra scavata all'interno della quale la base del palo verticale della masna poteva ruotare. Nella parte superiore la masna era mantenuta in posizione da un furscèl, un tronco di larice biforcato. L'estremità dei due bracci era affondata nella muratura a secco del calecc' o baita. Non vi era alcun elemento di ferro. Al braccio orizzontale della masna  è appeso il manico della caldaia, e si aggiunge il caglio (quacc'), in quantità diversa a seconda che sia liquido oppure in polvere. La quantità di caglio varia in funzione del prodotto commerciale utilizzato che può avere diversa "forza" (titolo). Il caglio consiste in un complesso di enzimi (in prevalenza chimosina) che agisce sulla k-caseina, (una delle frazioni della casina, la principale proteina del latte), favorendone l'aggregazione e quindi la formazione della cagliata (quagiàda).  Il caglio commerciale è ottenuto dall'abomaso (stomaco) di vitello alimentato con latte. Un tempo lo si preparava "in casa" utilizzando anche gli abomasi di capretti oltre che dei vitelli; con le “pellette” essiccate si preparava una pasta che veniva conservata in una scatola di legno (quagliaröla) e “dosata” modellando delle palline più o meno grandi in funzione della quantità di latte da coagulare.Il caglio del commercio usato attualmente viene diluito in una scodella e versato in caldaia mantenendo la massa in agitazione; una volta aggiunto il caglio si lascia che esso agisca e si attende in media  35 minuti. Il casaro, valutata la consistenza della cagliata, decide il momento più opportuno per romperla.
La rottura della cagliata era effettuata inizialmente mediante un bastone in legno appiattito all'estremità (spada). Per allontanare un po’ di schiuma e di impurità, si utilizzano gli spannatoi in legno (o plastica) con manico (cazèt); essi sono utilizzati anche per una prima rottura molto delicata a fette della massa; si tratta di operazione importante dalla quale può dipendere l’esito della lavorazione. Dopo questi preliminari la rottura è eseguita con il frangicagliata (la lira) e/o con lo spino (spìgn). Lo spino consiste in una “gabbia” di sottili lamine metalliche (in passato si usavano attrezzi "casalinghi", ovvero alberelli scortecciati cui venivano mantenuti alcuni rami terminali; l’attrezzo così ottenuto era denominato tarài de la quagiada. La lira consiste in un'asta con due traverse (una all’estremità, l’altra a due terzi della lunghezza); tra le traverse sono tesi sei/otto fili metallici paralleli. Lo spino consente un’azione più rapida ed energica e si è diffuso in concomitanza con il passaggio da una lavorazione a “chicco di mais” (diffusa in passato) a quella attuale a “chicco di riso”.
Una volta terminata la rottura la caldaia viene rimessa sul fuoco per fino a raggiungere la temperatura di 48-52°C, in questa fase continua il rimescolamento (a volte inizialmente con lo spino) e poi con la "rotella" (anche qui bisogna osservare che, in passato, la temperatura di “cottura” era a volte inferiore di qualche grado). Una volta raggiunta la temperatura desiderata si toglie la caldaia dal fuoco e si prosegue nel rimescolamento con la "rotella" per ulteriori minuti. L'agitazione viene eseguita dall'alto verso il basso in senso antiorario e permette di distribuire meglio il calore all'interno della caldaia e di evitare che i granuli che si depositano sul fondo ricevendo un'eccessiva quantità di calore. L’intera operazione (“cottura” e successivo mantenimento in agitazione ha una durata di circa un’ora; i tempi sono variabili perché il casaro può decidere di raggiungere una temperatura massima che può variare anche da giorno a giorno (in funzione di quella che valuta la qualità del latte) ed può anche raggiungerla più o meno rapidamente.  I granuli a causa della fine rottura e del calore perdono buona parte di siero e, dopo ulteriori 30 minuti di sosta si depositano sul fondo della caldaia.  Al termine della sosta in caldaia affiora alla superficie il siero (lazzelùn/serun) che rappresenta la parte liquida, di colore giallo-verdognolo, separatasi dalla massa caseosa addensatasi sul fondo).
A questo punto il casaro, se la cagliata è sufficiente per ottenere più forme , inizia a tagliare la massa sul fondo con la spada, in modo da ottenere una suddivisione uguale al numero di forme che si vuole ottenere. Molto spesso, però, la forma è una sola e non è necessario suddividere la massa caseosa. Per l’estrazione della cagliata il casaro utilizza un telo di lino quadrato a maglie larghe filtrante (pàta), e lo s'immerge nel siero per inumidirlo; una volta che il telo è umido l’aiuto casaro (oggi un pastore, un tempo una figura specifica detta casinèr) tiene in ciascuna mano un lembo del telo mentre il casaro fa passare gli altri due lembi sotto la massa che si è depositata sul fondo, poi il casaro, da solo – tenendo nelle mani i quattro lembi solleva il tutto; a volte il telo con la cagliata è sollevato contemporaneamente dal casaro e dall’aiutante.  Se il casaro è privo di un assistente nel mentre il casaro fa scorrere il due lembi del telo sul fondo della caldaia per raccogliere la cagliata gli altri lembi sono trattenuti tra i denti del casaro stesso o fatti aderire al bordo superiore della caldaia.
Dopo aver mantenuto per qualche istante il telo a sgrondare sulla cagliata, il telo con il suo contenuto è posto dentro la fascera (faséra), essa è costituita da un'assicella di legno di larice piegata a vapore in modo da formare un cerchio più o meno grande in funzione di quanto la fascera stessa è stretta con una cordicella. Oggi le fascere sono spesso in plastica anche se qualcuno sta tornando al legno capace di assorbire lo spurgo all'interfaccia tra la pasta e la fascera . Per la produzione del bitto  le fascere sono da sempre sagomate in modo particolare, tale da presentare sulla faccia interna, a contatto della cagliata, un profilo convesso che consente allo scalzo (vedi) di assumere la caratteristica concavità.La forma è appoggiata allo spersoio (spresun), un pian di legno leggermente inclinato, sorretto da un cavalletto e provvisto di sponde e di un beccuccio aperto ad un'estremità (per lo scolo del siero); la fuoriuscita del siero è favorita dalla compressione esercitata da una specie di coperchio di legno (di forma quadrata o tonda) su cui è sistemata
una pesante pietra. La pressatura consente un più rapido e completo spurgo del siero favorendo una corretta acidificazione, molto importante per la maturazione successiva del formaggio.
Il giorno successivo le forme prodotte sono portate alla casera ; in un primo momento continua la fase di spurgo sullo spersoio, poi dopo qualche giorno, vengono tolti teli e fascere, e inizia la fase di salatura. Il sistema  di salatura del formaggio 'storico ribelle' è ancora effettuato prevalentemente a secco; le forme sono deposte su spessi assi in larice ottenute direttamente sul posto. Il casaro ogni giorno a rivolta le forme e le alternativamente sui due piatti. La salatura dura circa due settimane ed è molto importante perché non conferisce solo sapore al formaggio, ma favorisce lo spurgo del siero (richiamando l'acqua in superficie) e la formazione della crosta superficiale,  e seleziona anche una microflora casearia utile. Una volta terminatala fase di salatura, le forme sono poste su appositi scaffali di assi di abete (scalere), qui vengono periodicamente girate e ripulite dalle muffe mediante strofinatura o l'uso di una lama (raspa). Il casaro usava anche in passato numerare ciascuna forma e annotare su un apposito quaderno la data, il numero e il peso, per ottenere utili riscontri un sulla produzione nelle successive fasi di maturazione. Oggi le norme igienico-sanitarie prevedo che le forme commercializzate rechino un bollo ovale con il numero identificativo del produttore e la data di produzione. Questi elementi vengono impressi a bassorilievo sullo scalzo interponendo tra la fascera e la pasta delle lamine di plastica traforate. L'Associazione produttori valli del Bitto dal 2006 ha utilizzato lo stesso metodo per applicare sullo scalzo il nome dell'alpeggio (la pratica è continuata con il Consorzio salvaguardia bitto storico).
Per la produzione del formaggio 'storico ribelle' vengono adottati ancor oggi metodi e varianti personali, legati  all'esperienza e alla tradizione. Ogni casaro valuta empiricamente il latte, le cui caratteristiche di reattività al siero, acidità, composizione, variano molto nelle condizioni dell'alpeggio in relazione all'andamento meterorico, alla diversa qualità della 'pastura' giornaliera, a fattori di disturbo che provocano stress alle bovine e modifuicano la qualità del latte. In base a tutti questi fattori, che solo un'attenta sensibilità e una lunga esperienza permettono di padroneggiare, il casaro decide di variare la temperatura di riscaldamento del latte e della successiva 'cottura', la quantità di caglio, i tempi di presa del caglio stesso, il grado stesso di rottura della cagliata ecc.  È facile intuire come questo modo di procedere attenga ad una vera e propria 'arte"iche poco a che vedere con le operazioni standardizzate dei caseifici industriali (che possono applicarsi senza variazioni in quanto la qualità media del latte varia di poco). La lavorazione dello 'storico ribelle'  è non solo un procedimento molto 'personalizzato' ma anche molto lento (dura 2-3 ore). Questi 'tempi lunghi' offrono margini di adattamento e flessibilità che le lavorazioni moderne velocizzate non possono più consentire. E qui, oltre che nella lunga stagionatura nel Centro del Bitto sta uno dei segreti di un prodotto di altissima qualità.

Lecco = A Lecco confluiva una parte importante della produzione di bitto. Sino alla metà dell'Ottocento gli alpeggi della Valsassina propriamente detta (non solo quelli dell'alta Valvarrone) producevano in prevalenza formaggio grasso del tutto analogo al bitto. All'importante mercato e fiera di Lecco, attraverso la 'via del bitto' confluiva la produzione della val Biandino, di Bobbio, di Varrone e - in alcuni periodi - anche quella della Valgerola.

Legno =  Oggi, dopo un periodo di vera e propria caccia alle streghe, il legno  è stato oggetto di una riabilitazione pressoché totale da parte di tecnologi e veterinari. Non è certo l'unico caso di clamoroso dietrofront tecnoscientifico. Solo gli ingenui possono credere alla buona fede di operazioni come la demonizzazione 'scientifica' di cibi e processi di trasformazione alimentare artigianale. Nel campo lattiero-caseario il burro (in quanto ricco di grassi animali) venne criminalizzato e perse di valore per favorire l'industria della margarina ottenuta con grassi vegetali parzialmente idrogenati per trasformare l'olio in un solido. Oggi sappiamo che nel processo di idrogenazione si formano acidi grassi trans ai quali si imputano malattie coronariche e ateroslerosi, tanto che si  raccomanda la totale messa al bando dagli alimenti con acidi grassi idrogenati. Il legno è stato considerato un veicolo di contaminazione per la difficoltà di lavare le superfici degli attrezzi, dei piani di lavoro. Si era arrivati al punto di voler eliminare anche le assi di legno (di abete) utilizzate per appoggiare i formaggi in stagionatura (il che avrebbe comportato gravi problmi a causa dell'umidità del piatto delle forme a contatto con una superficie di acciaio o di plastica non in grado di assorbire l'umidità in eccesso. Nella produzione dello 'storico ribelle' sono di legno non solo le assi delle 'scalere' (le scaffalature dove vengono riposte le forme) ma anche alcuni degli  arnesi con i quali si lavora il latte in caldaia (la rotella di legno con asta che serve per tenere il latte in agitazione, la 'spannarola' con la quale si eliminano dalla superficie del latte le impurità), le fascere di larice che servono per la messa in forma della cagliata appena estratta dalla caldaia, lo spresùr, il tavolo inclinatodove viene appoggiata la fascera contenente la pasta per consentite lo spurgo del siero. Mosé Manni, il 'patriarca', sino a pochissimi anni fa usava il secchio di legno anche per mungere. Se il legno è pulito, come si faceva un tempo e come si fa ancora oggi con la scotta caldissima, residuo della lavorazione della maschèrpa (vedi), la forte acidità di questo liquido e il calore esercitano una selezione di microrganismi 'buoni' che, venendo il legno a contatto con il latte delle successive lavorazioni, consentirà un 'insemenzamento' . Di fatto lavorando in modo  tradizionale , con attrezzi di legno non c'è bisogno di 'fermenti' perché il latte è arricchito di quelli veramente autoctoni del luogo di produzione.

Lesina (val) = Valle adiacente alla valle del Bitto dove nella generalità degli alpeggi sino alla prima parte del Novecento si produceva bitto. La scarsa accessibilità ha progressivamente fatto cessare la produzione casearia. Oggi gli alpeggi, tranne l'alpe Legnone caricata solo con capre (che vengono utilizzate per la produzione casearia) sono caricati con animali asciutti o da carne.

Livrio (val) = Una delle valli orobiche valtellinesi dove, in qualche alpeggio, si produceva bitto.






 

 

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